A livello europeo si sta ormai ammettendo che il progresso verso la parità sta registrando una battuta di arresto e che occorre riportare la parità di genere nella lista di priorità dell’Unione con provvedimenti efficaci, che vadano oltre le (vuote) dichiarazioni di intenti.
L’Unione europea, con le sue istituzioni, compresa la Corte di giustizia, ha impresso un segno profondo nella normativa rivolta alla parità e alle pari opportunità di donne e uomini. E’ passato molto tempo da quando il percorso è stato intrapreso negli anni ’70 e proseguito con alterne vicende fino al 2000. Gli ultimi vent’anni possono, invece, più nettamente essere scissi in tre: nel primo periodo (2000 – 2006) sono state riscritte le regole e risistemato il diritto anti-discriminatorio nei confronti di numerosi fattori di rischio, compreso il genere; negli anni successivi, l’impegno è stato prevalentemente rivolto a politiche, strategie, strumenti di soft law, orientati all’obiettivo, ancor più difficile da realizzare, di rendere effettivi i principi e irreversibile il processo (2006 – 2021); nell’ultimo biennio si è arrivati alla emanazione di ben tre direttive: sui differenziali retributivi, sull’incremento dei congedi parentali, sul vincolo alla presenza femminile nei Boards.
L’evoluzione a livello europeo riguarda essenzialmente i medesimi temi continuamente riproposti, sia pure in una veste rinnovata, a fronte di una situazione reale in larga misura insoddisfacente e statica, priva di significative variazioni, anche per le ricadute negative sulla protezione del lavoro dovute alle crisi drammatiche vissute, da quella economico-finanziaria alla recessione economica sull’occupazione e sui redditi, alla pandemia, alla guerra, con particolare svantaggio per le donne.
Ne è derivato l’impulso impresso dalle istituzioni europee nel campo delle regole, con il Patto europeo per la parità di genere; con tre importanti direttive rivolte ai temi più importanti in materia, come la parità retributiva di genere, la revisione della normativa sui congedi, e la presenza negli organismi societari; con una serie di risoluzioni. Tutto questo ci porta a dire che siamo entrati in una fase di implementazione e rafforzamento, con una evidente continuità del percorso, ma anche con importanti elementi di innovazione.
Scopo della presente analisi non è quello di illustrare i contenuti dei testi, ma di individuare le linee prospettiche che consentano di mettere in evidenza le scelte adottate e la loro evoluzione.
I documenti da considerare nel loro complesso – sia quelli che forniscono indicazioni e linee politiche, sia i veri e propri testi legislativi – sono numerosi. Troviamo: i ricorrenti impegni assunti nell’ ambito delle Strategie per la parità; le Relazioni annuali sulla parità; le verifiche sulla trasposizione delle direttive sulla parità; la direttiva sui differenziali retributivi; il terzo intervento sui congedi parentali, con l’aggiunta del congedo di paternità; la disciplina di sostegno alla presenza delle donne nei Board delle imprese; la riforma della direttiva sulla maternità per le lavoratrici autonome; il Pilastro europeo dei diritti sociali.
Sono ancora in attesa: la revisione della direttiva del 1992 sulla tutela della maternità nel lavoro subordinato, che è stata ritirata, e la direttiva sulle discriminazioni oltre il lavoro (comunemente chiamata direttiva orizzontale, che preferirei definire «altre/oltre»).
In via preliminare va ancora ricordato che con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona si è risolto definitivamente – benché non sull’intero scacchiere europeo – il problema dell’attribuzione di valore giuridico vincolante alla Carta dei diritti fondamentali (art. 6 TUE) e quindi agli articoli 21 e 23 sul divieto di discriminazioni e la parità di trattamento.
Inoltre, il nuovo articolo 2 del TUE incardina tra i valori fondamentali l’uguaglianza e prefigura «una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini». La dichiarazione secondo cui «nelle sue azioni l’Unione mira ad eliminare le ineguaglianze, nonché a promuovere la parità tra uomini e donne», cioè il cosiddetto gender mainstreaming, è diventata autonoma disposizione (art. 8 TFUE). A questo si è aggiunto un paragrafo rafforzativo: «nella definizione e nell’attuazione delle sue politiche e azioni, l’Unione mira a combattere le discriminazioni fondate sul sesso, la razza o l’origine etnica, la religione e le convinzioni personali, la disabilità, l’età o l’orientamento sessuale» (art. 10 TFUE). E’ cambiata inoltre la procedura legislativa, che coinvolge maggiormente il Parlamento europeo (art. 19 TFUE). Come si può agevolmente constatare, si tratta di cambiamenti abbastanza limitati, ma di portata, almeno sulla carta, esponenziale.
Vanno segnalati, da ultimo, alcuni ulteriori profili di interesse: nella Risoluzione del Parlamento europeo del 15 gennaio 2019 sulla parità di genere e le politiche fiscali nell’Unione europea, con un giudizio negativo nei confronti delle scelte nazionali di tassazione congiunta a livello familiare, che consente al nostro Paese di rappresentare una buona prassi; nell’inserimento del contrasto alla violenza di genere tra gli obiettivi prioritari di intervento delle istituzioni europee, con un rafforzamento di programmi, come quello ben noto (Daphne), per finanziare e sostenere le esperienze diffuse nei territori; le raccomandazioni in materia di salute sessuale e riproduttiva al fine di un riconoscimento come diritti umani fondamentali da includere nella Strategia dell’Unione europea in materia di sanità.
I testi di soft law a valenza generale
Iniziamo con la rilevazione annuale e quinquennale sulla parità di genere. La Relazione annuale 2023 riafferma che nonostante i progressi, le disparità di genere persistono, e nel mercato del lavoro le donne continuano a essere sovra-rappresentate nei settori scarsamente retribuiti e sottorappresentate nelle posizioni con responsabilità decisionali. Evidenzia i risultati conseguiti finora, illustrando esempi interessanti provenienti dagli Stati membri e da alcuni progetti finanziati dall'UE.
