Quote e rappresentanza
di Claudia Mancina, Presidente Comitato Scientifico Fondazione Nilde Iotti

L’idea che si debba in qualche modo garantire la presenza di un congruo numero di donne nelle assemblee elettive è diventata un pilastro della correttezza politica. Il che ovviamente non esclude che poi, soprattutto al riparo del voto segreto, venga a galla la verità: cioè che molti che a parole si inchinano a quell’idea poi si guardano bene dal prendere decisioni vincolanti e definitive in coerenza con quelle parole.

Quote, equilibrio della rappresentanza, democrazia paritaria: sono solo alcuni dei termini che già da molti anni animano un dibattito spesso confuso, molto polarizzato, ma ormai pervasivo. L’idea che si debba in qualche modo garantire la presenza di un congruo numero di donne nelle assemblee elettive è diventata un pilastro della correttezza politica. Il che ovviamente non esclude che poi, soprattutto al riparo del voto segreto, venga a galla la verità: cioè che molti che a parole si inchinano a quell’idea poi si guardano bene dal prendere decisioni vincolanti e definitive in coerenza con quelle parole. La vicenda delle mancate quote nella legge elettorale del 2005 (poi definita Porcellum), plasticamente riassunta nel pianto in aula di Stefania Prestigiacomo, allora ministra delle Pari opportunità, dice tutto.
Se però si lasciano da parte i riti e i luoghi comuni della correttezza politica, ci si trova di fronte a una serie di problemi, sui quali si è cimentata una vasta letteratura politologica e filosofico-politica. Di primaria importanza, inoltre, la giurisprudenza costituzionale.
Il modo migliore di affrontare l’argomento mi sembra quello di porre alcuni interrogativi, che sono: 1. Perché l’assenza o scarsità di donne nella rappresentanza e in genere nell’attività politica, propria della maggioranza dei Paesi democratici, è un problema? 2. Ammesso che lo sia, è possibile identificare almeno parte dei motivi di questa situazione, dopo circasettant’anni (in Italia; in altri Paesi un po’ di più) di voto femminile? 3. La strategia di soluzione che consiste nell’agire sulle leggi elettorali è davvero quella giusta? 4. Quali altre strategie sono immaginabili? 5. Come si connettono rappresentanza e leadership? È chiaro che la risposta a queste domande deve tener conto sia del tipo di leggi elettorali in questione sia delle conseguenze
politiche che le diverse strategie possono produrre.
Prima ancora, però, vorrei discutere le espressioni citate all’inizio, che non sono affatto equivalenti tra loro. In una prima fase, quella in cui iniziarono i dibattiti parlamentari sul tema, che sfociarono nelle leggi elettorali del 1993, nella legge del 2001 sulle Regioni a statuto speciale e poi, sempre nel 2001, nella riforma del titolo V, si usava molto l’espressione «equilibrio (o riequilibrio) della rappresentanza», posta come obiettivo dichiarato delle norme introdotte. Si tratta di un’espressione in cui l’allusione a un traguardo ideale prevale sulla definizione degli obiettivi legislativi; cioè un’espressione approssimativa e ideologica come tante che incontriamo purtroppo nel nostro linguaggio politico. Se infatti dovessimo prenderla alla lettera, l’obiettivo di riequilibrare la rappresentanza comporterebbe di garantire la composizione equilibrata delle assemblee: garantire cioè il numero delle elette; e quale proporzione potrebbe soddisfare la richiesta di equilibrio? Forse il 50 e 50? Oppure una proporzione calcolata in base al numero delle elettrici? In realtà non mancano esempi di leggi che garantiscano un numero definito di elette, in Paesi africani o asiatici (come l’Afghanistan impegnato nella lotta contro l’oppressione talebana
delle donne), cioè in Paesi che stanno costruendo adesso, dall’alto, delle istituzioni simil-democratiche. Ma non sarebbe una soluzione praticabile in Paesi con una tradizione democratica e liberale, caratterizzata dalla libertà del voto e dell’organizzazione politica. Per non dire che, in Italia, sarebbe del tutto incostituzionale. Ciò che si può fare, nei Paesi democratici, nei quali la libertà di voto dell’elettore è un principio fondamentale, è garantire un numero definito di candidature femminili. Ed è ciò che si fa quando si sceglie di seguire la via legislativa (non è la via più seguita; nella maggior parte dei casi, anche nei celebrati Paesi scandinavi, l’alto numero di elette non è stato raggiunto attraverso le leggi elettorali ma a seguito di decisioni politiche dei partiti).
