La Carta delle Donne e il Pci di Livio Karrer

Da storico, per tanto, mi sono chiesto: perché un documento importante come la Carta, sotto molti punti di vista uno spartiacque di un modo di far politica delle donne, matura solo nel 1986 e non, per dire, cinque o dieci anni prima, al culmine di una stagione di presenza organizzata femminile sulla scena pubblica più ampia e riconoscibile. Come mai solo nel 1986 avviene l’incontro, di un innesto ho parlato, tra la cultura politica del femminismo e la cultura politica del Pci?


Non ho voluto cambiare il titolo dell’intervento rispetto all’indicazione propostami dalla Fondazione perché credo che nella sua essenzialità – la Carta delle donne e il Pci - fosse sufficientemente flessibile da lasciare margini di intervento per trattare alcune delle questioni che mi sembrano più interessanti: il rinnovamento della cultura politica del Pci nella lettura datante dalla sezione femminile, il rapporto tra femminismo e l’elaborazione della carta e la ricezione ai vertici del partito prima e dopo le elezioni del 1987. E infine la vita politica della Carta dentro il tema femminismo e democrazia: un aspetto credo utile per avviare il dibattito.

Questioni tutte importanti e complicate; per certi aspetti alcune delle quali ancora aperte, come il tema della rappresentanza di genere, stabilmente posizionato sul tavolo di una discussione politica che non riguarda più, e da tempo, solo le donne. Parlare di Pci e Carta delle donne non è dunque operazione agevole perché, come è facile intuire, sono molte altre le questioni sottese al tema e sono assai intricati i nodi che si incontrano ripercorrendo anche solo sommariamente il percorso di quello che definirei un trapianto difficile, o meglio, come dirò, un doppio innesto.

Nodale innanzitutto è il problema della ricezione del testo, la Carta delle donne, come espressione di una filosofia politica – il pensiero della differenza – e di una pratica particolare che contempla l’autocoscienza, il partire da sé e il rapporto tra donne, che possono apparire a prima vista inconciliabili con un’organizzazione istituzionale “pesante” come il Pci, fatta di apparati e nomenclature in gran parte formatesi nella Seconda guerra e nel lungo dopoguerra italiano. Un partito che nella seconda metà degli anni Ottanta è ancora innervato da un’identità politica che per quanto sfilacciata e oggetto di appelli a rinnovarsi profondamente da molti interlocutori esterni, è allo stesso tempo ancora profondamente stratificata e riconoscibile, distinguibile quindi nel paesaggio di una società italiana in profonda trasformazione.

Allo stesso tempo esiste un problema di delimitazione cronologica del tema – aspetto da cui vorrei ora partire. è senz’altro corretto individuare nell’arrivo di Livia Turco alla guida della sezione femminile del Pci nel 1986 un cambio di passo e quindi far risalire a quella seconda metà dell’anno il tentativo di ricomporre lo iato tra il femminismo/i femminismi e la cultura politica comunista. Tuttavia la questione dei rapporti tra movimenti delle donne e Pci vive di una temporalità più lunga, come ovvio, e risale almeno al decennio precedente. Allo stesso tempo il rapporto con il movimento femminista non interrogava certo solo il partito comunista, ma anche gli altri partiti, come mostra l’attività della socialista Marinucci a capo della neonata Commissione per la Parità della Presidenza del Consiglio in quegli anni. Il Pci però “pur nei limiti ideologici e costitutivi che lo pongono in alternativa o in contrasto alla concezione della società dei gruppi femministi, alla fine è l’unico partito a raccogliere la sfida del movimento femminista”. Lo notava acutamente nel 1986, nel momento stesso in cui si riaccendeva il dibattito culturale sui temi della rappresentanza e del potere delle donne, Mariella Gramaglia, che mi fa piacere ricordare qui con voi.

Tenuto conto di questa temporalità più lunga mi pongo oggi la domanda: perché solo il Pci raccoglie la sfida e perché, tuttavia, la raccoglie solo nel 1986-87? C’è dunque una questione di tempi e di circostanze storiche da ripercorre con cura a mio avviso. La mia prospettiva di analisi è una prospettiva fortemente generazionale, ben distante dagli eventi, tanto del 1986-87, quanto del decennio precedente. Distante ma non estranea, in quanto l’ambiente familiare in cui sono cresciuto e la mia formazione da storico si sono intrecciati strettamente alla creazione di quei settori di studi della storia delle donne e della storia culturale, che hanno rappresentato per la generazione che ha attraversato il femminismo degli anni Settanta una prosecuzione di quello stesso impegno femminista nel decennio successivo e oltre.

