L’impatto del cambiamento climatico sulle donne del Sud del Mondo, di Loretta Peschi

L’impatto di tali cambiamenti - specie quando sono repentini - comporta morte, lesioni, danni alla salute e aumento delle malattie infettive, stress mentale e fisico, oltre alla perdita di piante medicinali e della biodiversità. Gli effetti globali del cambiamento climatico - sostengono gli studi - impatteranno negativamente sulle comunità, minacciando con ciò la sicurezza e i diritti umani.


Da vari anni la politica internazionale, come pure le politiche nazionali e le opinioni pubbliche, stanno affrontando la realtà del cambiamento climatico che con sempre maggiore evidenza mette a rischio la sopravvivenza stessa del pianeta e dei suoi abitanti.

Gli allarmi, gli appelli e i piani internazionali si susseguono nel tentativo di invertire la rotta, favorire l’assunzione di responsabilità, il contrasto a pratiche “suicide” e la realizzazione di politiche conseguenti; tutti ricordiamo la Conferenza di Rio di Janeiro del 1992 che produsse la Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (United Nations Framework Convention on Climate Change) [1], l’enciclica di Papa Francesco Laudato si’ del 2015 e, sempre del 2015, gli accordi di Parigi sul clima “COP21” miranti alla riduzione dei gas serra in tutto il pianeta.

In questo quadro, c’è un aspetto di cui si parla raramente nel discorso comune in Italia e in Europa, ed è l’impatto che i cambiamenti climatici stanno avendo (e sempre di più avranno) sulle donne del Sud del pianeta. Studi approfonditi hanno affrontato il tema [2], indicando non solo le cause e gli effetti, ma anche proponendo esperienze di “resilienza” di grande interesse.

Ma cerchiamo di specificare di cosa stiamo parlando. La Convenzione Quadro dell’ONU sul Cambiamento Climatico (UNFCCC - United Nations Framework Convention on Climate Change) definisce il cambiamento climatico come “un cambiamento di clima che è attribuito direttamente o indirettamente all’attività umana che altera la composizione dell’atmosfera globale e che si aggiunge ad alte variabilità climatiche naturali che è stato osservato in periodi di tempo comparabili”.  Questo cambiamento è un processo che si manifesta in vari modi, tra cui: aumento della temperatura, cambiamenti nelle precipitazioni piovose che comportano inondazioni, siccità e - in certe zone - desertificazione, eventi climatici estremi e non prevedibili che si traducono in disastri naturali, scioglimento dei ghiacciai e delle calotte polari con conseguente innalzamento del livello dei mari, ed erosione delle coste che diventano perciò inabitabili.

L’impatto di tali cambiamenti - specie quando sono repentini - comporta morte, lesioni, danni alla salute e aumento delle malattie infettive, stress mentale e fisico, oltre alla perdita di piante medicinali e della biodiversità. Gli effetti globali del cambiamento climatico - sostengono gli studi - impatteranno negativamente sulle comunità, minacciando con ciò la sicurezza e i diritti umani. Pertanto, è stato asserito che il cambiamento climatico è fondamentalmente una questione di dignità umana e, di conseguenza, di diritti umani [3]. Pertanto, il cambiamento climatico rappresenta una sfida alla capacità degli Stati e delle comunità locali di proteggere i diritti umani e la dignità individuale. Va da sé che gli Stati più fragili incontrano le maggiori difficoltà in questo senso. Peraltro, già nel 2007 risultò chiaro che le variabili che possono comportare conflitti violenti, disordini, e crisi umanitarie sono: l’insicurezza alimentare, i disastri naturali, la scarsità di acqua e la migrazione dovuta ai fattori ambientali [4] .

In questo quadro, il peso principale (alcuni dicono “sproporzionato”) di questi processi ricade sulle donne; basti considerare che nel mondo le donne rappresentano il 43% della forza lavoro agricola globale, e che le donne agricoltrici in Africa producono il 90% degli alimenti [5]. In questa realtà, è stato notato che “poiché le donne e le ragazze sono incaricate dei lavori domestici e di cura non retribuiti (specialmente nelle comunità rurali) le loro vite sono direttamente colpite dai cambiamenti conseguenti al cambiamento climatico” [6].

Le loro incombenze domestiche possono risultare molto più pesanti a causa della scarsità di acqua, della ridotta mobilità, della deforestazione, il che si traduce anche in minor tempo disponibile per l’istruzione e/o il lavoro retribuito. In presenza dei grandi disastri naturali le donne appaiono più vulnerabili degli uomini, sia sul piano sociale che su quello economico, con maggiori difficoltà ad affrontare il “dopo”, soprattutto perché spesso non hanno proprietà e/o diritto alla proprietà, né è loro riconosciuta la “autorevolezza” necessaria per affermare la loro leadership nelle famiglie. Senza dimenticare le drammatiche situazioni in cui si trovano le donne e le ragazze che, a causa di disastri naturali, sono costrette a migrazione forzata che spesso si traduce in vera e propria aggressione e in sfruttamento sessuale, sia in patria che nei paesi di destinazione delle migrazioni.