In questo caso ci imbattiamo in due concezioni diverse: quella delle quote, e quella della parità. La differenza tra queste due impostazioni è più che altro filosofica, nel senso che rimanda a diversi modi di affrontare il problema della rappresentanza, sulla base di diversi modi di concepire il soggetto politico «donne»; ma non sempre si esprime anche con soluzioni diverse. In linea generale si può dire questo: le quote sono una soluzione pragmatica, e in alcuni casi temporanea, al problema di fatto rappresentato dalla scarsa presenza delle donne, commonsensically attribuito ad una qualche sorta di discriminazione. pragmatica al problema In altre parole, il ragionamento è que-rappresentato da una qualche sto: se le donne, pur avendo gli stessi discriminazione diritti di elettorato attivo e passivo degli uomini, sono così evidentemente minoritarie in tutte le assemblee, ci dev’essere una discriminazione o almeno un effetto discriminatorio dei meccanismi secondo cui funziona la selezione politica. Dunque, nella logica delle azioni positive (o, in Italia, nella logica dell’art. 3 Cost., secondo comma), bisogna forzare i soggetti della selezione politica, cioè i partiti, a mettere in lista un certo numero di donne che consentano di raggiungere una soglia minima di elette. Nel caso italiano, dopo un lungo travaglio e due contrastanti sentenze della Corte costituzionale (la 422 del 1995, che annullava le norme di favore per le donne nella legge del 1993, e la 49 del 2003, che invece le legittimava nella formulazione neutra, cioè riferita a soglie minime per ciascun sesso), abbiamo oggi molti statuti regionali che prevedono quote, ma non c’è niente di questo nella legge nazionale. Come conseguenza, la percentuale di donne elette in Parlamento è molto bassa; 21% alla Camera, 19% al Senato. Vedremo cosa succederà nell’attuale possibile riforma elettorale.
Nel frattempo però si è fatto avanti il tema della parità. Originariamente elaborato in Francia, il concetto di parità nasce dalla critica delle quote, viste come una soluzione umiliante e limitante, una soluzione che schiaccia le donne nel ruolo di una categoria, un gruppo di interesse, o peggio una minoranza (in effetti le quote – non elettorali, ma nelle assunzioni e nell’accesso all’università – sono state inventate negli Stati Uniti per tutelare le minoranza etniche). Le francesi, seguendo un approccio filosofico tipicamente universalista, hanno quindi sviluppato l’idea che la rappresentanza deve rispondere al fatto che le donne, lungi dall’essere una categoria, sono una metà dell’essere umano, e perciò anche una metà della nazione. Non è una questione di quantità ma di essenza: l’essere umano si dà in due forme di egual valore, maschio e femmina. Si elimina così il problema di come quantificare le quote (in relazione agli abitanti, ai votanti, agli iscritti al partito, ecc.). Nessuna quota, in quanto tale, può rispondere all’obiettivo di rendere universale la democrazia: le donne sono la metà del popolo sovrano, dunque non c’è democrazia se la rappresentanza non è paritaria (Gaspard, Servan-Schreiber e Le Gall, Au pouvoir, Citoyennes! Liberté, Egalité, Parité, 1992). La parità non va confusa con una più equa rappresentanza, ma è una nuova idea della democrazia, che pretende che questa rappresenti la nazione nella sua interezza (Agacinski, La politica dei sessi, 1998). Come si traduce nella pratica questo discorso? Si potrebbe dire, mettendo da parte il ricco dibattito filosofico sulla questione, che si traduce in una quota del 50%. Quote o parità, tutte le soluzioni incontrano comunque un limite invalicabile, costituito dal tipo di legge elettorale su cui impattano. Si possono inserire obbligatoriamente candidature femminili solo là dove ci siano liste. Nei collegi non è possibile farlo, se non esaltando il potere di scelta del centro dei partiti,