E’ un documento interessante e da apprezzare sia per l’ampiezza di contenuti, sia per il metodo, che si collega a quello della Strategia per la parità di genere 2020 – 2025. I cinque settori d’intervento prioritario sono rimasti gli stessi: la pari indipendenza economica, la parità retributiva per lavoro di pari valore, la parità nel processo decisionale, la lotta alla violenza sulle donne, la parità nelle azioni esterne.
Vi è molta continuità anche rispetto ai documenti degli anni di inizio secolo, a testimonianza di quanto lento sia il processo di avvicinamento agli obiettivi. E tuttavia, ancora una volta, sono individuati gli strumenti, legislativi e non, e i programmi di finanziamento.
L’ambito che riguarda l’occupazione è particolarmente affollato. Gli obiettivi principali sono porre fine alla violenza di genere; combattere gli stereotipi di genere; colmare il divario di genere nel mercato del lavoro; raggiungere la parità nella partecipazione ai diversi settori economici; far fronte al problema del divario retributivo e pensionistico fra uomini e donne; colmare il divario e conseguire l'equilibrio di genere nel processo decisionale e nella politica. La strategia persegue il duplice approccio dell'inserimento della dimensione di genere in tutte le politiche, combinato con interventi mirati, la cui attuazione si basa sul principio trasversale dell'intersettorialità. Seppur incentrata su azioni condotte all'interno dell'UE, la strategia è coerente con la politica estera dell'UE in materia di pari opportunità e di emancipazione femminile.
E’ da ribadire quanto detto in precedenza: ad ogni passaggio da un documento al successivo, le conclusioni della verifica sono piuttosto sconfortanti: segnalano i progressi, ma anche le difficoltà incontrate, prima fra tutte quella di far comprendere bene in cosa consistano le sfide. Occorre rafforzare la sensibilizzazione e l’adesione agli obiettivi sociali ed economici di parità e ciò richiede una forte volontà politica. La sensazione di una continua riproduzione delle questioni, senza significativi passi avanti, è deprimente. Consola però la continuità nel presidio su questi temi, che dà la misura delle difficoltà ma insieme della decisione di proseguire nel cammino iniziato ormai parecchi decenni fa e che dispone anche dell’Istituto europeo di genere, con sede a Vilnius, diventato finalmente operativo.
L’appuntamento periodico costante delle Relazioni sulla parità tra donne e uomini si aggiunge all’ormai lunga serie di verifiche annuali e rappresentano interessanti documenti di sintesi delle principali problematiche ancora aperte. Forse proprio questi testi, confrontati tra loro a distanza di un decennio possono far percepire che se i problemi restano in un decalogo invariato, gli strumenti e i contesti normativi talora mutano.
Ne è una prova il confronto con la Relazione per l’anno 2008, che in apertura richiamava i principi comuni di Flexicurity come mezzo per raggiungere quei «nuovi e migliori posti di lavoro», come richiesto dalla Strategia di Lisbona per la crescita e l’occupazione, e le Relazioni degli ultimi anni che non fanno più riferimento a questo modello, che possiamo considerare superato, anche per una sorta di eccesso di schematismo uniformante. Inascoltato è stato il Parlamento europeo, nella Risoluzione dedicata ai principi comuni, che aveva chiesto e prospettato la necessità di declinare la flexicurity al femminile, in considerazione del fatto che sono le donne le principali destinatarie dei lavori più precari e instabili; che la flessibilità – se intesa in positivo e non come precarizzazione dei rapporti di lavoro – è una delle richieste provenienti dalle donne, da sempre interessate all’organizzazione flessibile del lavoro e dei tempi; che la sicurezza non va limitata a indennità e formazione, ma estesa all’accompagnamento nelle diverse attività e scelte durante la vita delle persone; che è arrivato il tempo per un ripensamento complessivo del sistema di Welfare, meno incardinato sul lavoro subordinato.
La Risoluzione del Parlamento, in altri termini, proponeva un vero e proprio esempio di mainstreaming di genere, con alcune indicazioni concrete per tener conto: della «forte alternanza fra attività di lavoro e assistenza familiare» che inducono ad adottare politiche di protezione per i periodi di transizione diversi da quello lineare da un posto di lavoro a un altro; della «situazione specifica delle famiglie monoparentali»; della flessibilità richiesta dalla persona che lavora come strumento di conciliazione tra vita professionale, familiare e privata; della flessibilità nella formazione e nella riqualificazione professionale, oltre che durante i percorsi di reinserimento nel mercato del lavoro.
Le Relazioni, così come i Rapporti sull’uguaglianza segnalano la persistenza di divari qualitativi e quantitativi tra donne e uomini: nel tasso di occupazione – con la permanenza della segregazione settoriale e professionale e la limitata presenza nei luoghi decisionali e nella dirigenza di imprese –, nella valutazione delle competenze, nell’impiego a tempo parziale (per tre quarti appannaggio delle lavoratrici), nella salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, nel tasso di disoccupazione, nelle carriere professionali più brevi, più lente e meno remunerative delle donne, che incidono inoltre sul loro rischio di povertà.
Una novità rilevante, purtroppo negativa, riguarda l’inserimento, in chiusura dei documenti, di un inquietante paragrafo dedicato a come “contrastare i regressi in materia di parità di genere” che appare come un sinistro campanello di allarme: non solo continuiamo a non aver raggiunto la parità sostanziale, ma rischiamo di allontanarcene.
Ovviamente questa è la dimensione complessiva, che andrebbe poi partitamente integrata dalla verifica condotta Paese per Paese. Si può qui solo osservare come il nostro Paese si collochi, in ogni indicatore, nella fascia lontana rispetto al raggiungimento degli obiettivi. In controtendenza sembra esservi solo il divario retributivo. Come vedremo di seguito, proprio questo risultato apparentemente ottimale del nostro Paese ha contribuito ad indurre una riflessione attenta sulle difficoltà di disporre di dati completi per affrontare un tema così complesso.
