L’Uomo, la vita in gruppo e la paura di Antonella Bellino

Ci sono tutti gli stimoli per fare ancora una riflessione sull’Homo Sapiens. Dunque, la specie umana rientra nella classe dei mammiferi, la maggior parte dei quali vive in gruppo, e anche l’uomo fa parte di questi. Anzi, per la sua sopravvivenza, il fatto di vivere in gruppo è stato essenziale per l’Uomo, ed è probabilmente nella sua capacità di comunicare che risiede il distinto  passo evolutivo della nostra Specie rispetto alle altre: comunicare l’esperienza ha permesso di costruire una risposta di adattamento all’ambiente e al contesto decisamente utile.


Non è qui utile soffermarsi sugli aspetti delle capacità cognitive dell’Uomo, tra cui quella – fondamentale - dell’uso della parola per comunicare: è importantissimo, ma non è il punto su cui vorrei mettere l’accento.

Il punto riguarda piuttosto due caratteristiche della nostra Specie: mammiferi che vivono in gruppo e strategie di difesa.    

Nelle organizzazioni delle altre Specie tra i mammiferi, l’aggressività all’interno del gruppo è legata a specifiche necessità: il territorio, il cibo, la riproduzione. Al di fuori di questi casi, rispetto a noi umani, gli altri mammiferi non hanno motivo di aspettarsi un attacco da un membro della stessa Specie.

 

Le relazioni tra gli esseri umani hanno una realtà più complessa, che si articola a partire dalle stesse necessità ancestrali, per arrivare alle più o meno articolate modalità di convivenza nella Società.  

Nel corso della storia, ogni Società, con la sua specifica cultura, ha stabilito al suo interno delle regole generali di comportamento (mores) ma, per quanto diverse tra loro possano essere, tutte nascono dallo stesso fondamento, cioè dalla necessità di poter far parte e non essere esclusi dal gruppo.  

Essere fuori dal gruppo vuol dire essere in pericolo di morte, ed essere in pericolo di morte è il motivo fondante della paura.

 

Ora, come è ormai osservazione condivisa in ambito scientifico – e come ha molto bene espresso il Prof. Lucio Della Seta nei suoi testi – la reazione umana ad una condizione di pericolo è la risposta automatica Lotta o Fuggi, nota anche come Fight or Flight.

 

Nella nostra cultura contemporanea, per essere o sentirsi esclusi, è sufficiente essere emarginati dal punto di vista relazionale: puoi anche mangiare, avere un tetto sulla testa, persino fare sesso, ma se non sei accettato dal gruppo sei - o ti senti - emarginato, dunque in pericolo.

Generalmente, la reazione più immediata al pericolo è quella di fuggire. Ma se la fuga non permette di sanare la condizione di pericolo, non resta che lottare, combattere, anche a costo della vita.  

Fuggire dall’emarginazione, o dalla trasparenza agli occhi degli altri, o anche dal ridicolo, sostanzialmente non si può.

 

Così, resta la paura. Depressione, rabbia, frustrazione, vendetta, possiamo raffinare la nostra definizione e trovare quella più aderente ai tanti fatti di cui veniamo a conoscenza, ma ciò che rimane è la scelta di uno di noi che combatte contro altri di noi.

Non mi vedete? Non mi considerate? Mi prendete in giro? Mi è insopportabile, dunque vi uccido. (Non c’è bisogno di essere Ercole o Ulisse: basta un’arma).

 

Da un altro punto di vista, il fatto di non aderire a certe regole comportamentali - che si ritengono le più giuste e universalmente valide, può indurre alcuni individui della nostra Specie a voler escludere chi non le rispetta o, più drasticamente, a eliminarlo. Non sei degno; Hai sbagliato; Non vali niente, dunque ti uccido. 

Sono dinamiche che possono riprodursi nei tanti sottogruppi delle nostre Società, come nel più piccolo, che è quello familiare. Lì, evidentemente, spesso vince la bruta forza. Non sei o non fai come voglio? Sono il più forte e ti uccido.

 

A volte può bastare anche meno: Mi dai fastidio? Ti uccido.

In linea di massima possiamo osservare che per la nostra Specie la vita è complicata. A differenza delle altre Specie, noi Sapiens ci troviamo nella scomoda e delicata condizione di riconoscere nel nostro prossimo il fondamento della nostra sopravvivenza e, contemporaneamente, il nostro più feroce aggressore.

 

Al di là della qualità delle menti di cui ciascuno di noi è portatore e al di là del tipo di convinzioni che muovono le azioni umane, è un fatto che il nostro prossimo per noi equivale, potenzialmente, a un leone, un serpente, uno squalo, o anche a un terremoto, un’alluvione, un incendio.   

 

Mentre ci sforziamo di capire meglio come siamo fatti – cosa che perlomeno ci aiuterebbe a livello empatico - credo si possa condividere l’ipotesi che una risposta efficace a questa schizofrenica condizione umana sia innanzitutto di ordine culturale, soprattutto nella sua declinazione di equità sociale.

Potremmo, ad esempio, cominciare con l’essere meno ingordi e più solidali: per essere più sicuri e stare tutti più tranquilli. Anche quelli che non possono permettersi un Bunker all’ultimo grido.      

 

Antonella Bellino     

Giornalista