Convegno “Nilde Iotti: una storia politica femminile”. L’intervento di Grazia Labate

Se le donne rinunciano al lavoro per dedicarsi ai figli e alla famiglia, si hanno gravi effetti sulla crescita economica del Paese. Ecco di tutto questo oggi vogliamo discutere perché lo sentiamo un patrimonio vissuto, di tante nostre battaglie, che devono continuare, perché la parità sostanziale si compia e offra alle nuove generazioni femminili una strada senza più pietre di inciampo e senza soffitti di cristallo.


Legge 8 marzo 2000, n. 53, "Disposizioni per il sostegno della maternità e della paternità, per il diritto alla cura e alla formazione e per il coordinamento dei tempi delle città".

I contenuti e la data di questa legge sono rimasti scolpiti nella nostra mente, anche se sono trascorsi 22 anni.
Questa legge è frutto di una vasta mobilitazione sociale delle donne, che ha visto protagoniste le donne dei sindacati, del lavoro autonomo ed artigiano, delle coltivatrici dirette, delle imprenditrici; le donne dei partiti e delle associazioni e i movimenti femminili.

Essa mette al centro la risorsa “tempo”: come poter conciliare e vivere bene i tempi del lavoro, con quelli della cura, della formazione, delle relazioni umane e come rendere vivibili i tempi delle città.

La legge 53, dell’8 marzo 2000, fu preceduta da una proposta di legge di iniziativa popolare “Le donne cambiano i tempi” promossa nel 1987 dalle donne del PCI che raccolse 300.000 firme. Fu sostenuta da Nilde Iotti, allora Presidente della Camera e dal Ministro del Lavoro Tina Anselmi. Essa fu esaminata dalla Commissione Lavoro della Camera in sede di discussione generale nel corso della decima legislatura, ma poi il suo iter si interruppe.

La legge 53 fu proposta, successivamente, dal Governo Prodi, Ministro della Solidarietà sociale Livia Turco, fu approvata durante il Governo D’Alema, l’8 marzo 2000. Relatrici furono l’On. Elena Cordoni alla Camera e la Senatrice Ornella Piloni al Senato.

Il testo di legge presentato dal Governo raccoglieva le proposte e i suggerimenti oltre che dei movimenti femminili, anche dei sindacati e delle imprese, presentate al tavolo di concertazione istituito presso il Ministero della Solidarietà Sociale.
Per superare le ostilità che soprattutto da parte della Confindustria si manifestavano nei confronti della legge e per coinvolgere tutte le forze politiche e sociali, su iniziativa di Anna Maria Parente, coordinatrice nazionale delle Donne CISL, i coordinamenti femminili di CGIL, CISL e UIL promossero una larga raccolta di firme tra le lavoratrici che fu consegnata al Presidente della Camera Luciano Violante. Quella mobilitazione femminile fu determinante per l’approvazione della legge.
Attualmente Annamaria Parente è senatrice, Presidente della Commissione Igiene e Sanità del Senato.

E’ noto che , fino alla soglia degli anni Settanta del Novecento, la figura socialtipica del lavoratore, (sulla quale, nei diversi contesti nazionali ed europei, era stato plasmato il diritto del lavoro e le sue tutele) coincidesse con la figura del lavoratore adulto, di sesso maschile, operaio o impiegato a tempo indeterminato e con orario pieno, in un’impresa industriale di dimensioni medio-grandi.

Proprio a partire da quel periodo storico, il quadro di riferimento era progressivamente e significativamente mutato: l’ingresso massiccio della componente femminile nel mercato del lavoro (con la progressiva, marcata, terziarizzazione dell’economia), le parallele e forti rivendicazioni per un’eguaglianza non più solo formale, ma anche sostanziale, portate avanti dai movimenti delle donne, le conseguenti lotte per l’attivazione di processi di emancipazione sociale ed economica avevano evidenziato la necessità, non più eludibile, di adottare concrete misure per contrastare le persistenti discriminazioni nei confronti delle lavoratrici e le maggiori difficoltà da queste incontrate nel mondo del lavoro.

Realizzare finalmente quell’eguaglianza sostanziale che, obiettivo fondamentale della Repubblica, si trova al centro anche del dettato costituzionale.