I differenziali retributivi, la Direttiva e l’attrazione del ‘neutro’
Nel lavoro per il mercato, molte analisi anche recenti confermano quanto forte resti il divario di retribuzione tra lavoratori e lavoratrici. Come è noto, le cause dei differenziali retributivi sono molteplici e molto spesso sono insite nei sistemi di classificazione e inquadramento del personale. Occorrono, quindi, politiche e strategie mirate per superare la diffusa segregazione orizzontale e verticale nelle mansioni e nei settori tipicamente femminili, così come nelle progressioni di carriera.
Sul tema dei differenziali retributivi si è registrato un intenso investimento da parte del Parlamento europeo, che in più occasioni ha chiesto alla Commissione europea, un’apposita direttiva, al fine di dettare una definizione innovativa di differenziali retributivi, che superi le insufficienti maglie della retribuzione oraria lorda, per estendersi a quella netta e a quanto connesso. Decisiva diventa la possibilità di avvalersi di dati, che dovranno essere coerenti, comparabili e completi, al fine di abolire gli elementi discriminatori nelle retribuzioni, connessi all’organizzazione e alla classificazione del lavoro.
Questo è tanto più importante, come ricordato in precedenza, se si considera che le attuali rilevazioni a livello europeo collocano il nostro Paese al vertice dei virtuosi, mentre le indagini svolte a livello nazionale indicano la presenza di differenziali ben maggiori e la stessa non attendibilità delle fonti. Vanno effettuati controlli regolari, rivolti non solo alla retribuzione, ma altresì alle indennità addizionali, nonché la pubblicazione dei risultati.
La focalizzazione sulla classificazione e sull’inquadramento professionale è centrale: una valutazione professionale non discriminatoria deve basarsi su nuovi sistemi di classificazione, inquadramento del personale e organizzazione del lavoro, sull’esperienza professionale e la produttività, valutate soprattutto in termini qualitativi, da cui ricavare dati e griglie di valutazione in base ai quali determinare le retribuzioni, tenendo debitamente conto del concetto di comparabilità.
Va riconosciuto e sostenuto il ruolo degli organismi di parità, che dovrebbero svolgere attività di formazione alle parti sociali, oltre che ad avvocati, magistrati e difensori civici, basata su un insieme di strumenti analitici e azioni mirate, utile sia al momento della contrattazione che al momento della verifica dell’attuazione delle normative e delle politiche pertinenti al divario retributivo.
Il dialogo sociale include la contrattazione collettiva, che va sostenuta e promossa ma anche controllata, affinché non diventi strumento di differenziali retributivi, in riferimento non solo alle condizioni di lavoro primarie, ma anche alle condizioni secondarie e ai regimi occupazionali di sicurezza sociale (regimi di congedo e pensionistici, veicoli di servizio, custodia dei bambini, orari di lavoro flessibili, ecc.).
Su questi aspetti finalmente possiamo contare sulla Direttiva 2023/970 del 10 maggio 2023 volta a rafforzare l’applicazione del principio della parità di retribuzione tra uomini e donne per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore attraverso la trasparenza delle retribuzioni e relativi meccanismi di applicazione.
Molti sono gli aspetti positivi, soprattutto per le modifiche apportate fino all’ultimo dal Parlamento europeo, ma rimangono alcune perplessità: se da un lato è indubitabile lo sforzo innovativo profuso, dall’altro si può osservare un eccesso di dettaglio, inusuale nelle direttive sulla parità e, soprattutto, una visione che rimane ‘datore di lavoro-centrica’.
La direttiva punta soprattutto sulla ‘trasparenza’ delle informazioni fornite dai datori di lavoro.
La trasparenza dovrebbe essere però soprattutto la condizione preliminare per ottenere la giustizia retributiva tra i generi. Potremmo definirlo un azzardo ragionato: se la trasparenza è potere (come ha dichiarato la Commissione europea) e il potere deriva dalla conoscenza dei dati, la conoscenza consente di arrivare alla rimozione degli ostacoli. La trasparenza, in altri termini, porta alla conoscenza della situazione nei luoghi di lavoro. Il rischio è che non avvenga il passaggio successivo, quello che porta alla rimozione delle cause e degli effetti.
La direttiva è ampia e articolata. Mi limito qui a segnalare come uno dei principali temi di fondo affrontato nel testo riguardi gli strumenti e le metodologie volte a determinare il pari valore del lavoro (art. 4). Come era da attendersi viene dedicata particolare attenzione ai sistemi di valutazione e qualificazione professionale. “Tali strumenti o metodologie consentono ai datori di lavoro e/o alle parti sociali di utilizzare facilmente sistemi di valutazione e classificazione professionale neutri sotto il profilo del genere che escludano qualsiasi discriminazione retributiva fondata sul sesso” (comma 2). Al di là della tautologia sulla valutazione del valore, quello che a mio avviso va indagato è il vincolo della neutralità dei sistemi e dei criteri.
Iniziamo col rilevare che, di tutti gli aggettivi utilizzabili, si è scelto quello meno adatto in quanto troppo evocativo della base su cui sono rilevate le discriminazioni indirette: non è la neutralità, ma sono le ricadute differenziate a contare. La questione è cruciale e tocca il cuore del sistema antidiscriminatorio che punta alla parità, ma chiede che vengano valorizzate le differenze rivendicate.
La ‘neutralità sotto il profilo del genere’ – traduzione insoddisfacente di gender-neutral – compare in numerose disposizioni della direttiva. Possiamo arrivare a dire che è la neutralità ad essere utilizzata prevalentemente nel testo.
Nel diritto antidiscriminatorio i criteri neutri non fungono di per sé da protezione. Anzi. Nella nozione di discriminazione indiretta la neutralità viene considerata nel suo potenziale nascosto, produttivo di ricadute maggiormente svantaggiose per un genere rispetto all’altro. In altri termini, i criteri neutri spesso lo sono solo “apparentemente”, mascherando l’esistenza (oggettiva) di discriminazioni.