e quindi andando contro la logica profonda del sistema dei collegi, la cui caratteristica è appunto quella di rendere la selezione deicandidati più locale e più autonoma dai vertici. È tipica, per fare un esempio, la confusione sulla legge francese del 2000, di cui si lamenta, a fronte di un ottimo risultato nelle elezioni amministrative, uno scarso risultato in quelle politiche. Ma quella legge, che ha introdotto l’alternanza uomo-donna nelle elezioni amministrative, fondate su liste, per le elezioni politiche, che notoriamente sono fondate su collegi uninominali a doppio turno, non ha potuto fare altro che prevedere sanzioni economiche per i partiti in cui lo scarto tra i candidati presentati per ciascun sesso superi il 2%: sanzioni che i par-parità anziché di quo-titi preferiscono pagare pur di conservare te aiuta a immaginare la loro libertà di candidare chi vogliono. Per soluzioni nuove superare questo ostacolo è emersa l’idea dei collegi binominali, avanzata con poca fortuna sia in Francia che in Italia, cioè collegi nei quali si presenterebbero in coppia per lo stesso partito un uomo e una donna (da eleggere insieme, in alcune proposte, o in alternativa, in altre). Un’idea che non ha convinto, per ragioni pratiche e organizzative, ma forse anche perché comporterebbe un’alterazione troppo forte della struttura della rappresentanza. Bisogna riconoscere tuttavia che pensare in termini di democrazia paritaria anziché di quote aiuta a immaginare soluzioni nuove. 
Come quella della doppia preferenza, o preferenza di genere, diventata oggi legge in Italia per le elezioni comunali: si dà la possibilità di esprimere una seconda preferenza soltanto se di genere diverso dalla prima. Indubbiamente una soluzione innovativa e interessante, che conferma però quanto abbiamo appena detto: interventi di questo tipo si possono fare solo sul voto di lista (e in questo caso anche con la preferenza!). Proprio per questo molte donne ritengono che i sistemi proporzionali favoriscano le donne e siano quindi preferibili. In realtà le cose sono più complicate: è vero che i sistemi proporzionali consentono ai partiti di bilanciare la composizione delle liste rispetto a molteplici interessi, mentre questo è più difficile o addirittura impossibile con i collegi. Tuttavia tutto dipende o dalla volontà politica dei partiti o da una norma di legge, che comunque dovrà sempre misurarsi con la scelta libera degli elettori. Basta questo per preferire un sistema proporzionale, anche se da un punto di vista generale si pensa che sia migliore il sistema maggioritario con collegi uninominali? Se si risponde affermativamente, si sta dicendo che le donne sono candidate deboli poco attrezzate per competere nei collegi. Ma questo, oltre a essere espressione di un atteggiamento vittimista poco coerente con la pretesa della rappresentanza paritaria, è smentito dai fatti: le donne candidate nei collegi non hanno minori chances di essere elette, vedi il caso del New Labour nel 1997 (D’Amico, Il difficile cammino della democrazia paritaria, 2011). Il problema è arrivare alla candidatura. E certamente l’obbligo di legge è più rassicurante. Forse però è ora che le donne si misurino con il tema della competitività (su questo punto tornerò più avanti).
Veniamo ora agli interrogativi posti più sopra.
