In questa piccola preziosa antologia, curata da Fiorenza Taricone, gli scritti della Kuliscioff sono divisi in tre sezioni: il contesto, donne e politica, voto alle donne.
Fiorenza Taricone, ordinaria di “Pensiero politico e questione femminile” presso l'Università di Cassino e Lazio Meridionale, firma la prefazione a questo libro chiedendo perché oggi un volume antologico degli scritti di Anna Kuliscioff. Tanti in realtà i motivi. Non fra gli ultimi c’è la necessità di accendere il faro della memoria sulle antesignane di una battaglia per la liberazione della donna, battaglia più che secolare, che non ha perso un ètte della sua intrinseca ragione, così ben spiegata nel sottotitolo del volume riguardante il monopolio dell’uomo, che dura da millenni.
Taricone ci presenta la bellissima Anna mentre, era l’agosto 1893, viene presentata come signora Turati. Ella con un ‘esuberante’ movimento, si volta verso l’incauto provinciale e dice “Non sono la signora di nessuno. Sono Anna Kuliscioff”. A Filippo Turati, capo dei socialisti italiani, si era legata nel 1885. La Kuliscioff è una figura di grande rilievo, la cui la popolarizzazione e la cui attualità, non è stata sufficientemente curata.
Nata in Crimea, probabilmente intorno al 1854, da una ricca famiglia ebrea, con un lungo cognome che lei abbandonerà, la Kuliscioff si iscrive alla facoltà di filosofia del politecnico di Zurigo, dove entra in contatto con studenti ed esuli di ispirazione libertaria e anarchica. A seguito di un editto dello zar Alessandro II nel quale si ingiungeva agli studenti esuli di rientrare subito in patria e lasciare l’Università, Anna brucia il suo libretto universitario. Rientrata, tuttavia, in Russia, inizia la sua frequentazione con il movimento Andata al popolo e sperimenta – scrive Taricone - “per la prima volta, la prassi basata sul binomio pensiero e azione”.
Lascia la Russia nel 1877, coinvolta nel delitto al vetriolo, ovvero il mezzo col quale era stato sfigurato e ucciso un affiliato al movimento per aver tradito i suoi compagni. Nella sua attività politica, nella Russia contadina, ella ha conosciuto la parte più reietta delle masse povere ovvero le donne e sono le loro malattie a spingerla verso gli studi di medicina. La sua è una scelta tutta al femminile. Tornata in Svizzera assume il cognome Kuliscioff.
Qui conosce il giovane rivoluzionario romagnolo Andrea Costa, con il quale inizia una convivenza di amore, idee e sentimenti, e si trasferisce con lui a Parigi. Nel 1878 i due si recano in Italia, ma dopo pochi mesi Anna viene arrestata e processata a Firenze con l'accusa di cospirazione anarchica. Andrea Costa e Anna si trasferiscono allora nuovamente in Svizzera, paese che lasceranno nel 1880 per rientrare clandestinamente in Italia, a Milano, dove però ancora una volta vengono arrestati. Quindi ennesima permanenza in Svizzera, a Lugano, e poi nuovo rientro in Italia, a Imola, dove nel 1881 Anna dà alla luce Andreina, figlia sua e di Andrea Costa.
Tuttavia poco tempo dopo la relazione tra i due terminò con gran dolore di Anna. Il volume curato da Fiorenza contiene in appendice alcune sue lettere ad Andrea Costa. Lettere che sono un grido di dolore per la verifica del distacco quotidiano, intellettuale, sentimentale e fisico tra i due. Lettere che attestano la crescita diseguale di un uomo e di una donna e una richiesta disperata di una vita più ricca di dialogo.
Anna rientra in Svizzera, a Berna, insieme alla figlia Andreina e si iscrive alla facoltà di medicina. Disciplina nella quale si laurea a Napoli nel 1886. Stabilisce una collaborazione, a Pavia, con il Nobel per la medicina, Camillo Golgi, e svolge una sua ricerca sull’origine batterica della febbre puerperale. Si specializza, quindi in ginecologia prima a Torino, poi a Padova. Quello che le premeva era salvare milioni di donne, destinate a morire. Trasferitasi a Milano, inizia a esercitare l’attività di medico, anche nei quartieri più miseri della città. I milanesi la chiamavano la "dottora dei poveri".
Tutta questa attività scientifica e di studio non le impedì di essere una giornalista e una politica attenta alla vita delle donne.