Ora è evidente che la neutralità richiesta dalla direttiva non può che essere autentica. Inoltre la neutralità ‘malata’ è difficile da distinguere rispetto a quella ‘sana’. E ancora: la protezione dalle discriminazioni non esclude la salvaguardia delle differenze rivendicate, né un trattamento differenziato (le azioni positive) finalizzato a riequilibrare situazioni sbilanciate, frutto talora di storici e tuttora attuali pregiudizi o stereotipi.
Ed è qui che viene in gioco la necessità di chiarire in cosa consista la neutralità di genere, più conosciuta nel nostro Paese in collegamento al linguaggio, e se non esiga un diverso inquadramento.
Un criterio neutrale evoca imparzialità, astenersi dal parteggiare per l’uno o per l’altro. Si traduce in un ‘né né’, mentre dovrebbe portare a un ‘sia sia’: non operazione di sottrazione, ma di inclusione (in una logica assimilabile a ‘win win”). Non neutro/neutrale, ma appropriato o equo (fair). Se poi aggiungiamo che neutro, nel campo del nostro linguaggio, evoca il ricorso al genere maschile inteso come neutro, ci rendiamo conto che ci inerpichiamo su una china che porta alla richiesta sempre più pressante di un linguaggio ‘imparziale’ e della ben diversa necessità di riferirsi esplicitamente sia alle donne sia agli uomini, anche a scapito di un appesantimento – non a una semplificazione – del testo.
La revisione delle direttive sulla maternità
La revisione è stata portata a compimento solo nel campo del lavoro autonomo. La proposta della Commissione è del 2008 ed era rivolta all’abrogazione della direttiva precedente, risalente al 1986, dato che i risultati da questa prodotti non sono stati considerati soddisfacenti, ma anzi in contrasto con il tentativo di rilanciare l’imprenditorialità, soprattutto nella dimensione medio-piccola.
La direttiva del 1986 riguardava due categorie di persone: i lavoratori autonomi e i coniugi coadiuvanti. Questi secondi, come è noto, sono uno dei punti principali della normativa in materia, con particolare riferimento alle attività nel settore agricolo. Nelle valutazioni effettuate, già nel 1994, la Commissione aveva adottato una relazione in cui si osservava che l’attuazione della direttiva negli Stati membri si era limitata al «punto di vista giuridico», con forti mancanze proprio nel campo dei coniugi coadiuvanti.
Le principali innovazioni proposte dalla Commissione riguardavano, da un lato, l’aggiornamento – con l’inserimento, ad esempio, del consueto pacchetto di definizioni su discriminazione diretta, indiretta, molestie e molestie sessuali, nonché del riferimento alle azioni positive – e il coordinamento con le altre disposizioni in materia nel frattempo emanate – come, ad esempio, la direttiva 2004/113/CE sulla parità di trattamento tra uomini e donne per quanto riguarda l’accesso a beni e servizi e la loro fornitura –, e, dall’altro lato, estensioni del campo di applicazione – con l’affiancamento, ad esempio, dei «conviventi» ai «coniugi» coadiuvanti, al fine di includere tutte le persone che partecipino alle attività dell’impresa familiare indipendentemente dallo stato coniugale – e della protezione – con la possibilità, a richiesta, di beneficiare di servizi di sostituzione e del periodo di congedo di maternità previsto per le lavoratrici subordinate, coperto da una indennità di ammontare quanto meno equivalente a quella spettante in caso di congedo per malattia.
È questo l’impianto adottato dalla nuova direttiva n. 41 del 7 luglio 2010. L’ambito di applicazione è pertanto rivolto ai lavoratori autonomi e ai loro coniugi o conviventi; il modello è quello delle direttive antidiscriminatorie, a partire dalle definizioni per arrivare alla tutela dei diritti.
Se la revisione della disciplina nel campo del lavoro autonomo si è rivelata relativamente agevole, ben diverso è stato il cammino per quanto riguarda il lavoro subordinato, anche per l’esigenza di superare il campo limitato alla salute e sicurezza della madre per ampliarsi alla filiazione giuridica e al congedo di paternità.
Già nel 2009 si sarebbe dovuto completare l’iter di revisione della direttiva su salute e sicurezza delle lavoratrici gestanti, puerpere e in periodo di allattamento. Il testo si sarebbe dovuto approvare nell’ultima sessione di votazioni della legislatura ed, invece, è stato inaspettatamente respinto. Con la successiva legislatura, il percorso è ripartito e il 20 ottobre 2010 il testo è stato varato dal Parlamento europeo, ma ha poi incontrato il blocco da parte del Consiglio.
Merita comunque ricordare i punti più significativi del testo del Parlamento europeo che riguardano: l’estensione del congedo di maternità da 14 a 20 settimane, l’ammontare pieno della relativa indennità, l’introduzione del congedo di paternità, l’estensione alle adozioni, la protezione contro il recesso dal rapporto di lavoro, il diritto al rientro a un posto di lavoro equivalente, il non obbligo a prestare lavoro notturno, la revisione delle linee guida in materia di salute e sicurezza.
Ciascuna di queste indicazioni avrebbe presentato rilievo anche per il nostro ordinamento, non tanto per il congedo di maternità, quanto per quello di paternità della durata minima di due settimane. Per quanto riguarda la salute e sicurezza della madre, sarebbero arrivate nuove Linee guida; un rafforzamento delle procedure di valutazione e informazione, affiancate da una vera e propria consultazione; nuove disposizioni per la promozione dell’allattamento al seno e il contrasto della depressione post partum.
Con la mancata approvazione della nuova disciplina si è interrotto quel circuito fecondo che fa sì che si arrivi a una direttiva che accoglie e incorpora molte delle innovazioni già presenti nelle legislazioni nazionali, raggiungendo un nuovo equilibrio e provvedendo a sua volta a estenderlo in tutti i Paesi, con una progressiva operazione di armonizzazione della protezione delle lavoratrici e dei lavoratori, almeno di quelli subordinati con rapporto di lavoro stabile.