1. Perché l’assenza o scarsità di donne nella rappresentanza e in genere nell’attività politica è un problema? Dato che le donne non sono una minoranza e non condividono comuni condizioni di debolezza economica o culturale, ma sono presenti allo stesso modo in tutti i ceti sociali, in tutte le aree geografiche e in tutte le parti politiche, una sottorappresentazione così pronunciata e così generale (con l’importante eccezione dei Paesi scandinavi e della Germania) ha qualcosa di strano. A meno di ammettere che le donne siano spiccatamente negate per la politica, si deve ritenere che ci sia una discriminazione di fatto, anche se difficile da individuare. Il primo aspetto del problema è quindi di giustizia: le discriminazioni devono essere eliminate. Si devono immaginare misure che operino per eliminare quella discriminazione, anche se non ne conosciamo bene il meccanismo. Poi c’è un aspetto messo in evidenza già centocinquant’anni fa da J. S. Mill: l’ingiustizia non si limita alle donne, ma colpisce anche gli elettori. Questi vengono infatti privati del beneficio di una più larga competizione e di una più ampia scelta di candidati. (Naturalmente l’argomento di Mill si riferiva all’assenza totale delle donne dalla vita politica, ma vale anche per la loro scarsità). Infine c’è l’argomento di Anne Phillips (The Politics of Presence, 1995): è importante chi sono i rappresentanti, perché, sebbene eletti sulla base di impegni di partito, i parlamentari si troveranno di fronte a situazioni nuove e a decisioni da prendere, e allora conteranno le loro caratteristiche individuali e culturali, la loro personalità, e quindi anche il loro sesso. Non è vero che le donne portino interessi specifici odiversi valori, o una diversa moralità. È possibile però che le donne, essendo espressione di un gruppo sino a poco tempo fa escluso, siano in grado di portare nuovi temi e nuove idee. Niente garantisce che la maggiore presenza delle donne cambierà davvero l’agenda politica, dice la Phillips, ma puntare su di essa è una decisione politica coerente con una idea espansiva della democrazia rappresentativa.
2. Le possibili cause della situazione attuale sono difficili da individuare. È il caso però di ricordare, in via preliminare, che l’interesse delle donne per la rappresentanza è un fenomeno relativamente recente: risale agli anni Ottanta del Novecento. Il movimento suffragista si batté per l’elettorato attivo ma non mise a fuoco il problema dell’elettorato passivo, forse perché lo considerava scontato, forse per non spaventare l’opinione pubblica con l’idea che gli affari di Stato potessero essere affidati alle donne (una preoccupazione che traspare anche dalle pagine di Mill). D’altra parte, il neofemminismo del Novecento, derivato dai movimenti studenteschi e antiautoritari, era permeato da una sostanziale sfiducia nella democrazia rappresentativa e sceglieva la strada di una democrazia assembleare. L’attenzione alla composizione delle assemblee elettive è successiva, e non è probabilmente senza relazione con la caduta del comunismo e la brusca virata del discorso pubblico, anche a sinistra, sulla democrazia costituzionale. Se la storia è questa, è lecito pensare che ci voglia del tempo perché l’accesso delle donne alla rappresen tanza diventi più consistente, com’è del resto avvenuto per professioni prima sbarrate, di diritto o di fatto: valga per tutte il caso della magistratura. Certamente però il discorso non può fermarsi qui. Piuttosto di ripetere le denunce tanto spesso sentite, e ormai dominanti sui media, del «tetto di cristallo» che blocca le carriere femminili, vorrei riflettere sulle difficoltà soggettive che impediscono alle donne di emergere in primo piano nella vita politica. In che senso soggettive? Anzitutto in termini di cultura politica: le donne – almeno quelle dell’area mediterranea – condividono generalmente una concezione moralistica del potere, che sarebbe di per sé un male (e la ricerca del potere, quindi l’ambizione, un vizio). Dalla Grande Madre alla Madonna, le donne conoscono un potere diverso, non politico, dissimulato sotto la dedizione e l’abnegazione materna. Elementi di origine cattolica ed elementi di origine tardo-foucaultiana convergono quindi nell’orientare la cultura politica delle donne ad occultare l’ambizione e ad esibire il disinteresse per il potere politico. Con
