Noi possiamo implementare l’uso dei 209 miliardi di euro per il nostro paese con lo sguardo rosa, il nostro valore, le nostre capacità in ogni campo e con proposte che come donne ci vedano osare per traguardare un futuro migliore per noi e per i nostri figli.
Secondo gli ultimi dati Istat, si contano oltre 420mila i posti di lavoro persi da febbraio 2020 ad oggi (-444mila in un anno). Mentre gli inattivi, gli scoraggiati che non hanno un lavoro e non lo cercano, sono 400mila in più. Gli ultimi dati dell’istituto di statistica registrano la forte crisi del lavoro femminile. In un anno ne mancano all’appello 312mila, facendo precipitare il già basso tasso di occupazione femminile italiano al 48,6%.
La perdita di occupati nel mese di dicembre si registra in tutte le fasce d’età, in particolare nella generazione di mezzo dei 35-49enni (-74mila), a eccezione dei lavoratori over 50, dove l’occupazione aumenta soprattutto per effetto della componente demografica (oltre che per una maggiore protezione delle forme contrattuali concentrate in questa fascia d’età). Diminuisce di 0,6 punti il tasso di occupazione giovanile e aumentano sia la disoccupazione sia l’inattività. In un anno, al netto della componente demografica, si conferma il forte calo degli occupati under 35 (-5,4%) e la crescita (+0,6) degli over 50.
Nonostante la cassa integrazione e il blocco dei licenziamenti, a dicembre si contano 16mila contratti a tempo indeterminato in meno – probabilmente per effetto degli incentivi all’esodo volontario che molti lavoratori stanno accettando. Per i contratti stabili, comunque, il saldo annuale resta positivo di 158mila unità, seppure in rallentamento rispetto ai mesi scorsi. Si riducono in misura minore (-7mila) i contratti a termine, che però in un anno scontano una emorragia di 393mila unità (-13,2%). Il grosso tonfo a dicembre, si registra tra gli autonomi, che perdono 79mila occupati in un solo mese, 209mila in un anno.
Torna a crescere il numero di persone in cerca di lavoro: il tasso di disoccupazione a dicembre sale al 9% (+0,2 punti) e tra i giovani al 29,7% (+0,3 punti). Sale il numero di inattivi (+0,3%, pari a +42mila unità) tra donne, 15-24enni e 35-49enni, mentre diminuisce tra gli uomini. Nell’arco dei dodici mesi, diminuiscono le persone in cerca di lavoro (-8,9%, pari a -222mila unità), mentre aumentano gli inattivi tra i 15 e i 64 anni: +3,6%, pari a 482mila scoraggiati in più.
Più casa, meno lavoro. O meglio: meno lavoro retribuito. L’impatto del Covid-19 sulle donne è forte e si avverte in tutto il mondo, tant’è che va in direzione esattamente opposta a quella della crisi del 2008 (quando si parlò di “he-cession” una recessione al maschile) quella attuale è battezzata come una “she-cession” una recessione al femminile. Per capire perché questa recessione, al contrario della grande crisi del 2008, colpisce di più le donne bisogna guardare, come allora, alla composizione strutturale dell’occupazione.
La crisi che partì dai subprime colpì settori a prevalente occupazione maschile: la finanza, l’immobiliare, l’edilizia, e poi l’industria manifatturiera. Questa colpisce soprattutto il terziario, e al suo interno i comparti dove più spesso sono impiegate le donne: il turismo, la ristorazione, il commercio al dettaglio, il lavoro domestico.
Comunque la si pensi, le donne sono a rischio su tutti i fronti: il primo, quello dei lavori maggiormente esposti al contagio, data la prevalenza femminile nel settore sanitario, in particolare quello infermieristico e di cura, nelle case di riposo come nelle case private nella cura degli anziani fragili a carico della famiglia. Il secondo, quello delle persone che hanno perso il lavoro a causa della crisi si pensi al settore del commercio al dettaglio , al turismo, alla ristorazione e all’alberghiero.
E il terzo, quello del lavoro in casa: sia nella forma del lavoro a distanza, lo smart working, che nell’aumento dei carichi del lavoro non retribuito dovuto alla chiusura di servizi essenziali o dalla loro trasformazione, ancora una volta, a distanza, a partire dalla scuola. Nel pieno della prima ondata della pandemia, l’Ocse ha coniato l’espressione “donne su tutti i fronti” a proposito del Covid ed è stata usata, partendo dalla maggiore presenza femminile nell’assistenza sanitaria, che non è una caratteristica solo italiana.
Uno sguardo ai nostri numeri può dare un’idea: come ha rilevato l’Istat in un dossier dedicato “all’eguaglianza e l’emergenza sanitaria”: sono donne il 64,4% delle persone impiegate nell’assistenza sanitaria e l’83,8% nell’assistenza sociale non residenziale, settori che l’Inail ha classificato al livello di rischiosità più elevato tra i lavori nella pandemia.
Su un totale di 1 milione e 343mila donne occupate nei settori della sanità e assistenza sociale, 417mila (quasi un terzo) hanno un figlio di età inferiore ai 15 anni, con le relative difficoltà ad occuparsene per la totale o parziale chiusura delle scuole e degli asili.
Scendendo di un gradino, ci sono i settori a rischio medio-alto, come i servizi di assistenza sociale residenziale (80,2%), il lavoro domestico (88,1% donne) e le altre attività di servizi alla persona (70%). In questi casi, al rischio dell’esposizione al contagio si aggiunge quello della perdita del lavoro, sia per effetto del lockdown che delle crescenti difficoltà economiche delle famiglie e dunque del taglio delle spese per collaboratrici domestiche e badanti. Il secondo filone riguarda i rischi di propagazione degli effetti della crisi ben oltre la fine dell’emergenza sanitaria, con il restringimento del mercato del lavoro.