Non tutto è andato perduto. Numerosi istituti sono stati inseriti nella revisione delle direttive sui congedi parentali, come vedremo nel paragrafo che segue.
Le nuove direttive sui congedi parentali (e non solo)
Gli interventi più significativi si sono registrati nel campo dei congedi parentali, con una prima modifica dovuta all’attività delle parti sociali europee, che hanno raggiunto un secondo Accordo quadro il 18 giugno 2009, subito dopo recepito nella direttiva 2010/18/UE dell’8 marzo 2010, che abroga – e non solo modifica – la precedente direttiva 96/34/CE, a sua volta di recepimento dell’accordo quadro europeo del 14 dicembre 1995.
Un ulteriore passo in avanti si è realizzato con la terza direttiva: la n. 2019/1158, relativa all’equilibrio tra attività professionale e vita familiare per i genitori e i prestatori di assistenza e che abroga la direttiva 2010/18/UE del Consiglio, quale attuazione di una delle indicazioni del Pilastro europeo sui diritti sociali.
La nuova direttiva contiene ulteriori prescrizioni minime finalizzate all’obiettivo «di migliorare la conciliazione tra vita professionale, vita privata e vita familiare dei genitori che lavorano e la parità tra uomini e donne per quanto riguarda le opportunità sul mercato del lavoro ed il trattamento sul lavoro nell’Unione». Come è precisato nell’accordo quadro, occorre un approccio sistematico, che non può limitarsi all’istituto dei congedi e, quindi, delle assenze legittime dal lavoro.
«Per continuare a compiere progressi nell’ambito della conciliazione occorre mettere in atto una formula politica equilibrata, integrata e coerente, nella quale rientrino disposizioni sul congedo, disposizioni sulle modalità di lavoro e strutture di custodia». Così come si dovrebbe arrivare alla ripartizione delle responsabilità familiari e aumentarne la condivisione tra genitori, mediante misure più efficaci di quelle messe in atto finora, tra cui l’incremento dell’ammontare dell’indennità.
Quanto ai contenuti, siamo in presenza di un pacchetto di interventi che: ribadisce la scelta di estendere i diritti al “secondo genitore equivalente”, affianca al congedo parentale quello di paternità di dieci giorni, riconosce il diritto a un periodo (breve) di assenza destinato ai caregivers.
Quanto al congedo parentale resta l’impianto precedente, ma con un aumento da uno a due mesi per la non trasferibilità tra un genitore e l’altro e la spinta a normativa di dettaglio molto più articolato del precedente.
Non c’è dubbio che siamo in presenza di un ulteriore rafforzamento della ‘non trasferibilità’, con l’obiettivo esplicito di spingere il padre a fruire di almeno due mesi. La tecnica utilizzata è però blanda, dato che non unisce, come avviene invece in alcuni Stati membri, promozione a penalizzazione, mediante, ad esempio, la scelta di collegare la parte del congedo a fruizione del padre lavoratore a quella della madre lavoratrice. In altri termini, con la disposizione in commento, ciascuno dei due genitori può fruire, almeno, di quattro mesi di congedo, due dei quali trasferibili dall’uno all’altro, due solo intrasferibili e quindi o goduto (dal padre lavoratore, perché di questo si tratta) o perso.
Come abbiamo visto, siamo in presenza di numerosi aspetti di rilievo. Il primo è di metodo e riguarda il definitivo superamento della via dei preliminari ‘Accordi quadro’ tra le parti sociali europee, che porta a una completa riscrittura del testo e al suo assestamento come direttiva ‘pura’. Il secondo è terminologico e consiste nell’affiancamento al ‘padre’ del riferimento al “secondo genitore equivalente”. Il terzo attiene all’inserimento del congedo di paternità di dieci giorni, trasmigrato qui dalla sua prima sede, in affiancamento al congedo di maternità. Il quarto consiste nell’aver inserito una disposizione sul congedo per i prestatori di assistenza.
Il congedo per i prestatori di assistenza compare per la prima volta in un testo di fonte europea ed è destinato a chi fornisce assistenza a un componente il nucleo famigliare in condizioni gravi di salute. La sua durata è di cinque giorni l’anno. Anche in questo caso la copertura economica è rinviata alle scelte dello Stato membro, sia pure con la raccomandazione di renderla idonea a facilitare la fruizione del congedo.
Rimane, inoltre, la possibilità di assenza dal lavoro per cause di forza maggiore e si irrobustisce il richiamo a rendere il più possibile flessibile il lavoro così come il congedo.
Se la direttiva del 2010 non aveva lasciato traccia nel nostro ordinamento, è probabile che quest’ultima richieda di valutare più attentamente la congruità della nostra disciplina. Resta, ad esempio, da comprendere come si coordinerà il congedo per prestatori di assistenza sia nei confronti della legge n. 104 del 1992 sui permessi per famigliari di disabili gravi, sia nei confronti della comparsa formale nel nostro ordinamento del riferimento ai caregivers, senza definizione di contenuto.
Altri aspetti della direttiva riguardano la previsione di termini di preavviso, la considerazione specifica dei casi in cui i figli siano disabili o ammalati gravi, la possibile introduzione di ulteriori misure in caso di adozione, il rafforzamento della parte relativa ai divieti di non discriminazione e alla protezione dei genitori lavoratori al rientro al lavoro. Si tratta di temi riconosciuti e disciplinati nel nostro ordinamento. La direttiva potrebbe avere un effetto di rafforzamento nella parte in cui si indicano percorsi di attenzione nella fase della ripresa dell’attività professionale, con la possibilità di richiedere modifiche dell’orario lavorativo e/o dell’organizzazione della vita professionale per un periodo determinato, da combinare con l’invito a rimanere in contatto con la struttura di lavoro anche durante il congedo. Già la precedente direttiva, del resto, aveva contribuito a riportare l’attenzione sulla possibilità di fruire del congedo parentale in modo parziale, il che ha significato, per il nostro ordinamento, riconoscere la possibilità che il congedo possa essere fruito avendo come unità minima non più solo il giorno ma anche l’ora.