Sono stati proprio i profondi mutamenti sociali cui si è fatto cenno, che anche nel nostro Paese, hanno favorito, da un lato, importanti modifiche normative (a partire dall’adozione della ‘storica’ l. n. 903/77) e, successivamente, un complessivo ripensamento del quadro regolativo in materia di eguaglianza di opportunità, con la valorizzazione, in chiave di eguaglianza sostanziale, dello strumento delle azioni positive, terminologia e strumenti molto più usati in Europa. Nello specifico, tale percorso ha preso le mosse da una forte riaffermazione del principio di parità formale (anni Settanta), per poi spostare l’asse della riflessione sul tema dell’eguaglianza sostanziale e, quindi, dell’azione positiva come possibile ed utile strumento operativo per perseguirla (anni Ottanta), per muovere, infine, a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, in direzione di una promozione del c.d. gender mainstreaming.

Proporre cioè l’obiettivo dell’integrazione trasversale in tutte le politiche pubbliche del tema della parità di genere e del contrasto ad ogni possibile fattore di discriminazione in tale ambito.

Il legislatore italiano è intervenuto sul punto, dettando le regole ed i confini per questi interventi con le disposizioni della legge n. 125 del 1991 (c.d. legge “sulle azioni positive”), i cui contenuti sono poi confluiti nel d. lgs. n. 198/2006 (c.d. “codice delle pari opportunità”), disposizioni che hanno favorito e sostenuto negli anni – sia pure con il limite non indifferente, dato dalle limitate risorse stanziate per tali obiettivi, lo sviluppo di una interessante progettualità, da parte tanto di soggetti privati (imprese, associazioni sindacali e datori di lavoro ecc.) quanto di enti pubblici.

Ne sono esempio le tante iniziative: dal mitico caso Modena in cui Alfonsina Rinaldi sindaca, riorganizza orari e tempi dei nidi, degli esercizi commerciali e dei servizi pubblici in genere a misura di donna, del Veneto con Delia Murer quale dirigente femminile del PCI prima: e poi deputata della repubblica, cosi come con Silvana Amati, presidente del consiglio regionale delle Marche e poi senatrice della repubblica,, con Elena Cordoni dirigente femminile della Toscana e poi deputata della repubblica e relatrice della legge in questione, che possono testimomiare il grande impegno di quegli anni.

Così come con Alessandra Tazza, allora dirigente femminile della Coldiretti, testimone lungimirante della necessità del patto tra donne per la la parità in un’area difficile culturalmente e strutturalmente, di produzione economica del ns. paese.

L’esplorazione e le diverse esperienze hanno fatto emergere i possibili scarti tra la teoria e la pratica, le strategie individuali di conciliazione necessarie, ma anche il dato fortemente impattante della non parità salariale, quale macigno che di fatto non consente di dispiegare tutta la potenzialità delle conquiste fin qui conseguite. Un secondo tema che emerge all'incrocio tra cura, servizi e pianificazione è quello della conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, da cui sono nati i Piani dei Tempi e degli Orari in alcune città italiane: “il progetto di legge di iniziativa popolare dal titolo "Le donne cambiano i tempi", presentato nel 1989, le sperimentazioni locali che si sono intrecciate con l'approvazione di una serie di dispositivi legislativi, a livello nazionale, come regionale, hanno portato all'obbligo per le città con più di 30.000 abitanti di predisporre un piano territoriale degli orari, sancito dalla legge n.53/2000.

È bene tuttavia ribadire l'istanza originale per non rischiare che venga occultata dal turbinio di un fare non sempre coerente con essa. ' Il Piano degli orari' in tante città italiane nasce dalla volontà di garantire per tutti i cittadini, uomini e donne, tre grandi diritti: il diritto all''autogoverno del tempo'; il diritto alla libera espressione della propria personalità nelle varie dimensioni dell'esistenza (lavoro, cura, tempo libero, formazione, affettività, vita di relazione); il diritto a prestare e a ricevere cura.”

Tra le iniziative nazionali è possibile elencare quella dei Bilanci di Genere: “un processo di rendicontazione per rilevare – in modo processualmente definito e riproducibile – le azioni dell’amministrazione pubblica locale in fatto di produzione di parità tra i sessi e di miglioramento della condizione femminile; ciò viene concepito a priori come un interesse pubblico rilevante. Quello che dovrà essere rendicontato è dunque – in prospettiva – il formarsi del vantaggio pubblico attraverso l’azione normativa e amministrativa.”