Da storico, per tanto, mi sono chiesto: perché un documento importante come la Carta, sotto molti punti di vista uno spartiacque di un modo di far politica delle donne, matura solo nel 1986 e non, per dire, cinque o dieci anni prima, al culmine di una stagione di presenza organizzata femminile sulla scena pubblica più ampia e riconoscibile. Come mai solo nel 1986 avviene l’incontro, di un innesto ho parlato, tra la cultura politica del femminismo e la cultura politica del Pci? Ed è questo il primo dei due innesti in questione.

Taviani si è soffermato sul quadro generale, sul Pci in transizione dopo l’esaurimento del compromesso storico.

Io riparto dal 1986 e vi riporto dentro la rappresentazione che le donne comuniste avevano del loro partito nella riunione della Commissione femminile nazionale di quel gennaio convocata in previsione della campagna congressuale, così come la presentò la Segretaria di allora Lalla Trupia. Si chiedeva la Trupia: “è in grado il nostro partito, così com’è (con la sua cultura, il suo stato e le sue forme organizzative) di proporre un forte e concreto programma riformatore e alternativo e di contribuire a suscitare una nuova spinta trasformatrice nel paese? Io rispondo molto francamente che fatica, che ha il fiato grosso, che è un partito un po’ stanco. Quella della riforma della politica e del partito mi pare allora, anche in questo nostro congresso, una questione decisiva. Qui avverto che se le tesi fanno enunciazioni coraggiose e autocritiche severe, le proposte sono ancora troppo generiche e timide. Il partito soffre una crisi, e discutere di sé non significa per forza avvitarsi su se stessi; può essere segno di vitalità e di ricerca. Nelle tesi diciamo francamente che una delle cause di fondo della crisi del partito sta nel fatto che “si è determinata negli ultimi tempi una carenza dei legami del partito con le trasformazioni in atto nella società, con la cultura, con le competenze, con le figure sociali che avanzavano sulla scena. Ciò ha reso più difficile il compito di dare volto e realtà a un nostro progetto di trasformazione della società[1]”.

Questa la radiografia e la lettura data dalla sezione femminile del Pci sulla situazione del partito dopo la morte di Berlinguer. Le donne comuniste non si nascondevano affatto, quindi, che il partito attraversava una fase di stallo ed un esaurimento ideativo dai molti rischi e che un rilancio fosse urgente. Va poi sottolineato che prima dell’arrivo di Livia Turco non si faceva cenno alcuno al pensiero della differenza e alla centralità della pratica politica tra donne, almeno così come la intendevano le femministe. Si parlava invece di una generica diversità delle donne, che però prima di essere una differenza di genere mi pare l’eco ripetitiva e un po’ di maniera della tematica della diversità del comunismo italiano dentro il movimento comunista internazionale e dei comunisti italiani nel panorama politico nazionale. Un richiamo quindi alla propaganda più sperimentata del partito lungo un quarantennio di storia repubblicana. Una diversità che negli anni Ottanta, è il caso però di aggiungere, appariva come la bandiera issata sulla cittadella isolata dei comunisti in partibus infidelium: metafora dell’arroccamento politico di un Pci privo del necessario ricambio di strategia politica dopo il 1978/79.   

Se dunque la sezione femminile sotto la guida della Trupia affrontava la crisi e metteva sul terreno la volontà di rinnovamento della cultura politica del partito, poco o niente sembrava muovere nella direzione della riflessione culturale aperta dal femminismo negli anni Settanta. Si manteneva, per così dire, nei binari rassicuranti di una lettura sociologica delle donne come un soggetto sociale, tra gli altri, di cui il partito si faceva interprete, all’interno della cornice di promozione di una linea politica emancipazionista di liberazione della donna dal dominio sessuale maschile o al più di un’auspicabile trait d’union, come si legge nel documento in esame, tra “emancipazione e liberazione”.