Un ultimo cenno va dedicato all’indicazione che si debba tener conto della crescente diversità delle strutture familiari. Si tratta di un’apertura alle differenze sempre più ampie nella nozione di famiglia, frutto evidente dell’opera di consultazione delle parti sociali condotta dalla Commissione europea. Tutto il contrario di quanto sta avvenendo in Italia dove proprio l’innovazione rappresentata dall’utilizzo del termine ‘secondo genitore’ è tuttora oggetto di dibattito aspro.
La conciliazione tra vita professionale, familiare e privata
Più in generale non va dimenticata una significativa presa di posizione provienente dalla Risoluzione del Parlamento europeo del 13 settembre 2016 sulla creazione di condizioni del mercato del lavoro favorevoli all’equilibrio tra vita privata e vita professionale (2016/0338). In questo documento, purtroppo non cogente, la conciliazione è qualificata come diritto e le condizioni da creare riguardano la equa ripartizione del lavoro di cura fra donne e uomini. Si scrive finalmente in una Risoluzione europea che le politiche di conciliazione, per essere efficaci, devono far interagire fattori diversi, al fine di tener conto delle esigenze dei nuclei famigliari lungo tutto il percorso della cura tra generazioni: dai figli, ai famigliari malati, ai genitori anziani.
Determinante diventa volgere l’attenzione ai tempi: tempo di lavoro e tempo di vita, al fine di superare la dicotomia più tradizionale, quella tra tempo di lavoro e tempo di non lavoro, dato che questa seconda formula copre in larga parte – e soprattutto per le donne – il tempo dedicato al lavoro di cura e al lavoro domestico. Sottostante resta una dinamica sociale fortissima, che non può trascurare di confrontarsi con una società che conta molto sul lavoro non pagato e non retribuito, nonché sul lavoro volontario, e che conosce anche i pericoli del suo riconoscimento, soprattutto laddove questo possa finire per risospingere le donne all’interno delle mura domestiche.
E’ anche da non dimenticare quanto potente è stata l’immagine della lavoratrice che lavora da casa e, quindi, da remoto durate i periodi della Pandemia, con limitazioni più o meno radicali.
E non è un caso sostenere che il tema della conciliazione vada sempre inquadrato all’interno dell’ampia prospettiva legata al tempo. Solo l’approccio trasversale e globale, infatti, consente di affrontare l’aspetto della riduzione dell’orario di lavoro – ad esempio, mediante il part time – così come quello del suo prolungamento – ad esempio, mediante il lavoro straordinario –; in altri termini, di affrontare il tema della flessibilità organizzativa richiesta dal datore di lavoro assieme a quella richiesta dalle lavoratrici e dai lavoratori.
Questo significa anche che la flessibilità richiesta dalle lavoratrici e dai lavoratori è indispensabile, date le differenze interne al ‘lavoro di cura’, che dovrebbe essere sostituito da ‘lavori di cura’: alcune esigenze richiedono rigidità, altre elasticità di orari. Diverso è aver bisogno del tempo per l’uscita dalla scuola di figli rispetto al tempo per l’assistenza di una persona malata.
E questo riguarda anche il lavoro a tempo parziale. Le statistiche da lungo tempo mettono in evidenza: che in ogni Stato membro dell’Unione sono le donne ad essere maggiormente occupate a tempo parziale e che le lavoratrici riducono il tempo quando hanno vincoli familiari, mentre i lavoratori, nella stessa condizione, lo aumentano, se non altro per incrementare il reddito; che i lavoratori lavorano meno quando sono single, tutto il contrario delle lavoratrici, che lavorano di più proprio quando lo sono; che all’aumentare del numero di figli, gli uomini lavorano di più nel mercato del lavoro, mentre le donne rischiano di uscirne. Sono queste differenze a segnare icasticamente la condizione delle donne e degli uomini nei confronti del lavoro. E sono le stesse che rischiano di incrementarsi sulla base degli stereotipi che producono e alimentano.
La Fondazione di Dublino, nelle sue indagini sulle condizioni di lavoro, ci continua a ricordare un paradosso solo apparente: i lavoratori a tempo parziale dedicano ancora meno tempo al lavoro di cura e casalingo di quanto non facciano i lavoratori a tempo pieno; ancora una volta il contrario di quanto avviene per le lavoratrici. Quindi, considerando sia le ore di lavoro retribuite, sia quelle non retribuite, emerge con evidenza che le donne occupate a tempo parziale lavorano più ore rispetto agli uomini occupati a tempo pieno. Se le donne in genere scelgono il part time per dedicare più tempo alla famiglia e al lavoro di cura, gli uomini che optano per questa tipologia lavorativa dedicano persino meno tempo al lavoro non retribuito di quanto non facciano gli uomini occupati a tempo pieno. Si può anche dire così: il tempo dedicato al lavoro di cura e alla famiglia è invariato tra i lavoratori, siano essi a tempo pieno o a tempo parziale, a riprova che la loro scelta di riduzione oraria non è quasi mai motivata, come invece avviene per le donne, da necessità di cura domestiche.
Se osserviamo questi dati, non possiamo esimerci dal rilevare come il tempo per le donne sia, molto spesso, troppo spesso, strangolato dal doppio o triplo ruolo. E sparisce il tempo per sé. Eppure le istituzioni europee parlano, come abbiamo ricordato sopra, non di due, ma di tre dimensioni della conciliazione: tra vita professionale, vita familiare e vita personale.
Sono inoltre convinta, rimanendo nell’ambito delle questioni terminologiche – che hanno però un importante peso sul cambiamento sociale –, che dovremmo superare l’idea della conciliazione e parlare con maggiore determinazione di condivisione e di redistribuzione dei ruoli. Non sarà facile. Non basta cambiare termine. Occorre costruire politiche forti, che sappiano mettere al centro una diversa attenzione ai tempi e alle esigenze delle persone, nella consapevolezza che questo arriva a toccare anche il difficile bilanciamento tra collettivo e individuale. Perché se pensiamo alla flessibilità favorevole alle persone ci troviamo di fronte alla moltiplicazione delle esigenze, quasi mai riconducibili a un solo paradigma.
