La legge prevede anche misure di sostegno dell'occupazione femminile e di valorizzazione delle competenze delle donne. Questi sono strumenti e una legge da sola non può fare la differenza. Una legge deve accompagnare un percorso - che in questo caso, come in molti altri, è culturale - ma soprattutto deve saper interpretare lo spirito del tempo.
Dalla fine della Seconda Guerra mondiale parlamentari, sindacaliste e leader di associazioni femminili e femministe – i gruppi di difesa della donna prima, l’unione donne italiane UDI dopo - si sono battute con forza per la parità salariale, che pur non rientrava prioritariamente nell’agenda delle organizzazioni sindacali e dei partiti politici.
Il principio di parità tra uomo e donna e la parità salariale entrarono nel testo della Costituzione repubblicana del 1948 con l’articolo 37, che nasce come un compromesso e tiene insieme il principio di uguaglianza di trattamento e il tema della funzione familiare della lavoratrice. A causa della pressocché nulla implementazione del dettato costituzionale i contratti di lavoro, sia nel settore privato che in quello pubblico, continuarono per molto tempo a riproporre uno schema al ribasso basato sul sesso e, in ultima analisi, su una svalutazione del lavoro femminile.
Intorno a queste contraddizioni si sviluppò la discussione relativamente alla Convenzione OIL n. 100 che sancisce l’obbligo degli Stati di garantire l’applicazione del principio di parità di trattamento retributivo attraverso la valutazione del valore del lavoro, a prescindere dal fatto che la prestazione sia svolta da una lavoratrice o un lavoratore. Questo dibattito e la ratifica della Convenzione nel 1956 da parte dell’Italia, innescarono un processo irreversibile di riforme legislative e della contrattazione collettiva che abolirono i trattamenti salariali differenziati sulla base del sesso.
Abbiamo dovuto aspettare il 1977, però, affinché il Parlamento italiano, grazie alla tenacia e la visione di Tina Anselmi, approvasse la legge sulla parità di trattamento tra uomini e donne nel lavoro.
Oggi, dopo 44 anni dall’approvazione della famosa Legge 603, ancora una donna su due in Italia non lavora e i dati relativi alla parità di genere nel mondo del lavoro sono tutt’altro che positivi. Secondo l’ultimo report sul gender gap nel lavoro del Forum economico globale siamo 117esimi su 153 paesi al mondo.
Se la contrattazione collettiva e i minimi retributivi - ottenuti dopo il lungo percorso sopra menzionato - contengono, almeno formalmente, il gap retributivo nel lavoro subordinato, la situazione è allarmante per le libere professioniste che nel Lazio guadagnano in media il 45% in meno dei colleghi uomini.
Nel frattempo, le donne sono entrate nel mercato del lavoro, trasversalmente, in tutti i settori. Si sono specializzate e hanno preso il loro spazio in ogni professione. Nonostante questo, il divario di genere rimane.
Secondo l’ultimo rapporto Adepp, per esempio, se un medico nel Lazio dichiara un reddito di 52 mila euro annui, per le colleghe il dato si ferma a 35 mila. Un’avvocata guadagna circa 27 mila euro l’anno di fronte i 65 mila dei colleghi uomini, il 41% in meno. Ma ancora le biologhe 17 mila contro 22 mila degli uomini e le psicologhe 11 mila a fronte di 17 mila dei colleghi.
Oggi come nel dopoguerra ci troviamo di fronte a una crisi e alla complessità della ripresa. Perché di fronte alla pandemia sono cambiati paradigmi, gli schemi e devono cambiare le risposte. C’è bisogno di coraggio e di concretezza, di visione per portare le nostre città e l’Italia nel terzo millennio.
La complessità dell’attuale realtà ci pone sfide inedite sia per l’analisi che per le azioni da mettere in campo. I dati mostrano con freddezza e chiarezza che questa crisi non è stata uguale per tutte e tutti, ma ha allargato le diseguaglianze e colpito maggiormente settori economici e gruppi sociali già più deboli tra cui, ancora una volta figurano le donne.
