Per una cultura storica dei diritti dell’uomo di Vincenzo Ferrone

Nella seconda delle Considerazioni inattuali Nietzsche ha scritto che la storia serve a vivere. A vivere con dignità, vorrei aggiungere: facendo appello, se occorre alla parte profonda e migliore della nostra coscienza storica, e in particolare a quella che fu prima combattuta e poi dimenticata per due secoli, la storia dei diritti dell’uomo.

 

L'intervento al convegno del 20 aprile.


Perché di fronte all’annegamento di migliaia di donne e bambini nel canale di Sicilia nessuno scende in piazza nel nome dei diritti dell’uomo violati? Quel linguaggio, in fondo, fa parte della nostra storia: dovrebbe parlare al nostro cuore. E invece, al di là di rituali parole di commiserazione sui giornali, della tenace opera delle organizzazioni umanitarie, dei servizi televisivi subito archiviati e dimenticati, perché i potenti sindacati europei che invocano continuamente i diritti dei lavoratori e dei pensionati, la sinistra dei salotti, le cosiddette avanguardie intellettuali preferiscono girare la testa di fronte ai drammi dell’immigrazione? La caccia agli emigranti da parte della polizia a Calais o a Ventimiglia, la costruzione di nuovi muri della vergogna nell’Europa dell’Est non sembra affatto smuovere più di tanto le coscienze o alimentare l’indignazione per l’evidente violazione dei diritti dell’uomo. Al potente discorso del terrore e della paura per l’altro, lo straniero, il nuovo invasore, il barbaro pericoloso, alimentata da una crudele propaganda di destra, razzista e xenofoba, la cultura progressista e di sinistra risponde troppe volte con un imbarazzato silenzio o con flebili e inconcludenti sussurri; soprattutto, si guarda bene dal ricorrere con passione e coraggio al linguaggio dei diritti, come se lo considerasse qualcosa di estraneo, di stucchevolmente retorico, qualcosa di comunque irrimediabilmente inattuale e fuori luogo rispetto all’attuale approccio verso l’immigrazione.

 

Ma a dovere far riflettere è proprio questa incapacità di praticare politicamente ed eticamente il linguaggio dei diritti, di argomentare facendo leva su convinzioni profonde e radicate nell’immaginario collettivo della gente comune, appellandosi alla coscienza storica dei popoli europei. Se il ricorso al linguaggio illuministico dei diritti dell’uomo nato e diffusosi nel Settecento in ogni angolo del continente non sembra suscitare passioni e spingere all’azione; se solo la voce del Papa di Roma e il suo appello al Vangelo e alla tradizione del secolare umanesimo cristiano appare sincera e toccante, la colpa è soprattutto degli storici, dei loro limiti nel cogliere esigenze e mutamenti: parlo di quella pervicace storiografia nazionalistica, miope, anti-illuministica, ostile a ogni sensibilità cosmopolita che continua ad avvelenare le università e l’opinione pubblica europea.

 

Con colpevole e grave ritardo rispetto alle altre scienze umane, nell’ultimo decennio la storiografia internazionale ha finalmente avviato ricerche importanti sulla storia dei diritti umani, indagandone le origini, la natura e lo straordinario significato nella storia dell’Occidente. In particolare studiosi americani come Lynn Hunt e Daniel Edelstein hanno colmato un vuoto spiegando come la nascita e l’affermazione del linguaggio dei diritti dell’uomo nel Settecento europeo siano state favorite dal rapido mutamento del paradigma emozionale intervenuto nella sensibilità collettiva e nella mentalità attraverso il clamoroso successo editoriale di romanzi come quelli di Richardson e di Rousseau, che cambiavano nelle élite europee il modo di pensare ai rapporti umani incoraggiando la mutua identificazione e la cosiddetta bienveillance, la moderna empatia nei confronti dell’altro da sé. Samuel Moyn, che insegna ad Harvard, ha poi spiegato la differenza non solo linguistica – ma la confusione e gli anacronismi non smettono di persistere, alimentati dalle risorse della political correctness – tra il movimento internazionale a favore degli “human rights”, nato negli anni Settanta del Novecento come ultima grande utopia di fronte al crollo delle utopie socialiste e comuniste, e i “rights of Men” del movimento illuminista settecentesco culminato nella Déclaration del 1789.

 

Ed è proprio sulle differenze e sui nessi tra questi due momenti importanti nella storia dei diritti umani che la storiografia italiana ha recentemente portato il suo contributo, sottolineando la forte consapevolezza politica che caratterizzò un movimento come l’Illuminismo, fatto da uomini decisi a mettere in campo,  contro le logiche dominanti dell’Antico regime, un riformismo e una nuova cultura dai tratti eversivi e utopici, a progettare una politica delle riforme pensata per difendere l’uomo da se stesso e dal potere, per emanciparlo e renderlo felice appellandosi ai governi e all’opinione pubblica con ogni mezzo di comunicazione a disposizione.

 

Oggi sappiamo che quella prima “politica dei diritti” settecentesca conobbe strade differenti a seconda dei paesi in cui prese forma. In Inghilterra trovò la sua mirabile sintesi nei Commentaries on the Law of England (1765-1769) di William Blackstone, dove i diritti erano rivendicati come una conquista storica frutto paziente delle lotte secolari del popolo inglese per la propria libertà ed emancipazione e garantiti dalla consuetudinaria Old Constitution. Ma più in generale sappiamo anche che nel mondo anglosassone, e in particolare nell’Illuminismo scozzese, attraverso i lavori fondamentali di David Hume e di Adam Smith, il linguaggio dei diritti dell’uomo venne politicamente neutralizzato attraverso un processo di ridefinizione di legittimità che lo fece derivare teoricamente dai doveri di matrice stoica (nella versione duty-based di Pufendorf), dalla legge naturale e dal principio di sociabilità; esso vi risultò poi circoscritto allo spazio della sola giustizia: cioè programmaticamente escluso dalla sfera economica e dai suoi conflitti sociali, dal mercato, in poche parole, cui fu invece riconosciuta la piena autonomia morale a difesa della proprietà.