Nelle elaborazioni della Fondazione di Dublino spicca anche una analisi volta a individuare i datori di lavoro più sensibili alla flessibilità positiva degli orari, per incrociare redistribuzione dei ruoli e conciliazione. Partendo dal fondo, in posizione negativa, troviamo l’Ungheria, l’Italia, il Portogallo e la Spagna; ai primi posti troviamo Finlandia, Svezia, Danimarca e Repubblica Ceca. Vorrei segnalare l’esempio della Finlandia, che spicca per questa performance e nel contempo ha un tasso relativamente basso di part time. Il punto di forza di questo Paese consiste nell’essere nettamente worked oriented, orientato cioè in favore delle persone che lavorano, con interventi nel campo dell’organizzazione del lavoro finalizzati alla valorizzazione delle risorse umane, mediante una ricerca di strumenti duttili destinati alla flessibilità favorevole.
Può essere banale ricordarlo, ma le persone non sono il lavoro che fanno. E occorre garantire la possibilità di cambiare. Ciascuno e ciascuna di noi modifica le proprie scelte nel corso della vita. Mentre il rischio è di rimanere dentro a una forbice: crescente diffusione di lavori precari, soprattutto nei primi anni dell’esperienza lavorativa professionale, combinata con grande rigidità e scarsa mobilità sociale.
La precarietà sta tutta dentro alla moltiplicazione delle tipologie contrattuali e alla liberalizzazione dei licenziamenti. La rigidità sta dentro alla difficile mobilità, che colpisce soprattutto le donne. Le discriminazioni legate alla maternità sono costanti. Le discriminazioni legate al lavoro a tempo parziale altrettanto presenti. Le scelte, una volta esercitate, sembrano scritte sulla pietra. Se una persona che lavora (quasi sempre una lavoratrice) chiede di trasformare il rapporto in lavoro a tempo parziale per occuparsi della cura di figli e di famigliari, il rientro al tempo pieno e la progressione di carriera sono spesso compromessi. Se poi esce dal mercato del lavoro professionale per un periodo da dedicare alla cura, difficilmente riesce a rientrarvi. I lavori che richiedono tempo non sono (resi) compatibili con gli impegni familiari. È una barriera per le donne nel lavoro per il mercato e una barriera per gli uomini che vorrebbero occuparsi di cura.
Si incrocia così il tema dello sviluppo di una rete efficiente e di qualità di servizi. In Europa cresce la consapevolezza dell’importanza, in termini quantitativi e qualitativi, dei servizi. La discussione è aperta a tutto campo. Si può osservare come si sia finora concentrata in riferimento ad alcuni punti di snodo, che vanno dalla necessità (o meno) di avere un quadro regolamentare di riferimento per i servizi di interesse generale alla valorizzazione delle specificità dei servizi sanitari e dei servizi sociali di interesse generale, alla liberalizzazione dei servizi e alle sue condizioni.
Il dato condiviso è che l’Europa sta diventando sempre di più un’economia di servizi. Dalla prospettiva oggetto di queste note, si tratta di una crescita che presenta numerosi aspetti significativi e che, se ben governata, consente di raggiungere un duplice obiettivo per le donne: perché sviluppando i servizi si incrementano le occasioni nelle occupazioni a prevalenza femminile e perché si diffondono quelle strutture che consentono alle donne che lavorano di rimanere nel mercato del lavoro.
Quando si parla di servizi, si deve fare riferimento alla nozione più ampia possibile, intendendo per tali quelli pubblici e quelli privati e le loro formule miste, spingendosi fino a quelli che possiamo definire come servizi individualizzati, che assumono le forme del lavoro assistenziale e/o domestico. È ampiamente risaputo che il lavoro domestico si colloca ai confini marginali della regolamentazione del lavoro, con un sistema di protezioni estremamente debole in tutti i Paesi membri dell’Unione e che solo la contrattazione collettiva riesce a incrementare.
In molti Paesi dell’Unione sta inoltre modificandosi il bacino di riferimento delle persone occupate nel lavoro domestico e di cura, affidato ampiamente a straniere, molte delle quali clandestine. Si concentra in questo segmento di occupazione larga parte di clandestinità, determinata sia dai vincoli sulla programmazione dei flussi, sia dalla debolezza economica di entrambe le parti del rapporto di lavoro. Non si può dimenticare che spesso le risorse del nucleo familiare sono scarse e difficilmente in grado di reggere una occupazione regolare.
La direttiva sull’accesso delle donne nella Governance nelle società quotate in Borsa e le azioni positive
A novembre del 2022 è stata approvata la direttiva (UE) 2022/2381 sul miglioramento dell’equilibrio di genere fra gli amministratori delle società quotate, dopo anni di paralisi dell’iter legislativo. La proposta era, infatti, stata presentata giusto dieci anni prima (nel 2012).
La direttiva “mira a raggiungere una rappresentanza più equilibrata di donne e uomini fra gli amministratori delle società quotate”, fissando obiettivi quantitativi per i componenti del sesso sottorappresentato nei consigli di amministrazione: il 40% per gli amministratori senza incarichi esecutivi oppure il 33% per tutti i componenti del consiglio, con e senza incarichi esecutivi.
Gli Stati dell’Unione europea che, come l’Italia con la legge Golfo-Mosca del 12 luglio 2011 n. 120, hanno già adottato misure – forse ora da aggiornare – ai fini di una più equilibrata rappresentanza uomo-donna nei Board delle società quotate, potranno sospendere l’applicazione dei requisiti procedurali imposti dalla direttiva purché dimostrino che le misure nazionali siano di efficacia equivalente.
Pertanto l’adozione della direttiva dovrebbe spingere i legislatori nazionali a introdurre misure strutturali incisive, proprio sull’esempio del nostro Paese, con l’obiettivo di rompere il c.d. ‘soffitto di cristallo’ che tuttora preclude o rallenta per le donne l’accesso alle posizioni lavorative più elevate e meglio retribuite.