In questa piccola preziosa antologia, gli scritti della Kuliscioff sono divisi in tre sezioni: il contesto, donne e politica, voto alle donne
Nel ‘contesto’ Kuliscioff, con un corposo scritto, presenta innanzitutto il proprio punto di vista, in base al quale è inevitabile per il socialismo non isolare la questione donne. Specialmente in un secolo , anche se agli albori, in cui si è “ accentuato un movimento serio e vasto fra gli ultimi e più numerosi dei paria, che formano mezza umanità, cioè fra le donne”. Ripercorre quindi le tappe fondamentali dello sviluppo umano ( ivi compreso il cristianesimo “che se da un lato con la madre del Salvatore volle consacrare la dignità della donna, dall’altro lato servì da consolidare vieppiù il concetto biblico della donna”, cioè della sua creazione dall’uomo per l’uomo ) nel corso del quale alla donna toccò in sorte di essere considerata dall’uomo come uno strumento di lavoro, produttivo e riproduttivo.
Mentre sarebbe stato nell’interesse dell’uomo , della specie umana, dare giusto valore alle donne poiché “se gli uomini fanno le leggi, sono invece le donne che fanno i costumi e sapete pure che quando vi è conflitto fra le leggi e costumi” vincono i costumi. Bisogna invece assistere al paradosso di leggi vigenti che “infliggono alle donne” l’umiliazione di essere considerate una razza inferiore, incapaci di diventare maggiorenni, signore di se stesse, con una propria intelligenza, capacità e forza morale. Kuliscioff mette in risalto un dato spesso in ombra, quando non occultato.
E cioè che nel Belpaese (dove le donne analfabete erano il 73,51%, e gli uomini analfabeti il 61,03%) ancora non industrializzato, nel 1880, lavoravano nelle industrie italiane, 382.131 unità, di cui il 27,10% era costituito da uomini e il 49,32% da donne, ossia – a parte i fanciulli – 103.562 uomini e 188.486 donne. Questa maggioranza di forza lavoro percepiva una paga inferiore a quella dei maschi: “nei cotonifici Cantoni – scrive Kuliscioff - i filatori ricevono 1,86 L. le filatrici una lira; i tessitori 2,35 L. le tessitrici 1,18. Nella filatura del lino e della canapa gli uomini ricevono 3,20 le donne 1,05. Questo rapporto si mantiene quasi costante in tutta l’industria”.
La giornata di lavoro per le donne era più lunga e un salario più meschino . Kuliscioff cita ad esempio la bergamasca, dove su “17.000 lavoranti nelle tessiture filature, 11.000 sono donne fanciulle e la giornata di lavoro in certi stabilimenti dura dalle quattro di mattina alle otto di sera, le lavoratrici sono pagate in media 0,43 al giorno, ma a patto, che non siano maritate. Le maritate si pagano solo 0,40 € perché il padrone vuole garantirsi del danno delle interruzioni che possono derivare dalla gravidanza, dal puerperio dalle malattie che talvolta trattengono dietro”. Siamo carne da macchine, conclude Kuliscioff, e dobbiamo diventare macchine noi stesse.
E in questa situazione le donne non sono coalizzate , non ricorrono allo sciopero; indotte ad essere convinte della propria minnorietà le donne sono ossequienti “ non presentano resistenza al capitale sfruttatore”. E questo perché il salario della donna è considerato complementare a quello dell’uomo, non ha valore in sé, risponde non a una legge economica ma ad un assieme di concetti e tradizioni: una legge del costume.
C’è un ulteriore paradosso, allora fortissimo, assai ben riassunto dalla Kuliscioff , uno di quei paradossi che consideriamo superati mentre ancora serpeggiano tra vaste aree di popolazione. Questo: “la donna maritata credendo di aver raggiunto col matrimonio lo scopo della sua vita, di essersi conquistata una posizione sociale, è l’essere più degno di commiserazione. Essa col suo nome perde la sua personalità; la sua vita rimane assorbita del tutto dal marito, dal suo associato nella lotta per l’esistenza.
Essa non è padrone dei suoi averi, come non è padrone dei propri figli,,, nella maggior parte dei casi il matrimonio comincia la via crucis della sua esistenza di lunghe e umilianti sofferenze…. Il marito vede nella moglie una persona che egli mantiene”. La donna finisce anche con l’essere “considerata dal marito come la persona più oziosa di questo mondo, e non le si riconosce il diritto di dividere, con eguale autorità, i mezzi di sussistenza da lui procurati fuori di casa”.