Più innovativo al contrario era il discorso sulla necessità di inserire elementi di “forzatura” nel meccanismo di selezione dei quadri nazionali e federali affinché alle donne fosse riconosciuta una soglia minima di rappresentanza del 25%. Un elemento, quello delle quote minime, su cui la Trupia avrebbe voluto aprire una “battaglia politica” dentro il partito e una “contrattazione con i gruppi dirigenti”, per tenere fermo “un criterio di rappresentanza rispetto alla forza che siamo”. Salvo poi aggiungere, in un’occasione pubblica successiva – nel marzo 1986 – che quella quota del 25% era irraggiungibile in molte realtà locali, ma più a causa dell’assenza di figure valide da inserire nel quadro dirigente, che per i tradizionali meccanismi di selezione e formazione di policies che tenevano ai margini, ossia sfiduciavano, molte militanti nel portare avanti battaglie di affermazione e scontro politico all’interno del partito.

Questo il quadro alla vigilia del 1986. Va dunque valutato con il giusto peso il salto interpretativo compiuto di lì a breve – meno di un anno – dalle donne del Pci ora guidate da Livio Turco. Un salto lungo e decisivo, comunque non scontato o prevedibile, sebbene le donne, come detto, non si nascondessero affatto la necessità di rinnovare nel profondo la cultura del partito, a costo di alterarne anche alcuni caratteri originali. A queste questioni nodali, anche Livia Turco, una volta ereditata la segreteria della sezione femminile, tenterà di dare una risposta, in prima battuta per “aggiornare ed arricchire l’elaborazione culturale, il bagaglio teorico”, come si espresse nella prima seduta della commissione femminile che ormai dirigeva. Di questo arricchimento del bagaglio culturale delle donne comuniste la Carta sarà il più difficile banco di prova.

Ma qual è il panorama intorno alla Turco? O altrimenti detto: con quali realtà femministe, nel contesto della diaspora degli anni Ottanta, sceglie di confrontarsi la nuova dirigente?

Come tutte voi ricorderete sono soprattutto la Libreria delle Donne di Milano e il centro Virginia Woolf di Roma i principali poli di riferimento del femminismo anni ’80 grazie ad una instancabile produzione culturale innovativa e interessante (fonte per certo imprescindibile su cui costruire qualunque biografia del femminismo italiano). C’è poi il gruppo di Diotima di Verona fondato dalla Muraro e ci sono soprattutto forme diffuse e locali di pratica politica tra donne che attraversano tutta la penisola su cui io non posso soffermarmi ma su cui credo sia necessario ricostruire al più presto una mappatura fedele sia pur solo in termini quantitativi, possibilmente intrecciata con una genealogia dei diversi percorsi biografici di una non esigua generazione di donne che in quel decennio di appartenenze ne sperimentano ben più di due: casa, formazione, gruppo femminista, lavoro/lavori, professioni.  

Se la fiammata movimentista del femminismo è calata dopo il 1977, feconda è stata la disseminazione di cultura femminista nel Paese. Si sono moltiplicate le sedi di discussione: ancora dentro esperienze di gruppo, piccoli o piccolissimi dove continua la pratica dell’autocoscienza, ma anche in realtà più ampie; su tutti va ricordato il caso di “contaminazione” che ha vissuto l’Udi a partire dalla metà degli anni Settanta (per esplodere nel 1982) e le declinazioni locali dell’Arcidonna e di tanti altri gruppi. La gemmazione estesa della cultura femminista ha incoraggiato una produzione molto diversificata e ha favorito un contagio linguistico-culturale tra i  vari gruppi, un incontro tra differenze intellettuali e via via anche generazionali, solo in apparenza privo di reciprocità visibili e di scambi entropici con il femminismo degli anni Settanta e dei gruppi più presenti nel dibattito pubblico.