il risultato che il più delle volte finiscono con il delegarlo agli uomini. Si usa molto tra le donne della politica criticare quelle che si mettono in cordata con uomini potenti, rimuovendo il fatto che le donne non fanno cordata e che i conflitti tra di loro non trovano composizioni e compromessi, a differenza di quello che avviene tra gli uomini. Ciò che manca alle donne è la capacità di stringere patti: una carenza fatale in politica, e forse anche in altri ambiti. Un altro problema, sempre restando sul lato soggettivo, è quello della resistenza alla competizione individuale. Anche questo forse ha un’origine culturale, nell’ideologia comunista del collettivo. Ma certamente s’incontra anche con una struttura della personalità femminile poco portata alla sfida aperta e piuttosto propensa a lavorare nell’ombra(nel male e nel bene). È più naturale, più rassicurante per una donna cercare la protezione di un capo, o magari della legge, per essere messa in lista, che affrontare la sfida di un collegio. Allora si dice che le donne hanno meno risorse, meno sostegni, ecc. Ma perché non cercarli? Perché nessuna donna ha messo in piedi un’operazione di autofinanziamento sulla rete, per esempio? Eppure un’opinione pubblica femminile esiste ed è disposta a mobilitarsi, come ha mostrato tante volte, ma non trova leader. Il caso di Se non ora quando è esemplare: una grande mobilitazione che molto probabilmente non produrrà nulla di significativo in occasione delle prossime elezioni politiche.
3. A questa situazione di reali difficoltà, oggettive e soggettive, si è risposto con la strategia delle quote o della democrazia paritaria. Dopo vent’anni in cui, con alterne vicende, si è seguita questa strada, è ora di chiedersi quali siano i risultati conseguiti. La battaglia per le quote è stata fatta soprattutto dalle donne della sinistra, con intermittenti appoggi da parte della destra, in genere più sensibile all’argomento del panda: cioè che le quote equivarrebbero a fare delle donne una specie protetta. A uno sguardo retrospettivo appare chiaro che le donne della sinistra, in crisi di identità dopo la brusca chiusura della stagione di grande mobilitazione del periodo 1987-89, durante la quale avevano conosciuto una straordinaria affermazione politica e anche elettorale (senza quote!), si sono buttate sul tema della rappresentanza per ritrovare un impegno unitario e una nuova identità. Da allora però questo è diventato praticamente l’unico oggetto di iniziativa politica, trasformando la rappresentanza da mezzo per affrontare i problemi di un’area fondamentale della popolazione a fine quasi esclusivo. Come risultato, la cosiddetta democrazia paritaria si sta estendendo, anche se non al livello politico nazionale, ma sempre di più mostra di riguardare un ceto politico autoreferenziale, che cerca di assicurare la propria presenza più che promuovere le altre donne. Se il gruppo dirigente della sinistra è vecchio, la sua componente femminile è ancora più vecchia. Ma soprattutto ormai da molto tempo produce poche idee e nessuna leader.
4. Era, è possibile pensare altre strategie per raggiungere l’obiettivo? Per esempio strategie che non impattino sulla struttura della rappresentanza, creando precedenti che potrebbero prima o poi rivelarsi pericolosi, e strategie che incoraggino l’iniziativa politica anziché deprimerla. Ritorniamo al problema principale: le donne incontrano ostacoli che non riguardano la partecipazione politica di base ma l’accesso alla selezione per posizioni competitive, perché considerate – dai selezionatori, ma in primo luogo da loro stesse – deboli nella competizione. Una via potrebbe allora essere quella di sostenerle nella competizione, con finanziamenti ad hoc, con la fornitura di servizi specifici, con la garanzia di un equo trattamento nella comunicazione. Non voglio proporre l’ennesima Authority, ma nell’ambito di quelle esistenti sarebbe certamente possibile identificare un ufficio dedicato a questo.