 

In Italia accadde qualcosa di profodamente diverso. Qui, nelle opere di Vico, di Genovesi, di Beccaria e soprattutto di Filangieri e Pagano i diritti dell’uomo e il principio di eguaglianza furono collocati alla base di una nuova Scienza della legislazione, di un nuovo ordinamento giuridico e costituzionale che coinvolgeva ogni aspetto della vita civile: dal progetto di forme legittime di statualità che fossero poste al servizio dei diritti all’attenzione per l’istruzione pubblica, dalla riforma penale a nuove legislazioni in campo religioso ed economico capaci di salvaguardare la dignità dell’uomo.

 

Assai differente, poi, fu l’interpretazione dei diritti elaborata in Francia nel corso del Settecento dai circoli illuministici. Qui la piena politicizzazione dei diritti – vale a dire il loro uso nella sfera pubblica come moderna “formula politica” e strumento retorico di forte mobilitazione e di lotta contro i privilegi e le ingiustizie dell’Antico regime – ebbe inizio con l’impegno di Voltaire nel celebre affaire Calas e si sviluppò poi nella battaglia contro la tratta degli schiavi, attraverso le opere letterarie, teatrali, nella vera e propria “messa in scena” della difesa dell’uomo da parte di Rousseau, di Diderot, di Mercier, di Condorcet, o a favore dei diritti delle donne nelle opere teatrali e nella militanza di Olympe de Gouges, autrice di una Dichiarazione dei diritti delle donne ghigliottinata dai giacobini allora impegnati nel Terrore rivoluzionario per la sua contrarietà alla condanna a morte del re.

 

In Germania, nei territori del Sacro Romano Impero, la lotta per i diritti dell’uomo da parte di tanti giovani Aufklärer con a capo Schiller, Herder e Goethe, sviluppatasi nel corso della seconda metà del Settecento contro il dispotismo di uno Stato assoluto ovunque egemone, si concluse con un fallimento. Ne fece le spese la propaganda dei diritti messa in opera dalle logge massoniche, e in particolare la strategia del complotto politico seguita dalla massoneria settaria di Adam Weishaupt e degli Illuminati di Baviera. Quella sconfitta e la caccia alle streghe che ne seguì, così come gli sviluppi imperialistici della Rivoluzione francese nel segno della Grande Nation, interruppero definitivamente la diffusione e l’approfondimento del linguaggio dei diritti in chiave illuministica e costituzionale, favorendone invece lo stravolgimento e la definitiva neutralizzazione politica con la promulgazione del Codice generale prussiano nel 1794. Quel testo – dove i diritti erano certamente enunciati, ma in formulazioni giuridiche singolari che negavano il principio di eguaglianza e il loro originario carattere naturale e inalienabile – chiudeva l’intensa stagione cosmopolita e illuministica tedesca; in esso si ribadivano infatti scelte secolari di cultura politica ispirate al Leviatano di Hobbes, secondo cui solo lo Stato, nella sua moderna versione burocratizzata e legislativamente onnipotente, era in grado di generare e tutelare la società civile concedendo i diritti dall’alto ai sudditi, anziché viceversa, come pensavano Locke e i repubblicani del Tardo Illuminismo che premettevano invece sempre l’esistenza dei diritti e della società civile allo Stato e alla sua legittimità.

 

Con la Rivoluzione francese e il Terrore il progetto illuministico di difendere, emancipare e rendere felice l’uomo attraverso la pratica dei diritti s’interruppe: finì sostanzialmente nell’oblio e in un cono d’ombra storiografico. La storia europea prese indubbiamente un’altra strada, e sappiamo che essa è ancora tutta da ricostruire dal punto di vista dell’eredità di quel mondo e di quel linguaggio che mirava a proteggere l’individuo di fronte all’emergere dei fondamentalismi religiosi, del nazionalismo venato di razzismo dei vari “Risorgimenti nazionali” e dei fautori dell’onnipotenza dello Stato.

 

E l’esigenza ormai ineludibile di ricostruire quel segmento dimenticato della coscienza storica europea è divenuta tanto più forte quanto più l’odierna lettura del linguaggio politico dei diritti dominante nella sfera pubblica, tutta giuridica, sociologica, astrattamente retorica e disincarnata dal passato non pare assolutamente in grado di parlare al cuore degli europei, alla loro identità profonda costruita nel sangue attraverso i secoli. Solo una nuova storiografia civile può forse sperare di riaccendere antichi canali e riaprire discorsi interrotti di quell’antico programma universalistico dell’Illuminismo per troppo tempo combattuto e dimenticato, ma pur sempre parte decisiva e di pulsante vitalità della storia e delle tradizioni europee.

 

Vincenzo Ferrone

Docente di Storia Moderna all'università di Torino

 

Bibliografia:

K. CMIEL, The Recent History of Human Rights, «The American Historical Review», 109 (2004), pp. 117 e sgg.  L. HUNT, Inventing Human Rights : A History, New York, 2007.

D. EDELSTEIN, Enlightenment Rights Talk, in «Journal of Modern History», 84, n. 3 (2014), pp. 312 e sgg.

S. MOYN, Last Utopia. Human Rights in History, Harvard, 2010.

V. FERRONE, Storia dei diritti dell’uomo. L’illuminismo e la costruzione del linguaggio politico dei moderni, Roma-Bari, 2014.

V. FERRONE, The Enlightenment. History of an Idea, Princeton, 2015