Torniamo alla legge 53, 28 articoli organizzati in VII Capi. attraverso:
a) l'istituzione dei congedi dei genitori e l'estensione del sostegno ai genitori di soggetti portatori di handicap;
b) l'istituzione del congedo per la formazione continua e l'estensione dei congedi per la formazione;
c) il coordinamento dei tempi di funzionamento delle città e la promozione dell'uso del tempo per fini di solidarietà sociale.

Il Capo I riguarda i principi generali (sopra riportati). Il Capo II è dedicato ai congedi parentali, familiari e formativi. Il Capo III alla flessibilità di orario. Il Capo IV ad ulteriori disposizioni a sostegno della maternità e della paternità. Il Capo V riguarda le modifiche alla Legge 5 febbraio 1992, n. 104. Il Capo VI alle norme finanziarie e, infine, il Capo VII, ai tempi della città.

Segnalo infine gli articoli 19 e 20, rispettivamente rubricati, "Permessi per l'assistenza a portatori di handicap" e "Estensione delle agevolazioni per l'assistenza a portatori di handicap".
La normativa principale di riferimento sui congedi parentali è rinvenibile nel decreto legislativo del 26 marzo 2001, n. 151 e successive modifiche ed integrazioni, recante “Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell'articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53”, nonché nelle leggi di bilancio, nei decreti attuativi e nelle circolari dell’INPS che hanno fatto seguito alle più recenti riforme in materia. Altri strumenti di conciliazione, come ad esempio la banca delle ore, sono rinvenibili nei CCNL (Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro), ed anche in alcune fonti europee.

Risoluzione del Parlamento europeo del 13 settembre 2016 “Creating labour market conditions favourable for work-life balance”. Prevede che la conciliazione tra vita professionale, privata e familiare debba essere garantita quale diritto fondamentale di tutti, nello spirito della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, con misure che siano disponibili a ogni individuo, non solo alle giovani madri, ai padri o a chi fornisce assistenza. La disposizione promuove l'introduzione di un quadro per garantire che tale diritto rappresenti un obiettivo fondamentale
dei sistemi sociali e invita l'UE e gli Stati membri a promuovere, sia nel settore pubblico che privato, modelli di welfare aziendale che rispettino il diritto all'equilibrio tra vita professionale e vita privata. Infine, la stessa risoluzione prevede che tale diritto sia integrato in tutte le iniziative dell'UE che possano avere un impatto diretto o indiretto su tale tema.

Dovendo pensare oggi ai principali ostacoli all’eguaglianza sostanziale di donne e uomini che permangono in questo momento storico, vengono in evidenza due livelli del discorso distinti, benché intrecciati. C’è il livello della vita pubblica-politica: l’accesso non ancora paritario alle cariche rappresentative, alle posizioni apicali negli organi di governo e di garanzia, in generale ai vertici delle carriere professionali più rilevanti sotto il profilo pubblico: il famoso soffitto di cristallo. In questa sfera c’è un cammino in corso, per il cui avanzamento sono parimenti indispensabili, da un lato, le clausole costituzionali e la legislazione incentivante la parità di genere; dall’altro, una profonda evoluzione culturale e politica, che deve interessare la classe dirigente che scrive le leggi, che fa le nomine, che elegge gli organi, ma anche i cittadini e le cittadine che esercitano l’elettorato attivo.

L’obiettivo è quello della presenza paritaria di uomini e donne sulla scena politica e ai vertici delle istituzioni, come segno tangibile di una democrazia duale matura, nella quale le donne sono chiamate a portare nella determinazione dell’agenda politica e nella sua attuazione la loro specificità, affinché essa vada a integrare quella pari, ma inevitabilmente diversa, degli uomini. C’è poi il livello della vita privata-familiare e della vita sociale-lavorativa: della vita, cioè, che riguarda quotidianamente ogni uomo e ogni donna.

Vorrei chiamare “pietre di inciampo” della parità di genere, e su questo richiamare la Vs. attenzione: gli ostacoli “di fatto” in cui ogni donna inciampa ogni giorno. A partire dall’asimmetrica distribuzione del lavoro familiare, domestico e di cura, tra uomini e donne.

I dati statistici sono chiari ed inequivocabili:
in una coppia tra i 25 e i 64 anni, sul totale del carico di lavoro familiare, quello della donna rappresenta il 21,7% della sua giornata (pari a 5h13’), contro il 7,6% di quello degli uomini (1h50’);
in una coppia di genitori entrambi occupati tra i 25 e i 44 anni (“giovani adulti”), il 67,3% del lavoro familiare è a carico della donna; il 75% se la madre non è occupata . Che il lavoro di cura gravi per la gran parte sulle spalle delle donne è frutto di un radicato schema sociale di distribuzione dei carichi familiari che alla donna si impone, solo in minima parte riguarda l’adesione alle proprie aspirazioni e inclinazioni.