Dopo il 1981, dopo il referendum sull’aborto, è andata rapidamente scemando, mi pare importante, la carica anti-istituzionale che aveva caratterizzato la prima fase del movimento femminista, almeno fino al 1976. Si è passati ad una fase più orientata verso pratiche culturali diffuse, magari direttamente nei luoghi di lavoro (giornali, scuola, sindacato), e di attivazione di reti relazionali su questioni specifiche che puntano alla valorizzazione della peculiare esperienza delle donne che ora partecipano più intensamente del mondo del lavoro e premono per una cittadinanza piena, che acquisiscono professionalità sempre nuove tanto in termini quantitativi quanto, soprattutto, qualitativi. Cambiano inoltre le tipologie di lavoro e cambiano ritmi e tempi del lavoro tra anni Settanta e Ottanta. L’emancipazione di genere è passata anche attraverso questa crescita, questa espansione di soggettività femminile dentro gli spazi e i contesti di lavoro (per lo più adesso del terziario). Tutt’altro che un’eclissi dalla scena politica nazionale, né un riflusso della militanza, solo forme nuove e terreni di azione diversi.

è dunque importante prendere atto che l’articolazione femminista sia esplosa in mille gruppi issue oriented, che si sono rivelati più attenti agli aspetti programmatico-organizzativi (anche di lobbing) della gestione del quotidiano politico di un’associazione, di un gruppo, di una comunità, o che hanno inteso fornire esplicitamente maggiori elementi di politicizzazione dell’esperienza di vita tra donne e della presa di coscienza della differenza di genere che pure continua ad essere il rito di passaggio o di ingresso più qualificante. Questi gruppi si sono via via sempre meno interessati al separatismo anti-istituzionale che caratterizzava il femminismo degli anni Settanta (anzi è misurabile una preferenza ad essere riconosciute e rappresentate o ad avviare un dialogo con le istituzioni) arrivando finalmente a confrontarsi con alcune delle questioni irrisolte dal movimento un decennio prima, come il decisivo rapporto tra femminismo e democrazia che secondo Anna Rossi-Doria non fu “nemmeno tematizzato, divenendo così un’ulteriore fonte di paralisi e di crisi dei collettivi” dopo il 1977-79.

La realtà dei gruppi femministi che ha di fronte la Turco rimanda quindi da un lato a battaglie per ottenere una nuova visibilità pubblica, dare voce ad un’autorità femminile non subalterna, dentro un discorso sulla cittadinanza più ricco, avendo lasciato alle spalle l’epoca dell’anti-istituzionalismo e della mistica dell’oppressione, dall’altro rimanda ad una voglia di misurarsi più direttamente con i temi della decisione politica e della mediazione dei conflitti, cui sottende la voglia “di contare e di contrattare, la voglia di vincere, come tra alcune femministe è diventato di moda dire”[2]. Si tratta insomma di un doppio innesto come dicevo all’inizio che mostrano esigenze potenzialmente complementari ma non facilmente armonizzabili nello statuto di un partito come il Pci.

Questo dunque lo scenario di confronto ed elaborazione di un documento come la Carta, impensabile senza un contesto culturale che sta già sperimentando innesti di pensiero e di pratiche femministe con un vivere sociale dischiuso e osmotico con tutte le declinazioni istituzionali del nostro paese. L’obiettivo della Carta è riprendere i linguaggi del femminismo, a partire dalle pratica politica tra donne, per portarli dentro un’iniziativa politica dal vestito tradizionale, espressione di una forza parlamentare, ossia di proposta politica per l’affermazione di un potere, di un ruolo, di uno spazio. Quanto, insomma, mi pare si registri se analizziamo pacatamente il successo delle consultazioni del 1987 che vedono aumentare il numero di elette grazie ad una proposta elettorale conseguente, che prende di petto il tema dell’affermazione e del riconoscimento delle donne.

Vengo ora al tema della ricezione che avevo posto in apertura e partirei dalla riflessione che la Turco ha pubblicato sul sito internet che fa da premessa ai lavori di questo convegno. Trovo molto interessante notare come ella riconosca oggi l’ambivalenza di questo innesto – era del resto l’accusa che le fu mossa da molte femministe, anche comuniste dopo l’87, penso a Tatafiore, Bocchetti, Paolozzi, Chiaromonte –  perché a ripensare oggi ad alcune delle questioni si fatica davvero a capirne l’orizzonte, penso ad esempio ad alcune espressioni, come “sessuazione della politica”; e mi pare inoltre complicato immaginare come una segretaria regionale del partito a Cosenza avrebbe dovuto declinare il pensiero della differenza dentro il suo operare politico quotidiano. Pur tuttavia, il tentativo di rilanciare una conquista importante della riflessione femminista, il pensiero della differenza - più facilmente comprensibile in termini di mentalità diffusa, costumi, rapporti di genere, stili di vita -, dentro un’iniziativa politica di partito rimane un atto assai rilevante perché ha contribuito a rendere fruibile e circolante, ad un più capillare livello, quella stessa riflessione. E ha obbligato altresì le femministe a confrontarsi con i meccanismi decisionali ed istituzionali della democrazia italiana.

