Quando Nilde Iotti fu eletta alla Presidenza Camera, ascoltai le sue parole con grande attenzione, come tutti del resto. Mi colpì particolarmente una frase: “Fare politica vuol dire capire le ragioni degli altri.”. Un messaggio di straordinaria forza.
Nilde Iotti, eletta il 20 giugno 1979, un anno e un mese dopo il tragico maggio 1978, fu la prima donna Presidente della Camera. Fu rieletta nel 1983 e nel 1987. Ad ogni elezione i consensi superarono i due terzi degli elettori. E’ stata la più lunga presidenza di un’assemblea parlamentare nella storia repubblicana. L’unica presenza istituzionale stabile in una fase di particolare instabilità. Durante i suoi tredici anni di presidenza si sono succeduti sette presidenti del Senato, otto presidenti del Consiglio e tredici governi.
E’ stato uno dei periodi più drammatici della vita della Repubblica. Sono gli anni delle stragi di Bologna e di San Benedetto val di Sambro, della scoperta della Loggia P2, dell’inizio di Tangentopoli, del caso Cirillo, l’assessore regionale campano sequestrato e poi liberato grazie a una trattativa condotta da funzionari pubblici e uomini politici con Br e camorra. Il terrorismo rosso in quegli anni compie più di 500 attentati: sono uccisi tra gli altri Vittorio Bachelet, Guido Galli, Mario Amato, Roberto Ruffilli. La mafia uccide a Milano Giorgio Ambrosoli e a Palermo Rocco Chinnici Gaetano Costa, Procuratore di Palermo, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Pio La Torre, Pier Santi Mattarella. Ciascuno di questi fatti entrò prepotentemente nel dibattito parlamentare e la Presidente Iotti intervenne ogni volta, come la sua responsabilità l’obbligava, in modo non rituale, per spronare a rafforzare la vita democratica come essenza della nostra civiltà.
“La strage di Bologna-disse dal seggio di Montecitorio- è una strategia di attacco e di odio verso il modo in cui si organizza e lotta socialmente e politicamente la collettività nazionale, verso le forme in cui essa vive ed esprime la sua civiltà. Questa caratteristica originale del nostro Paese non è solo la negazione totale del fascismo, ma é un fatto straordinario che, se continua e si accresce, apre a tutti la prospettiva di una via con più giustizia e con più eguaglianza.”
E’ forse uno dei punti più alti del suo racconto della coscienza della nazione.
Nel corso dei tredici anni della sua presidenza, si infrangono i miti fondativi della vita politica dei trent’anni precedenti.
Il cosiddetto preambolo Forlani mise fine, nel gennaio 1980, ad ogni forma di collaborazione tra DC e PCI.
L’attentato a Karol Woytila, 13 maggio 1981, intaccò il principio della intangibilità della figura del papa.
Con la famosa intervista di Berlinguer a Eugenio Scalfari, 28 luglio 1981, si delineò per la prima volta la gravità della questione morale che avrebbe portato a tangentopoli.
I governi Spadolini e Craxi posero fine al dogma della PdCM affidata solo a democristiani.
Il mito della impossibilità di affrontare i problemi del mondo del lavoro senza l’intesa con la CGIL e con il PCI fu sconfitto nel referendum sulla scala mobile (1985).
La vicenda di Sigonella, 1985, quando Craxi impedì, schierando l’esercito, che gli Stati Uniti dirottassero un aereo che portava in Italia gli autori di un attentato compiuto su una nave italiana, segnò un arresto della subalternità italiana alla politica estera USA.
Finì nel 1988, il primato del voto segreto nelle Aule parlamentari, che favoriva accordi sempre conclusi e sempre smentiti tra settori della maggioranza e settori della opposizione ai danni, spesso, del bilancio dello Stato.
Il crollo del muro di Berlino, 1989, pose fine al mito della temibilità dell’URSS.
