Vite disuguali. Salute, longevità, accesso ai diritti: la misura delle grandi fratture sociali, di Marianna Madia

Ragionare attorno al tempo di durata delle nostre vite, congiuntamente alla sua qualità, è un modo meno tradizionale ma, come si vedrà, assai concreto ed efficace per analizzare lo stato di salute della nostra società e le prospettive verso cui, con l’attuale modello di sviluppo, stiamo andando.


La longevità come misura del benessere di una società. Più nel profondo, la longevità come parametro per analizzare il tasso crescente di disuguaglianza nel mondo che viviamo.

Ragionare attorno al tempo di durata delle nostre vite, congiuntamente alla sua qualità, è un modo meno tradizionale ma, come si vedrà, assai concreto ed efficace per analizzare lo stato di salute della nostra società e le prospettive verso cui, con l’attuale modello di sviluppo, stiamo andando.

In fondo, cos’altro se non la qualità della vita degli esseri umani intesa come uguaglianza nei diritti, ambiente sociale che consente di migliorare l’esistenza indipendentemente dalle condizioni di partenza, può rappresentare la linea di confine su cui si misurano diverse visioni del mondo?

Per il campo dei progressisti l’uguaglianza sociale, la parità di accesso alle opportunità, il benessere collettivo e i mezzi che le istituzioni mettono a disposizione dei cittadini per migliorare la propria condizione individuale rappresentano i principi cardine di un orizzonte ideale.

In una fase storica nella quale, troppo spesso, le differenze tra visioni del mondo tendono erroneamente a essere rappresentate come totalmente mobili e sfumate e, allo stesso tempo, tutti faticano a fornire risposte concrete ai livelli crescenti di disagio delle nostre società, abbiamo creduto utile fornire una analisi da una prospettiva originale, che guardi al cuore più profondo della ragione di essere di una proposta economica e sociale.

Come si vive oggi in Italia? La salute, la condizione dell’infanzia, l’ambiente, il lavoro, le nostre città, l’accesso alle nuove tecnologie: in che misura, in questi ambiti della vita umana, alle persone oggi è assicurata la possibilità di un’esistenza soddisfacente ed equa?
Troppo spesso su questi temi la politica sconta un deficit di analisi che si ripercuote in un deficit di proposte concrete comprensibili alle persone e capaci di rendere tangibilmente migliore la vita.

Per questi motivi e con queste premesse abbiamo costruito un volume a più voci, chiedendo a professionisti ed esperti di analizzare, da più angolature, i fenomeni della longevità, della qualità di vita dei nostri cittadini, delle nuove povertà e in definitiva dell’uguaglianza e dello stato di salute della nostra democrazia.

Dagli aspetti sociologici e ordinamentali con i contributi di Carla Bassu e Alessandro Rosina, alle riflessioni sovranazionali con Lia Quartapelle ed Enrico Petrocelli, le proposte sui temi del lavoro, del sociale e dell’impatto delle nuove tecnologie con Chiara Gribaudo, Cristina Tajani e Francesco Samoré, le analisi sull’accesso ai servizi sanitari e alle cure grazie al lavoro di Ida Pavese, Beatrice Lorenzin e Francesca La Farina, la condizione dell’infanzia e delle nuove generazioni con Alessia Mosca, sino ai contributi sull’ambiente e la sostenibilità proposte da Rossella Muroni.

La lettura dei contributi fa emergere, sopra tutti, un tema: l’impoverimento, lento ma progressivo, di fasce sempre più ampie della popolazione. Dalle diverse analisi, si evidenzia come a livelli più bassi di condizioni economico/sociali corrispondano perfettamente disuguaglianze strutturali che riguardano la salute, il lavoro, l’uguaglianza nell’accesso ai diritti e le aspettative di crescita e sviluppo. Ancora più grave, stando alla lettura dei contributi, è la constatazione che le penalizzazioni impattano sull’infanzia, determinando sin dai primi anni di vita, in modo difficilmente reversibile, i percorsi di vita futuri.

La povertà e la marginalità sociale, dipendenti certo da quella economica, condizionano da subito le opportunità di accedere a percorsi di studio soddisfacenti, a livelli di consapevolezza e possibilità della cura del sé nella prevenzione e nel trattamento delle malattie, alla possibilità di vivere in ambienti e condizioni salubri.

Quel che più preoccupa, per usare un’espressione nota, è il rallentamento grave, se non addirittura il blocco, del famoso ascensore sociale. Chi nasce povero ha sempre meno opportunità di migliorare sensibilmente la propria condizione di origine. Ma c’è di più. Non siamo davanti a una fotografia statica ma a un piano inclinato che tende persino a far scivolare all’indietro rispetto alle condizioni di partenza.