è grazie all’innesto che il messaggio, insieme di rivendicazione di maggior potere politico e di più netta affermazione della differenza di genere, acquista una rinnovata forza d’urto. Dunque se è giusto ricordare l’ambivalenza di quell’operazione in termini teorici – una donna non può che rappresentare se stessa e non tutte le altre donne come classe o interessi - è anche necessario far presente che quella fu un tentativo non nascosto o sotterraneo, anzi al contrario fu esplicito e funzionale ad una strategia politica concretissima: negoziare posti di potere dentro il partito. Si disse allora che la politica avrebbe dovuto “inciampare” nella forza delle donne e le istituzioni esserne “invase”. Se avete voglia di andarvi a rileggere la rassegna stampa di quello scorcio di 1986, noterete nella comunicazione del messaggio sottointeso proprio la natura, anche tattica, dell’operazione Carta. Che, non è un caso, fu accolta prontamente da Achille Occhetto, come dirò.

In questa strategia io ci leggo altresì una capacità più matura di fare politica delle donne, senz’altro più determinata e consapevole dell’identità e della forza acquisite, ma anche, da altri punti di vista, più professionale e laica perché attenta al quadro di spendibilità politica della questione del potere sia dentro il Pci, sia nelle istituzioni. Inoltre, attraverso quel corollario teorico inserito nella Carta, mi riferisco all’iniziativa di genere per il rinnovamento generale della politica e della forma partito, il gruppo di intellettuali vicini alla Turco ha saputo intercettare il desiderio di cambiamento pur presente all’interno del gruppo dirigente, andando soprattutto a toccare i tasti più giusti e sensibili, proprio grazie ad una capacità precipua di lettura dello stato del Pci che caratterizzava la sezione femminile già da tempo, come ho ricordato.

Certo nel documento ci sono anche alcune ingenuità e molti wishful thinkings figli dell’analisi comunista della società e della globalizzazione negli anni Ottanta. Vi ho trovato comunque un’interessante ispirazione di riformismo socialdemocratico, e non solo per i riferimenti alle socialdemocrazie europee rispetto alla coeva questione delle quote della rappresentanza ma proprio per quell’attenzione pragmatica al quadro delle compatibilità interne ed esterne di una strategia politica. Non suoni banale, ma è a suo modo un elemento di modernità dentro il partito e di rovesciamento oltretutto del tradizionale antiriformismo del femminismo degli anni Settanta. Ossia un “ritorno alla storia” (Rossi-Doria) e al realismo delle cose, per cui “i tempi delle donne [non] sono i tempi che le donne si danno”, ma quelli della società post-industriale e della politica contemporanea, per citare nel suo contrario uno slogan celebre.   

Concludo ripercorrendo velocemente le prese di posizione del gruppo dirigente del Pci rispetto all’iniziativa. Occhetto è senz’altro l’esponente più sensibile a riprendere i temi proposti dalle donne in tema di riforma della politica, perché sulla scorta dell’ultimo Berlinguer andava elaborando la nuova proposta politica, che vedrà definitivamente la luce tre anni più tardi, proprio a partire dalle ragioni dei movimenti sociali degli anni Ottanta: gli ambientalisti, i pacifisti e appunto le donne. Nel congresso di Roma del 1988, proprio alle donne dedicherà un capitolo non breve della sua lunga relazione introduttiva, parlando anche dell’importanza del pensiero della differenza. Un anno prima, invece, come coordinatore della Segreteria si era battuto con la Turco perché nella formazione delle liste elettorali si andasse concretamente verso l’auspicato riequilibrio della rappresentanza, primo vero banco di prova della sfida portata dalla Carta.