Donne che lavorano meno, con contratti più precari, con un maggiore carico di lavoro di cura non retribuito sulle spalle. Una situazione - per ovvi motivi - esasperate dalla pandemia.
In Regione Lazio abbiamo provato a dare una risposta concreta a tutto questo. Una risposta che parte da lontano - con una proposta di legge presentata nel 2019 - e che guarda lontano. Oggi più che mai urgente per essere all’altezza delle sfide che la crisi ci ha imposto e per onorare il lavoro delle nostre madri costituenti, delle combattenti fuori e dentro le istituzioni che hanno creduto a questa battaglia come volano di dignità e resistenza femminile.
La proposta 182 (ora legge dopo l'approvazione all'unanimità il 19 maggio scorso) in materia di parità retributiva, sostegno all’occupazione femminile stabile e di qualità e valorizzazione delle competenze delle donne è un risposta trasversale e onnicomprensiva che offre - con una dotazione finanziaria di 7,66 milioni di euro per il prossimo triennio - strumenti concreti per agire alla radici delle discriminazioni nel mondo del lavoro.
Ci muoviamo sui tre assi contenuti nel titolo: un registro per le imprese virtuose in materia di parità di genere e un relativo sistema di premialità, potenziamento dell’osservatorio regionale sulle pari opportunità con competenze specifiche per favorire monitoraggio, trasparenza e diffusione di una cultura aziendale paritaria. Sportelli dedicati nei centri per l’impiego, un fondo di 2,5 milioni di euro per l’imprenditoria femminile, un focus sulla formazione e le nuove competenze - in particolare STEM, educazione finanziaria e digitale, empowerment e leadership - con incentivi per le imprese che assumono donne a tempo indeterminato. Abbiamo previsto un’attenzione specifica per le donne in condizioni più fragili con dei fondi per il reinserimento lavorativo delle donne disabili o inserite nella rete regionale dei centri antiviolenza e case rifugio, ma anche un fondo per il microcredito di emergenza.
C’è poi tutto il tema degli strumenti di conciliazione dei tempi di vita che con 2,7 milioni si traduce in buoni per acquistare servizi di baby-sitting negli 11 mesi successivi al congedo di maternità obbligatorio - per tornare, se lo si vuole, con serenità a lavoro - ma anche indennizzi per l’attività di caregiver e buoni per i padri che usufruiscono dei congedi paternità in alternativa alle compagne.
E infine il fondamentale tema dell’equa rappresentanza. Poiché non c’è peggior strumento di svalutazione delle competenze femminili che la loro esclusione dai luoghi del potere e decisionali. E allora prevediamo che in tutte le nomine di competenza regionale, su base annua, ciascun genere non potrà essere rappresentato per più di ⅔ e attiviamo un percorso di premailità per i Comuni che nella composizione delle Giunte, coerentemente con quanto previsto dalla normativa nazionale, rispettino un’adeguata rappresentanza di amministratrici.
Questi sono strumenti e una legge da sola non può fare la differenza. Una legge deve accompagnare un percorso - che in questo caso, come in molti altri, è culturale - ma soprattutto deve saper interpretare lo spirito del tempo.
In momenti come questi, come quello dell’approvazione della riforma 0/6 anni, penso al futuro. Alle bambine che ci guardano ignare e per le quali dobbiamo combattere. Nel Lazio abbiamo messo un mattoncino in più per costruire un futuro in cui ci saranno luoghi e azioni per la piena realizzazione di loro stesse attraverso la valorizzazione delle proprie competenze. Un futuro in cui sarà possibile trasformare il disagio in riscatto.
Un mattone per una nuova prospettiva, per andare oltre i ruoli assegnati nella società, per provare a far prendere loro quello che le aspetta. Tutto e subito.
Per gli occhi delle bambine piene di sogni e per un futuro dove a ciascuna sia data l’opportunità di nuotare in mare aperto.
Eleonora Mattia
Presidente della IX Commissione lavoro e pari opportunità in Consiglio Regionale del Lazio e prima firmataria della proposta di legge
28 maggio 2021