Lamentare questa impari distribuzione non è, si badi, recriminazione da desperate hausewives: solo a una lettura superficiale essa può apparire irrilevante.. In realtà è la radice di molte altre disuguaglianze, con importanti ricadute private e pubbliche.

Come ha evidenziato anche l’Istituto Europeo per l’Uguaglianza di genere, che nel 2019 ha concentrato il suo Gender Equality Index proprio sull’equilibrio tra lavoro e vita privata (Più spesso le donne sono in una via di mezzo, in cui cercano di tenere in difficile equilibrio le due vite, quella familiare e quella extrafamiliare (le “equilibriste”). In ogni caso la maternità è da molte vissuta o temuta – come già denunciava Nilde Iotti in Assemblea costituente – alla stregua di «un peso e non fonte di gioia e aiuto per lo sviluppo della propria persona» . I dati, nella loro asciuttezza, sono eloquenti e aiutano a dare concretezza a queste riflessioni .

In Italia nel II trimestre 2020 è occupato il 48,4% delle donne, contro il 66,6% degli uomini: è il divario di genere – al 18,2% - più marcato rispetto alla media UE27.

Il Covid-19 ha ulteriormente inciso su questa già grave situazione: basti qui ricordare il solo drammatico dato del mese di dicembre 2020, per cui su 101.000 posti di lavoro persi a causa della crisi economica innescata dalla pandemia, 99.000 sono di donne; 2.000 di uomini.

Ma in generale nel 2020, su quattro lavoratori che hanno perso il lavoro, tre sono donne: 312.000 contro 132.000. Eppure in Italia hanno il diploma il 64,4 % delle donne (vs il 59,8% degli uomini); il 22,6% ha conseguito una laurea (vs il 16,8% degli uomini); dei dottori di ricerca, circa il 54% è donna. Quindi non è un problema di merito: le giovani donne hanno livelli di istruzione più elevati rispetto ai loro pari uomini. E tuttavia si registrano gravi differenziali a loro sfavore nei tassi di occupazione all’uscita dagli studi.

Nella scarsa partecipazione delle donne nel mercato del lavoro un ruolo fondamentale è giocato proprio dalla difficoltà di conciliazione tra carichi familiari e carichi di lavoro extradomestico. Ciò è reso evidente dal fatto che la differenza nei tassi di occupazione tra uomini e donne sono più ampie se le donne hanno figli (il divario di genere passa dal 18,2% al 28,5%). Inoltre, tra le stesse donne, il tasso di occupazione delle donne tra i 25 e 49 anni è l’81% se vivono da sole; il 70,8% se vivono in coppia senza figli; crolla al 56,4% se sono madri28 . Sono i dati Istat riferiti agli anni 2019-2020. L’occupazione femminile varia poi molto all’interno del Paese, passando dal 59,7% del Nord al 55,9% del centro e al 32,8% del Sud.

I dati Eurostat confermano i dati Istat: il tasso di occupazione femminile in Italia nel 2019 è il più basso tra i paesi UE, con il divario di occupazione di genere più ampio (su www.ec.europa.eu/eurostat). Ed è un serpente che si morde la coda: i disequilibri all’interno della famiglia si riflettono sulla posizione lavorativa della donna, e la debolezza lavorativa della donna si riflette sui compiti familiari: «se le donne guadagnano meno degli uomini, se hanno minori possibilità di carriera e sono occupate in lavori meno retribuiti, diventano il soggetto più debole e più sacrificabile nella coppia».

Queste vicende private hanno rilevantissime ricadute pubbliche. Se le donne rinunciano al lavoro per dedicarsi ai figli e alla famiglia, si hanno gravi effetti sulla crescita economica del Paese.
Ecco di tutto questo oggi vogliamo discutere perché lo sentiamo un patrimonio vissuto, di tante nostre battaglie, che devono continuare, perché la parità sostanziale si compia e offra alle nuove generazioni femminili una strada senza più pietre di inciampo e senza soffitti di cristallo.

Grazia Labate

Ricercatrice in economia sanitaria, già sottosegretaria alla sanità