Il vertice del partito non è contrario all’operazione di ricambio di classe politica, per quanto da più voci all’interno della Direzione emerga la preoccupazione che si perdano competenze specifiche per l’attività parlamentare. Del resto il tasso di non riconfermati previsto sarebbe dovuto essere di circa il 40%, come capite, un numero molto grande. In quel 1987 è fortissima d’altro canto la paura che il Pci stia definitivamente smarrendo i propri referenti tradizionali, che si stia allargando la distanza tra partito, società e movimenti e più in generale che la proposta politica non guadagni nuovi consensi oltre gli antichi recinti dell’insediamento storico, a tutto vantaggio del Psi. Dopo la morte di Berlinguer, l’isolamento politico e l’impasse progettuale spingono alcuni dirigenti a condividere diverse tematiche sul rinnovamento che provengono dalla società civile, ma secondo modalità affannate e in fondo più per operazioni di maquillage elettorale. Sono temi che tutti voi conoscete, ma che vanno esplicitati perché aiutano a comprendere come mai la Carta venga inizialmente accettata senza grandi strappi dal gruppo dirigente.

Ad ogni modo, nella discussione delle liste elettorali del 1987 anche i segretari regionali si dichiaravano favorevoli alla questione del riequilibrio di genere, sebbene alcuni si lamentino dei modi con cui le compagne la stessero sostenendo. Una critica quest’ultima che lascia presagire il ben più consistente numero di disapprovazioni che la Turco riceverà a risultati elettorali acquisiti.

Dopo le elezioni del 1987, la politica delle donne comuniste va sul banco degli imputati perché invece di riconoscere la vittoria della linea della Turco, pur dentro il quadro di una sconfitta netta del partito, la si accusa senza mezzi termini di separatismo, prendendo a pretesto dunque le precedenti prassi rivendicative della stessa politica femminista e quantomeno non scomodando il vecchio anatema del frazionismo. E il più duro è Bufalini che parla di un “eccesso di ondata femminista esagerata”. Tutte voi ricorderete poi le pesanti ironie di Pajetta sulle disgrazie che non vengono mai sole nella sconfitta. Di fronte alle accuse, la stessa Iotti si trova costretta a concedere che vi sono state punte di “separatismo” nella campagna elettorale delle donne ma aggiunge convintamente che il partito deve “essere fiero del risultato ottenuto con tante donne elette”.

Dunque – mi chiedo - davvero l’esperienza della Carta si chiude così, in una stanza di Botteghe Oscure durante una tesissima analisi del voto elettorale del 1987? Qual è stata la circolazione successiva di questa esperienza, insomma? No, io direi che prima ancora delle evidenti difficoltà di affermazione di spazi di potere per le donne dentro il partito, tornate ad essere drammaticamente evidenti in quel momento di sconfitta per tutto il Pci, saranno le donne stesse a ridividersi intorno alla questione nodale del rapporto tra pratiche femministe e meccanismi democratico-parlamentari. La Carta presa tra due fuochi, le critiche di un partito scalfito solo superficialmente e le delusioni delle femministe, perde di slancio. La politica sottesa alla Carta, dunque, che ripensata oggi da un trentenne, appariva più credibile di tante altre strategie politiche, torna rapidamente ad essere oggetto di scontro tra le donne e di quel patto di genere per la rappresentanza non se ne sentirà più parlare.

Non posso ripercorre qui le diverse pagine di memoria scritte da chi contribuì alla formulazione del documento, operazione di rivisitazione della memoria che mi pare ponga fine alla rimozione dell’esperienza della Carta, al di là dei suoi effetti positivi nel breve periodo, in direzione di una futura memoria collettiva. Sarà indispensabile farlo – magari nel pomeriggio – perché le circostanze della svolta di Occhetto non solo ne decretarono definitivamente la dissoluzione per quella parte in cui si parlava del fare politica tra donne e del partire dalle donne, ma perché hanno fatto dimenticare che la Carta ha avuto a ben vedere un effetto dirompente nel lungo periodo, avendo creato le premesse per la maggiore presenza di genere in Parlamento. Va infatti ricordato che sull’onda dell’iniziativa del Pci anche gli altri partiti si trovarono costretti a modificare da subito le proprie liste elettorali, sia pur in percentuali non paragonabili.   

 

NOTE

[1] Apc, Sezione femminile, busta 1673, Mf 584

[2] La questione socialista, Einaudi, p. 131.