C’è la povertà dunque e la paura, fortissima, della povertà. A ben pensarci, povertà è una parola che suona “antica”. Siamo cresciuti, tutti noi, in una società nella quale, dal secondo dopoguerra in poi, la crescita economica e l’affermazione dei diritti sociali hanno progressivamente fatto assumere alla parola “povertà” un rimando a tempi lontani.

Con uno sguardo d’insieme, seppure superficiale, dal boom economico degli anni Sessanta, passando per alcuni anni di crisi nel decennio del 1970 per approdare al periodo d’oro degli anni Ottanta, il nostro Paese ha vissuto in ogni caso un progresso che ha condotto tante fasce sociali a migliorare la propria condizione, rispetto a quella dei propri genitori.

A ben guardare e senza analizzare la bontà o meno dei meccanismi sui quali si fondasse quel modello economico e sociale, fino agli inizi degli anni Duemila, in Italia, come in Europa, abbiamo vissuto nella convinzione che il futuro sarebbe stato migliore del presente. In quegli anni, forse pochi avevano piena contezza di alcuni fatti che stavano accadendo, tra cui la crescita della Cina che da tempo aveva iniziato a erodere parte della ricchezza fino a quel momento “detenuta” dall’Occidente.

Il dramma delle torri gemelle ha segnato il primo spartiacque aprendo una fase di forte instabilità globale. Poi è arrivata la crisi finanziaria del 2008. Da quel momento in poi, salvo alcuni rimbalzi, è stato evidente che l’Europa, e l’Italia in prima fila, avrebbe dovuto fare i conti con un mondo dove la distribuzione della ricchezza non sarebbe più stata uguale a prima.

Nel mondo di oggi, la povertà è la vera sfida. L’allargamento della forbice delle disuguaglianze, l’indebolimento del ceto medio, lo scivolamento verso il basso di fasce sempre più ampie di popolazione, la perdita di certezze per il futuro che investe in modo trasversale le nostre società, generando paure e ineguaglianze crescenti, rappresentano il grande argomento del nostro tempo.

Da diversi anni ormai, ritengo che il tema dell’impoverimento della classe media debba rappresentare il nucleo principale di una iniziativa di politica pubblica che declini un nuovo modello, sostenibile, di sviluppo economico e sociale.
Le nostre società non si sono mai totalmente riprese dallo stravolgimento iniziato nel 2001 e arrivato al suo apice con la crisi del 2008.

Ho sempre creduto e credo ancora ora che dalla fine, non felice, della Terza Via che pure rappresentò una grande visione evolutiva, le forze progressiste non siano più riuscite a ricostruire un’idea guida forte, inclusiva e riconoscibile di modello economico e sociale.

Da quel momento in poi, tutti, in Italia, in Europa e nel mondo, fatichiamo a trovare risposte strutturali a una società che ha iniziato ad avere paura del futuro, a perdere complessivamente quote di mercato a favore di mercati emergenti e a fare i conti con un progressivo indebolimento della classe media. Abbiamo iniziato a comprendere che la povertà non è solo la condizione degli ultimi e che quote più consistenti delle nostre società fanno i conti con la precarietà e l’ansia del futuro.

Nell’arco di un decennio abbiamo dovuto affrontare la più grave crisi finanziaria insieme a quella del ‘29 e ora la peggiore pandemia del secolo. Siamo entrati nella tempesta con strumenti di tutela abbassati e inadeguati.

C’è da dire che con la pandemia la risposta europea ha segnato una discontinuità radicale. Dopo pochi mesi dallo scoppio dell’emergenza sanitaria, con una inversione strutturale rispetto alla linea dell’austerity, l’Europa ha sospeso il patto di stabilità; consentito gli aiuti di Stato; garantito l’acquisto di titoli da parte della BCE assicurando solvibilità e stabilità al sistema; istituito il SURE e varato il Next Generation EU. Insomma, una risposta senza precedenti ad una crisi senza precedenti. Una risposta, per certi versi e senza eccedere in entusiasmi, radicale.

Ma i quasi tre anni ormai che abbiamo alle spalle e lo scenario internazionale drammatico che abbiamo davanti non possono che peggiorare lo stato di cose.

Per citare un esempio concreto: già prima della pandemia i lavoratori poveri erano diventati un tema di estremo rilievo. Oggi quel tema è ancora più serio. Dall’autunno di questo anno in poi, il tema rischia di trasformarsi in una emergenza sociale.