Si tratta, con una denominazione forse troppo abusata e riduttiva, di una normativa che introduce lo strumento delle ‘quote rosa’. E proprio in quanto tali sono regole transitorie, tanto più limitate nella durata di applicazione quanto più forte è la loro efficacia.
A questo servono le azioni positive: interventi che smantellano pregiudizi e contrastano discriminazioni, che giungono a termine quando raggiungono l’obiettivo della parità sostanziale.
Colpisce il crescente silenzio dedicato a questi strumenti che, aggiungiamo, non sono mai stati pienamente sostenuti dalle istituzioni dell’Unione europea, che dal 2000 in poi, li ha consentiti, ma mai promossi e sostenuti. Si spiegano anche così le difficoltà a far approvare una misura come quella dell’ingresso riservato delle donne nei Boards.
Uscendo dal recinto europeo non si può trascurare che, a giugno 2023, le ‘quote etniche’ riservate per l’accesso nelle Università statunitensi sono state dichiarate incostituzionali, basandosi sul (presunto) superamento delle disuguaglianze. Perché ricordare qui una decisione della Corte suprema? Innanzitutto perché le Affirmative actions statunitensi sono state il modello importato e diffuso in Europa. E perché la diffusione nei testi provenienti dalle istituzioni UE è stata decisamente minore dei singoli Stati membri. E, soprattutto, per quel richiamo alla transitorietà, di cui abbiamo parlato qui sopra.
Le prospettive
Il percorso fin qui raccontato sembra essere contraddistinto dall’azione congiunta di riforme legislative e di politiche di attuazione, con le istituzioni europee, e in particolare il Parlamento europeo, quali fondamentali punti di riferimento. I testi e i documenti non si fermano alla regolamentazione per direttiva, non dettano solo normative di protezione, ma aggiungono la consultazione e si dotano di strumenti, strategie e osservatori.
Questo è l’approccio di cui abbiamo bisogno soprattutto nel nostro Paese, a tutti i livelli, anche locali; un approccio che da un lato tocchi la normativa, non solo per revisionarla e attualizzarla, ma anche per farla conoscere, e dall’altro individui obiettivi, azioni e strumenti concreti di cambiamento. Ad esempio, le politiche occupazionali devono passare a riconoscere formule per conciliare lavoro e impegni famigliari, formule decisive non solo per consentire scelte personali, ma anche per occuparsi di servizi, di orari così come delle persistenti disuguaglianze tra donne e uomini.
Il primo dato problematico di contesto da tenere sempre presente è la ricorrenza delle discriminazioni legate alla maternità, così come alla paternità e alla cura. Il secondo è che, per ottenere progetti e risultati, è necessario riequilibrare la presenza nei luoghi in cui si prendono le decisioni: nelle amministrazioni locali, in Parlamento, al Governo, così come negli organi direttivi e nei consigli di amministrazione, nelle associazioni, a partire dal sindacato. Non si tratta solo di introdurre «quote rosa», termine banale e a sua volta frutto di stereotipi, ma di pensare alla rappresentanza paritaria, in cui ci sia confronto di idee, vitale per ogni evoluzione e innovazione della società.
Forse non basta nemmeno più parlare di empowerment e di mainstreaming, le due nozioni chiave di Pechino 1995. Molti, troppi anni sono passati e questi temi restano tuttora oggetto della riflessione (e delle richieste) di un ristretto numero di persone, quasi sempre donne, nel loro ruolo di esperte o operatrici o rappresentanti. Quanti anni dovranno ancora passare prima che si comprenda che ci stiamo occupando di temi generali, che riguardano le persone nella loro dimensione reale e che consentono un approccio equilibrato tra riconoscimento dei diritti fondamentali e politiche attente alle esigenze del mondo plurale in cui viviamo?
Ad aumentare le difficoltà è intervenuto un susseguirsi di crisi, che hanno pesato oltre misura sul lavoro delle donne, le più esposte nel mercato del lavoro: sono le prime ad uscire nelle riduzioni di personale, sono le prime nel lavoro precario e sono, invece, spesso, ultime nelle retribuzioni.
Mi limito a ricordare un fenomeno che presenta un avvitamento in una circolarità imbarazzante, ma di cui ci si occupa troppo poco. Dopo aver proceduto alla creazione della figura delle badanti – con la ormai risalente legge Bossi-Fini di riforma del Testo Unico immigrazione, creazione peraltro avvenuta solo mediante sanatoria – si è scaricato sulle famiglie il peso, davvero individuale e privato, dell’assistenza (di bambini, malati, anziani, famigliari non autosufficienti) salvo chiudere il rubinetto dei flussi migratori e invitare le donne «italiane» a (ritornare a) fare da sé il lavoro di cura. Il parallelo con le esperienze che ci vengono dalla storia è davvero ingombrante e la limitata reazione è relegata, come di consueto, alla non-notizia.
Del resto, se le crisi non sono state accompagnate da forme di radicalità estrema di protesta, lo dobbiamo forse non solo all’effetto di contenimento prodotto dalle prestazioni di sostegno economico, ma anche al prolungamento della protezione da parte della rete famigliare. Di famiglia come ammortizzatore sociale si è iniziato a parlare qualche tempo fa. Tuttora sta svolgendo questa funzione, destinata a ridursi, se non a scomparire, con l’esaurirsi della classe di adulti con una storia abbastanza lunga di lavoro subordinato – e, quindi, con i conseguenti contributi previdenziali – e di pensionati.
In altri termini, si registra tuttora uno scollamento tra normativa e situazione reale, che dimostra che manca tuttora quel cambiamento culturale necessario per colmare i divari di genere.
A livello europeo si sta ormai ammettendo che il progresso verso la parità sta registrando una battuta di arresto e che occorre riportare la parità di genere nella lista di priorità dell’Unione con provvedimenti efficaci, che vadano oltre le (vuote) dichiarazioni di intenti.
Donata Gottardi