La riforma dell’art. 51 Cost., avviata nel 2000 dalla proposta Mancina e altri, e realizzata con lievi modifiche nella legislatura successiva dalla ministra Prestigiacomo, è stata da molti considerata debole perché non prevede esplicitamente le quote. Ha invece il pregio di alludere a un insieme di provvedimenti miranti a promuovere opportunità per le donne. Come si espresse il prof. Fulco Lanchester in una audizione alla Camera, «ha un effetto pedagogico, che le norme costituzionali debbono avere, ma al tempo stesso non preclude assolutamente interventi di tipo legislativo ordinario di carattere più incisivo» (Commis-utile sarebbe cercare il sione Affari Costituzionali, audizione del consenso con la forza delle 25 maggio 2000). Da allora, si sono con-idee e delle proposte siderati interventi incisivi esclusivamente quelli sulle quote. Non sarebbe da considerare incisivo anche un intervento sul finanziamento pubblico, nel senso di legare una fetta (non marginale, se no non serve a niente) di quel finanziamento alla presenza di donne nelle liste e negli organismi dirigenti dei partiti? Ma ciò comporterebbe anche di avere una legge decente sul finanziamento...
Insomma, una immaginazione politica costruttiva potrebbe pensare diverse strategie convergenti nell’obiettivo di favorire la capacità competitiva delle donne, piuttosto che concentrarsi su un unico strumento, che oltre alle già viste difficoltà di realizzazione ha anche il difetto di non puntare sulla competitività e quindi sull’iniziativa politica, ma sulla garanzia di posti, ponendo le condizioni per il rivendicazionismo e il vittimismo: atteggiamenti che a loro volta, in un circolo perverso, confermano e alimentano la debolezza delle donne. Quanto più bello e più utile sarebbe avere movimenti di donne, dentro e fuori i partiti, che cerchino il consenso con la forza delle idee e delle proposte; che puntino sulla forza e non sulla debolezza di un soggetto politico. L’unico esempio di questo tipo che abbiamo avuto (non stupisca il riferimento) è stata la Carta delle donne, negli ultimi anni del Pci. Pur all’interno di una cultura di sinistra tradizionale, la Carta rappresentava le donne come un soggetto forte, che non chiedeva tutele ma si metteva in gioco con assertività – perfino con arroganza, secondo alcuni – e con proposte concrete. Nelle elezioni del 1987 la Carta portò in Parlamento moltissime donne nelle liste del Pci, provocando anche reazioni scomposte nel partito, e portando la percentuale complessiva delle parlamentari (prima oscillante intorno all’8-10%) al 13%. Per valutare questo risultato, si pensi che nel 1994, con le quote nelle liste proporzionali della Camera, la percentuale arrivò (!) al 13,9%.
5. Siamo all’ultimo interrogativo, quello che riguarda il rapporto tra rappresentanza di genere e leadership femminile. Nei Paesi scandinavi il rapporto è positivo; ma la causa sembra essere culturale più che politica. La vicenda italiana infatti ci mostra una realtà molto diversa. Assicurare la presenza di donne candidate fa crescere – un po’ – la percentuale di elette, ma non necessariamente produce leadership femminili. In Italia non abbiamo ancora visto una donna alla Presidenza della Repubblica; ma neanche una donna primo ministro, o segretaria di partito. La situazione è migliorata in altri campi della vita sociale: Confindustria, sindacato. Ma le vette della politica sembrano restare inattingibili per le donne italiane, a differenza di molti Paesi non solo occidentali. A mio parere c’è un legame tra l’esclusiva concentrazione sull’obiettivo della rappresentanza, da ottenersi per legge, e la scarsità di leader donne nella nostra politica. Leader si diventa giocandosi in prima persona sul terreno della competitività, sulla base delle idee, della capacità di stringere alleanze, di scegliere i tempi, e anche di incarnare nelle proprie parole, nei propri gesti, in una parola nella propria persona, una proposta politica. Quello della rappresentanza, quote o democrazia paritaria che dir si voglia, è un terreno collettivo non particolarmente favorevole all’emergere di personalità individuali. Anche il ricorso alla legge (siamo un Paese che di fronte a ogni problema pensa sempre di fare una nuova legge oppure di indurire quella esistente, non preoccupandosi minimamente dell’efficacia operativa) non è qualcosa che favorisca l’iniziativa politica di individui e gruppi.