Qualche mese fa, il rapporto presentato dal gruppo di lavoro al Ministro Orlando segnala che l’indicatore europeo rileva nel 2017 in Italia un’incidenza della povertà lavorativa (quota di poveri “familiari” fra chi lavora almeno da 7 mesi) pari al 12,3%, in netta crescita dal 9,4% del 2006. Se nel calcolo si includono tutti quelli che sono stati occupati almeno 1 mese e che reputano il lavoro come il loro status prevalente, il dato cresce al 13,2% e 10,3%, rispettivamente nel 2017 e nel 2006.

Questi dati rischiano un ulteriore peggioramento nella condizione di globale incertezza in cui ci troviamo. Non è solo un tema di inflazione e di prezzi al consumo: potremmo, non è escluso, nel corso dei prossimi mesi, trovarci davanti un processo di de-globalizzazione, un quadro che ri-regionalizza i flussi economici e finanziari in zone mondiali di influenza.

Tutto ciò avrà un peso in primo luogo, ovviamente, sulle fasce più esposte.

Occorre fornire protezione. Ma come in concreto? Ho sempre ritenuto punto essenziale
di una agenda progressista misure che assicurino protezione economica sufficiente in caso di disoccupazione e garantiscano salari dignitosi e congrui alle persone.

Ma accanto a ciò, come si ritiene unanimemente da tempo, la prima vera tutela contro la povertà, a favore di lavori che assicurino redditi alti o comunque soddisfacenti, è la formazione e il contrasto alla povertà educativa.

La formazione STEM anzitutto. In particolare nelle discipline STEM ancora oggi le donne sono circa la metà rispetto agli uomini, e il loro numero cresce molto lentamente. Come ho sentito ricordare a Tiziano Treu di recente, il Bureau of Labor Statistics degli Stati Uniti da anni fa proiezioni di crescita per i green jobs: non solo nuovi “lavori verdi” legati alla tecnologia, ma anche lavori tradizionali riconvertiti in ottica di sostenibilità, con nuove competenze, attraverso investimenti mirati in formazione. Investire in alta formazione significa aprire nuove opportunità. Un maggiore accesso ai percorsi di alta formazione per le donne permette ricadute positive su diversi aspetti che riguardano la parità di genere.

Ci sono poi i punti della salute e dell’accesso alle cure. La pandemia ha messo in luce i limiti del nostro sistema sanitario e acuito le distorsioni di un modello che, seppur universalistico, sta scivolando sempre più verso un sistema che non riesce ad assicurare cure pubbliche tempestive. Non è la qualità dei no stri medici in discussione, anzi. È un sistema che ha allentato i presidi di prevenzione sui territori e nelle scuole anche in termini di consapevolezza e di cultura del benessere che dipendono da molteplici fattori, alcuni dei quali sono anche di natura am bientale.

L’ambiente, le città in cui viviamo, la qualità dell’aria che respiriamo, l’impatto dei nostri modelli produttivi e di consumo, sono in prima linea temi attorno ai quali costruire uno sviluppo sostenibile che, a mio giudizio, dovrebbe essere la cornice ideale da dare a una proposta progressista del temp o che viviamo. In questi anni abbiamo assistito a una dop pia distorsione.

Da un lato inerzia e sottovalutazione della rilevanza, non nel lungo termine ma già nel medio e breve, del tema della sostenibilità. Dall’altro alcuni eccessi ideologici e retorici sotto la bandiera del “verde” hanno condotto a scelte errate e di corto respiro.

Nella parola “sostenibilità” è insito il concetto di giusto equilibrio, che sinora sembra mancare nella discussione non solo italiana. Questo tema, è evidente, attiene a scelte dei singoli Paesi, ma non può che tenere conto di uno scenario globale dove i Paesi e i loro sistemi produttivi si misurano in competitività e nella capacità di produrre benessere comune.

È proprio al benessere comune che bisogna guardare per progettare scelte strutturali che disegnino una sostenibilità che non finisca per ampliare, invece che ridurre, le disuguaglianze sociali.

Ecco dunque la linea rossa che alla fine tiene insieme il senso di tutti i contributi che compongono questo volume: dotarci di strumenti efficaci di contrasto alle molte disuguaglianze esistenti affinché nella nostra società i percorsi di vita individuali e collettivi possano essere più giusti e più equi.

Sono dunque analisi, riflessioni e proposte fatte da una generazione di donne e uomini che operano in tanti settori diversi della società e che possono contribuire ad alimentare, verso chi ha responsabilità pubbliche, una riflessione complessiva su come affrontare il tempo difficile che ci è dato vivere.

Marianna Madia

(Questo testo compare come introduzione al volume “Vite disuguali. Salute, longevità, accesso ai diritti: la misura delle grandi fratture sociali”, di cui è autrice la stessa Marianna Madia).