Tuttavia, non mancano le donne che hanno dimostrato di saper condurre pratiche di adattamento e creare comunità più resilienti. In Senegal, a Joal Fadiouh a sud di Dakar, l’associazione di donne “Dynamiques Femmes” coltivatrici di riso ha affrontato le conseguenze dell’innalzamento del livello del mare che ha comportato la salinizzazione delle terre destinate alla coltivazione del riso: insieme all’amministrazione locale e altre ONG, queste donne hanno contribuito alla costruzione di un canale anti-sale di 3.300 metri, che ha consentito di rivitalizzare le coltivazioni di riso, ha rigenerato la vegetazione locale e promosso il recupero della biodiversità.  

In Kenya il “Green Belt Movement” (Movimento Cintura Verde) ormai da molti anni aiuta gruppi di donne a produrre sementi, piantare alberi per il contenimento dei suoli, raccogliere l’acqua piovana, procurare cibo e legna da ardere, e ricevere ricompense in denaro. Dalla sua fondazione il Green Belt Movement ha piantato 51 milioni di alberi e ha creato lavoro, aumentato i guadagni delle donne e migliorato la sicurezza alimentare e idrica. A questo proposito vale la pena sottolineare che l’accesso all’acqua potabile rappresenta una delle principali sfide per lo sviluppo delle donne e delle loro comunità: è stato calcolato che, globalmente, donne e bambini usano 140 milioni di ore al giorno per andare a prendere l’acqua, con ciò sottraendo tempo e risorse a possibili attività produttive e/o sociali. Programmi più complessi sono stati realizzati dalle donne in Bangladesh e in India, per fronteggiare le conseguenze delle inondazioni sempre più frequenti e sviluppare così le loro capacità di resilienza.

Una riflessione va anche fatta sulle migrazioni conseguenti ai cambiamenti climatici e il loro impatto sulle donne. Da un lato, quando sono gli uomini a migrare, le donne restano a casa con i figli e gli anziani, spesso - troppo spesso - senza quelle capacità, autorevolezza e risorse finanziarie necessarie per provvedere a sé stesse e alla famiglia; se, inoltre, la terra non produce più per via della desertificazione o delle inondazioni, si capisce facilmente quanto la situazione diventi drammatica.

D’altro lato, numerosissimi sono i casi di donne “costrette” a migrare proprio quando la terra non dà più da mangiare e troppo spesso esse diventano preda di sfruttatori a fini sessuali e/o economici. Non di meno, malgrado questi rischi la migrazione volontaria può anche rappresentare una opportunità di trovare maggiore stabilità, comunità più sicure, maggiore accesso alle risorse, e possibilità di inviare rimesse alle famiglie rimaste in patria. Ma questa opportunità passa anche attraverso la possibilità e la volontà delle donne migranti di “fare squadra”, ottimizzando così capacità e risorse. Da questo punto di vista, la disponibilità e l’impegno delle donne “cittadine” dei Paesi di accoglienza e delle loro reti risulta fondamentale.

Infine, una riflessione: la realtà delle donne migranti a seguito dei cambiamenti climatici dovrebbe interrogare anche le politiche europee (intese come “policies”): qui non si tratta più o solo di riequilibrare la distribuzione dei migranti che approdano sulle coste sud del Mediterraneo, e neanche solo di garantirne - cosa assolutamente prioritaria - il pieno godimento dei diritti umani nei “nostri” territori; qui si tratta di sostenere i governi e la società civile dei Paesi del Sud del mondo nel loro impegno  a creare le condizioni per dare corpo agli impegni presi a Parigi (COP21) e, contestualmente, a sostenere le iniziative delle donne - incluse le iniziative di migrazione - che vanno nella direzione di una resilienza attiva, creativa e libera. Non sarà semplice, ma non sarà impossibile.

Loretta Peschi

[1] Trattato ambientale internazionale prodotto dalla Conferenza sull’Ambiente e sullo Sviluppo delle Nazioni Unite (UNCED, United Nations Conference on Environment and Development), meglio nota come Summit della Terra, tenutosi a Rio de Janeiro nel 1992. Il trattato puntava alla riduzione delle emissioni dei gas serra, sulla base dell’ipotesi di riscaldamento globale.

[2] Fra tutti citiamo il corposo documento “Women and climate change” di Mayesha Alan, Rutmani Bhatia e Briana Mawby, pubblicato dal Georgetown Institute for Women Peace and Security

[3] Così si espresse nel 2015 Mary Robinson, Inviata Speciale dell’ONU per il Cambiamento Climatico.

[4]“World in Transition: Climate Change as a Security Risk” 2007, del German Advisory Council on Global Change.

[5]K. D. Maas Wolfenson, Coping with the food and agriculture challenge (FAO 2013).

[6]E. Skinner, Gender and Climate Change Overview Report (Bridge 2011).