In termini percentuali, rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, la riduzione del tassi di occupazione femminile è stata di 2,2 punti percentuali, quella del tasso di occupazione maschile di 1,6 punti. Di conseguenza, il gap di genere sul lavoro è aumentato, dopo una progressiva riduzione degli ultimi decenni, dovuta prima ai lenti ma costanti progressi dell’occupazione femminile e poi, con la grande crisi del 2008, al calo di quella maschile.
Con la crisi pandemica scendono tutti e due i generi, ma le donne molto di più. Ma c’è anche un altro aspetto, e riguarda la forma contrattuale. Mentre il blocco dei licenziamenti e la cassa integrazione hanno salvaguardato, per ora, il lavoro regolare a tempo indeterminato, sono stati tagliati i posti di lavoro di tutte le altre tipologie: quelli a termine che non sono stati rinnovati, i collaboratori e le molteplici forme del lavoro non-standard, fino al nero.
Sempre secondo i dati Istat, il tasso di occupazione delle donne giovani, trai 15 e i 34 anni, è sceso di 4,3 punti percentuali: in quella fascia di età è adesso occupata meno di una donna su 3 (e questo tasso è calcolato sulle giovani donne che non stanno studiando, e che cercano lavoro). Non sembri paradossale a questo punto il fatto che le donne prevalgano anche in un’atra categoria, quella del lavoro non in presenza. Con il lockdown e i decreti che ne sono seguiti, la quota di occupati che almeno una volta a settimana ha lavorato da casa è aumentata enormemente. I numeri indicano l’entità dell’espansione: si è passati dal 5% del 2019, all’8,1% nel primo trimestre 2020, a oltre il 19% del secondo, fino a circa il 25% del terzo.
Per le donne occupate con almeno un figlio sotto i 14 anni, la percentuale di lavoro a distanza è arrivata al 26,3%. Chi ha mantenuto il lavoro, e ha avuto la possibilità di svolgerlo in condizioni non rischiose, da casa, si è dovuta sobbarcare un carico di lavoro di cura che – partendo già da livelli più elevati rispetto agli altri paesi europei – è cresciuto, poiché, in caso di presenza di figli minori, si è allargato a comprendere l’assistenza per le attività scolastiche a distanza. In teoria, la possibile presenza di entrambi i genitori a casa avrebbe potuto anche avere un effetto positivo sul gap di genere nel lavoro domestico, chiamando i maschi a un maggiore contributo. Ma secondo una ricerca del centro Genders dell’università di Milano, riportata in un articolo su “inGenere.it”, il maggior carico di lavoro di assistenza ai percorsi scolastici dei figli è stato a carico delle donne.
Il passare del tempo, e l’eventuale “lascito del Covid-19 in termini di maggior uso del lavoro a distanza – che di per sé potrebbe essere uno strumento di flessibilità utile a conciliare i tempi di vita e lavoro, a riequilibrarli , ci diranno se qualche cambiamento nei modelli familiari è avvenuto.
Ma le prime evidenze (si veda anche la ricerca Eurofound) ci dicono che l’effetto-lockdown ha quasi ovunque consolidato e aggravato gli squilibri esistenti. Particolarmente in Italia, Paese nel quale le scuole sono state chiuse prima e più a lungo, hanno riaperto più tardi per poi essere di nuovo chiuse: anche se le scuole del primo ciclo, adesso in teoria aperte, le chiusure a singhiozzo, dovute a provvedimenti regionali o all’insorgere di casi positivi nelle classi, e il distanziamento forzato dai nonni che per molte famiglie erano perno della conciliazione vita-lavoro, ancora una volta gravano sulle donne.
Chiudendoci in casa e smantellando interi settori dell’economia; rimodellando i tempi di vita e lavoro e la stessa geografia urbana; mettendo a nudo tragicamente le debolezze del nostro sistema di welfare familistico, la crisi da Covid-19 rischia di avere un impatto strutturale e duraturo sul lavoro femminile. Ma nonostante questa sua caratteristica, l’impatto di genere della crisi è poco preso in considerazione dalle politiche finora messe in campo per affrontarla. Non c’è centralità nel dibattito pubblico.
Occorre allora una forte risposta politica, che stavolta può utilizzare una quantità di risorse economiche pubbliche mai vista prima, sia grazie ai piani europei che all’abolizione dei tetti ai debiti nazionali, il famoso “Recovery Fund”, diventato da noi l’oscuro oggetto del desiderio di una crisi di governo incomprensibile, quanto sconsiderata.
Va bene l’economia green, la digitalizzazione di sistema, la ricerca e sviluppo nei settori strategici, primo fra tutti le scienze per la vita, ma davvero lo sguardo al futuro delle donne si può accontentare del piano straordinario degli asili nido e del family act, pure importantissimi, non considerando un’ottica di genere nell’impostazione di tutti gli interventi, primo fra tutti la formazione ed il lavoro? La parità di genere e di remunerazione nel lavoro, la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro devono essere il paradigma di questo millennio.
Noi possiamo implementare l’uso dei 209 miliardi di euro per il nostro paese con lo sguardo rosa, il nostro valore, le nostre capacità in ogni campo e con proposte che come donne ci vedano osare per traguardare un futuro migliore per noi e per i nostri figli.
Grazia Labate
Ricercatrice in economia sanitaria già sottosegretaria alla sanità