Infine dobbiamo chiederci quali sono stati, se ci sono stati, i guadagni prodotti da questo grande movimento, che ha coinvolto in modo non piccolo l’opinione pubblica, sulla rappresentanza. In termini numerici, un aumento delle donne elette certamente c’è stato, anche se ben lontano dalle attese e ancor più lontano dall’idea della democrazia paritaria. Ma quali sono le conseguenze in termini politici, per le donne e per il Paese, di questo aumento delle percentuali? Se si guarda al miglioramento della politica, che era uno dei principali argomenti addotti per sostenere l’esigenza di intervenire a favore della rappresentanza di genere, è sotto gli occhi di tutti che mai la moralità e la credibilità della classe politica italiana ha toccato livelli così bassi. C’è una responsabilità delle donne? Non direttamente negli scandali e negli episodi di corruzione denunciati. Non si può non notare tuttavia che la loro maggiore presenza non ha minimamente inciso né sulla moralità né sulla credibilità; e che deputate e consigliere regionali non si sono rese protagoniste di una battaglia, che pure si sarebbe potuta e dovuta fare, per ridurre i costi della politica, o per introdurre la rendicontazione delle spese. Il tema dei costi della politica, che è una questione di moralità pubblica prima che di doveroso risparmio in tempi di crisi, è rimasto estraneo alle donne come agli uomini. Le donne politiche si sono tenute fuori (finora) dalla corruzione e questo è un loro merito, anche se forse dovuto anche alla loro sostanziale marginalità nei rapporti che contano sul piano economico. Ma sono da considerare corresponsabili, esattamente alla pari con i loro colleghi maschi, dell’allegra gestione del finanziamento pubblico.
Ma c’è un altro aspetto da mettere in rilievo. La crisi della politica non è solo morale, non riguarda solo i costi, ma è anche crisi di idee e di capacità riformatrice, tanto più grave in un Paese il cui bisogno di riforme è addirittura drammatico. Anche da questo punto di vista le donne non si sono distinte. Le donne non sono più credibili degli uomini, se non nella misura in cui vengono percepite come «nuove», cioè estranee agli assetti di potere esistenti. Questo è certamente un grande capitale, che dovrebbe essere messo a frutto con proposte innovative a tutto campo, dalle riforme del sistema istituzionale a quelle economiche e delle relazioni sociali. Ma le donne politiche, in generale, non si segnalano per spirito innovativo o proposte di riforma. Molto spesso invece esprimono una cultura politica conservatrice (a destra come a sinistra) e ostile al cambiamento. Non dirò che la colpa è delle quote; ma è probabile che l’esclusività di questo obiettivo, e il modo burocratico in cui è stato concepito, non abbia favorito l’elaborazione di una cultura politica rinnovata. Queste considerazioni non possono non riflettersi sul dibattito intorno alla rappresentanza. Non per vanificare l’esigenza di aumentare la presenza delle donne, che resta valida, ma per ridimensionare l’idea che questo segnerebbe una svolta sostanziale per la vita democratica. Dare più opportunità alle donne è una questione di giustizia, ed è certamente uno degli aspetti di una democrazia espansiva. Di più, alla luce dei principi e ancor più alla luce dell’esperienza, sembra difficile dire.
Caludia Mancina