Letterature Festival Internazionale di Roma
brano dell'autrice Farian Sabahi

Pubblichiamo il brano che l'autrice Farian Sabahi ha letto a Massenzio il giorno martedì 18 giugno in occasione del Letterature Festival Internazionale di Roma.


Santo Padre, mi chiamo Ginevra, ho quarant'anni. Sono originaria di Torino, sono cresciuta lì e ho frequentato il liceo. Dopo il diploma ho conosciuto l'uomo che sarebbe diventato mio marito. Era autunno. Veniva dalle Langhe, Cuneo. Era un giovane smilzo, dalle belle maniere. Si era appena iscritto a Medicina, a Torino. Corso Massimo D'Azeglio. Quel giorno le nebbie del Po salivano nel parco. L'aria ci ubriacava. Ci guardavamo ed eravamo felici. Un sogno rimasto nel sangue.
Si è laureato, specializzato. Sposati. Un matrimonio sontuoso. Mi sono trasferita nel suo paese, nella valle del Belbo. Primo figlio, Matteo. Poi Pietro e Luca, i gemelli. L'ultima è Francesca, occhi verdi e riccioli biondi, sguardo sfuggente. Mi somiglia. Sono belli, i miei figli! Hanno quel colorito sano di chi vive in campagna. Viviamo in una grossa cascina, di giorno i bambini giocano scalzi nell'erba e saltan di gioia, la notte cantano i grilli.
Andrea è un buon partito, l'erede di una famiglia ricca, padroni di un palazzo in città e di una bella villa al mare, a Sanremo. La famiglia di lui è nota nella nostra borgata: versa parecchi denari alla Chiesa e la domenica lui si fa sempre vedere a messa, nel banco di legno in prima fila, con su scritto il nome dei nonni. Da giovane s'è preso il tempo per viaggiare. Ma anziché sposare una ragazza di paese, una fanciulla abituata alla vita di campagna, ha pigliato me. Torinese, un'ignota straniera in quel di Cuneo. Esile e bionda come certe che aveva incontrato nel mondo.
Purtroppo, la nostra storia bella finisce qui: mio marito non ha le virtù morali di re Artù, mi picchia da dodici anni e ora usa violenza anche sui bambini. Nei dintorni non s'aggira nessun Lancillotto in grado di salvarci. La nostra non è una situazione degradata, come quella di certe periferie. Tutt'altro. Andrea è primario. Guadagna bene. Certo, con me non è generoso, lesina sui soldi. Mi dà pochi euro la volta. E la sera devo dargli gli scontrini del droghiere. Dal macellaio passa lui, alla fine del mese. Però in fondo i soldi ci sono.
Settimana scorsa la bambina s'è svegliata di soprassalto. Colpa mia, Andrea mi prendeva a calci, ero troppo stanca, non ho resistito al dolore. Allora ho gridato, la bimba si è insinuata sulle scale, mi ha vista a terra mentre il padre mi colpiva. Il giorno dopo, all'asilo, è scoppiata a piangere. La maestra l'ha abbracciata, s'è fatta raccontare tutto. Era sorpresa. Conosce Andrea da sempre. Mai si sarebbe aspettata fosse violento. Ma i bambini non dicono bugie. La maestra mi ha convocata e detto che gli avrebbe parlato lei. L'ho implorata di non farlo. Rischiamo di essere ammazzate, io e la bambina.
Per ora non me la sento di ribellarmi. Non posso lasciare questa bella casa per trasferirmi, con i miei quattro figli, in un piccolo appartamento. E poi mio marito è cattolico, non vuole separarsi. Anche i miei genitori sono cattolici, praticanti. Abitano in città e non li vedo spesso. Mia madre ha intuito qualcosa, ma non la voglio rattristare con i miei problemi, so già che una figlia divorziata non le piacerebbe.
In realtà non voglio lasciare Andrea. Non voglio nemmeno andare dai Carabinieri, come mi consiglia una compagna di liceo, l'unica con cui sia restata in contatto. Sarebbe come tradirlo. Forse sbaglio qualcosa. Mi sembra tutto così strano. Quando l'ho conosciuto, Andrea era gentile. Lo è anche adesso. Mi riempie di botte, poi m'abbraccia e dice di amarmi. Succede spesso. Se sanguino, la medicazione me la fa lui. Non vuole vada al pronto soccorso. Lì, lo conoscono tutti.
L'altro giorno sono tornata a casa e mi sono trovata davanti sua madre. Da giovane era manesca. Picchiava il marito, i figli. In casa lei non parla italiano, adopera il dialetto. In quel linguaggio scabro, qualche sera fa ha incitato Andrea a picchiarmi. Poi è stata lei, mia suocera, a mandarmi via. Via di casa. I bambini guardavano, attoniti. Forse perché qui buoi e persone sono tutta una razza, io sono di Torino e sono di una famiglia perbene, borghese. Lei avrebbe preferito una ragazza di qua. Di quelle che stanno in casa e non dicono nulla.
Domenica sono andata a confessarmi. Don Paolo dice che devo avere pazienza, sopportare. La famiglia è sacra, non si può smembrare. Ma come si fa a restare uniti se non si è – tutti – rispettosi l'uno dell'altro? Quando mi picchia, Andrea va a confessarsi e il prete gli concede il perdono. Poi torna a picchiarmi, e Don Paolo lo perdona ancora. Il mio prete è nato in campagna, mia suocera gli porta polli e conigli. Storie di altri tempi.
Andrea vuol dire uomo. Santo Padre, nella messa di inizio pontificato lei ha detto che ogni uomo dev'essere custode di se stesso e degli altri. Andrea stava guardando la messa, in tivù. Poi è bastato un pretesto perché mi picchiasse di nuovo, davanti ai bambini. È diventata cosa normale. Anche per me. Resto in silenzio, fissando stravolta il mio uomo. Ho fatto quattro figli. Ma qui le donne sono come allora, fanno bambini e non contano nulla. Sono piena di lividi, nascondo la ferita allo zigomo con un po' di trucco. Ma non posso andare avanti così. Devo fare qualcosa. Per loro, per i miei figli. Matteo, il maggiore, ha iniziato ad alzare le mani.
Santo Padre, l'ho sentita, alla radio, mentre parlava delle prime credenti. Vorrei chiederle aiuto. Forse basterebbe una sua parola per mettere fine a tanta violenza. Violenza travestita da amore, ho sentito dire. Ma forse non servirebbe: che cosa si può dire che già non sia stato detto? A meno che lei, Santo Padre, non decida di parlare ai preti, a quelli come Don Paolo. Affinché non concedano il perdono con tanta facilità, a uomini come il mio Andrea. Perché il perdono viene concesso a tutti, sempre e comunque, per la stessa cosa? Farian Sabahi