La modernità della Kuliscioff è tutta dispiegata in questa presentazione, che, senza dirlo, prefigura una revisione della legge sul diritto di famiglia. Non cita lo Statuto, non si limita a una analisi puntuale sulla famiglia regolata dal Codice Pisanelli ( che rimarrà in vigore, con qualche peggioramento fascista , fino al 1975) ma lo visita e lo guasta nel suo interno, spingendosi più in là, additando nel capitalismo i danni peggiori procurati alla donna, oltre che , si intende, agli uomini, agli operai i quali, inoltre, nell’impiego delle donne vedono una pericolosa concorrenzialità. Le rivendicazioni indicate dalla Kuliscioff vedranno una pallida applicazione solo cinquant’anni dopo. Ella chiede infatti “a lavoro eguale eguale salario; la libertà della donna di disporre della propria mercede; astensione dal lavoro industriale e agricolo negli ultimi due mesi di gravidanza nei due mesi successivi di puerperio”. Questo è il ritardo italiano, del paese, una delle poche nazioni d’Europa a non avere ancora alcuna legislazione di difesa del lavoro delle donne, e , dice Anna, purtroppo sarà la borghesia a rifilarcene una.
Dunque di per sé la donna appartiene al socialismo “Perché socialismo non è soltanto la soluzione economica dei dissidi che avvelenano la vita della società e quella, di rimbalzo, della famiglia dell’individuo. Il socialismo è anche una soluzione morale o compagne, o reiette, o dimenticate, o vittime eterne, levatevi! O schiave, siate cittadine! O femmine, sappiate essere donne!”.
Essere donne dunque è un’arte, non solo un dato biologico, un’arte che riassume tutta la sapienza che parte dal principio femminile, da Eva, da Minerva e si dispiega nei millenni, che muta mutando la propria narrazione e la propria azione.
La Kuliscioff guarda, però, con diffidenza al femminismo. Polemizza anche con Anna Maria Mozzoni. A suo parere, se per la donna borghese si tratta di allargare il campo del lavoro, per la donna proletaria, al contrario, si tratta di restringerlo o meglio di impedire almeno che essa venga impiegata nelle strutture insalubri, nelle miniere, nei lavori metallurgici. Se la donna borghese sente soprattutto il bisogno di emanciparsi dall’oppressione del maschio e di rendersi economicamente indipendente e in concorrenza con esso, la donna proletaria, più che l’oppressione maschile ha bisogno di scuotere il giogo del capitalismo, e da concorrente dell’uomo diventa sua compagna di lotta sul terreno della lotta di classe. In primo luogo, dunque, necessita, anche rispetto alla conquista del diritto di voto (Giolitti aveva pensato di far votare le donne nelle tornate amministrative, con la famosa legge del 1912 sulla quale Kuliscioff compie un’analisi impietosa) di una legislazione di protezione del lavoro femminile.
Sembra, questa, una conquista più a portata di mano poiché visto l’enorme esercito femminile impiegato nelle industrie, gli industriali avrebbero potuto più facilmente accordarsi, non potendo disfarsi della manodopera femminile , che costava anche di meno. Tuttavia, si può tollerare che l’esclusione dai diritti politici e, in parte, anche dai diritti civili, accomuni le donne ai minorenni agli interdetti agli idioti ai delinquenti? Escludere le donne dal voto significa che le donne non hanno aspirazioni sentimenti interessi loro propri materiali e morali da difendere sul terreno politico e amministrativo Avverte Kuliscioff: “Per la donna proletaria il suffragio politico non è né fine a se stesso, né strumento di difesa contro il maschio della sua classe, al quale è legata dalla solidarietà nello sfruttamento comune; è bensì un’arme per la propria emancipazione economica, la quale, come quella insieme a quella del proletariato maschile presuppone l’abolizione del capitalismo dello sfruttamento dell’uomo ad opera e a vantaggio dell’uomo”.
Nelle due sezioni, del volume, più politiche, si trova anche una sferzata di Kuliscioff al movimento dei lavoratori poiché pur dichiarando la parità delle condizioni intellettuali, morali ed economiche delle lavoratrici, non si vede presenza femminile nella Camere del lavoro e nelle sezioni socialiste. ”E’ forse da cercarne la causa – si chiede la Kuliscioff - della diversa anima del nostro partito che nell’ultimo decennio sembra avere smarrito all’originaria forza di espansione ed essersi troppo straniato alla vita della massa proletaria…” Perché, dunque - si chiede- il partito socialista non rivendica i diritti politici delle donne con più forza come una rivendicazione di classe?
La lettura di queste pagine è illuminante sui termini del dibattito attuale che ne conserva molti tratti. Dal volume viene emerge il ritratto di una donna all’avanguardia sul piano privato e pubblico di cui si è forse parlato non abbastanza, che non è stato popolarizzato abbastanza. Una lettura assai utile per una riflessione su possibili futuri percorsi femminili.
Graziella Falconi
Fiorenza Taricone
Anna Kuliscioff. Non sono la signora di nessuno. Sul monopolio dell’uomo e la liberazione della donna“ (Fuori Scena 2024 pp. 208)