A tutto ciò seguì l’esaurimento del patto fondativo della Repubblica, nato nelle aule dell’Assemblea costituente. Nel 1992 cominciarono gli arresti per le corruzioni politiche e amministrative. Nel 1993 un referendum liquidò il sistema elettorale proporzionale. Nello stesso 1993, in sole venti settimane, tutti i segretari dei partiti di maggioranza lasciarono l’incarico. Il 9 febbraio Bettino Craxi lascia a Giorgio Benvenuto la segreteria del PSI. Il 25 febbraio Giorgio La Malfa si dimette da segretario del PRI. Il 15 marzo Renato Altissimo si dimette da segretario del PLI. Il 29 marzo Carlo Vizzini si dimette dalla segreteria del PSDI. Il 23 giugno Mino Martinazzoli, segretario della DC, annuncia lo scioglimento del suo partito.
Il sistema politico nato nell’Assemblea Costituente era finito; ma la transizione non si é ancora conclusa.
A quell’epoca c’era una netta differenza tra Camera e Senato. Il Senato, elettivo solo dal 1948, prima era di nomina regia, aveva le caratteristiche di una sede più orientata verso la riflessione e la ponderazione.
La Camera, elettiva dal 1848 era invece la Camera politica per eccellenza. Quasi tutti i leader politici erano deputati. Più dei due terzi dei giornalisti parlamentari lavoravano a Montecitorio mentre meno di un terzo era a Palazzo Madama.
Per questa ragione le tensioni politiche, gli eventi drammatici, le questioni sociali trovavano nella Camera il principale luogo del confronto, dello scontro al limite dell’aggressione, ma anche il luogo della costruzione della linea politica, della composizione e del superamento dei conflitti.
Il compito più difficile per chi presiede un’assemblea parlamentare è quello di mantenere un equilibrio tra il principio di rappresentanza, che favorisce le opposizioni e il principio di decisione, che favorisce le maggioranze e sul quale le maggioranze fanno pieno, a volte eccessivo, affidamento.
Le difficoltà aumentano quando il presidente dell’Assemblea appartiene alla opposizione. In questi casi il presidente ha due cani da guardia che scrutano le sue decisioni: l’opposizione, per il sospetto che favorisca la maggioranza al fine di acquisirne la condiscendenza; la maggioranza, per il sospetto che intenda favorire lo schieramento cui egli appartiene.
Spesso si dice che i presidenti delle Camere devono essere neutrali. Io credo che la neutralità in politica non esiste. Quella dichiarazione è frutto di una ipocrisia. Esiste invece, ed è un grande valore, l’imparzialità.
Nei tredici anni della presidenza Iotti le tensioni tra unità e frammentazione sono state quotidiane e a volte violente. La presidente affrontò le difficoltà di ogni giorno con imparzialità e con una idea della politica non ridotta a mera osservazione dei fatti. La sua idea della politica risale alla sua formazione prima cattolica e poi comunista: la politica è responsabilità, costruzione, emancipazione, guida.
I suoi interventi sono stati sempre diretti a rappresentare e narrare la coscienza della nazione, il nostro demos, il modo di connettere le generazioni, di trasmettere la conoscenza, di rivivere i valori fondanti, di costruire uguaglianze ed emancipazioni, di avere la consapevolezza del destino comune.
Questa idea dei compiti della politica emerge nettamente nel ricordo di Vittorio Bachelet, quando, richiamati i caratteri della lotta al terrorismo aggiunse: “Voglio qui ribadire che la democrazia si difende con la democrazia e con la massima unità tra le forze sociali e politiche che hanno costruito, con la Resistenza e la Costituzione, la nostra Italia repubblicana.”.
L’unità del Paese, dunque, come garanzia di salvezza della democrazia.
Nilde Iotti, consapevole, per educazione politica, delle responsabilità che gravavano su di lei, e avvertita, per la profonda esperienza parlamentare, della centralità dell’autorevolezza delle istituzioni e delle persone nella dinamica politica, valorizzò al massimo il ruolo e il funzionamento del Parlamento. "Le prerogative parlamentari, disse a Londra nel 1982 in occasione della conferenza dei Presidenti delle Assemblee parlamentari europee, considerate nel loro complesso sistematico e cioè l’autonomia regolamentare, il potere di auto-organizzarsi, il principio degli interna corporis, l’autonomia finanziaria e contabile, il sistema di immunità personali e di sede, la verifica dei poteri e la stessa indennità parlamentare, sono tutti istituti che fanno corpo per assicurare, con disposizioni quasi sempre di rango costituzionale, lo spazio necessario alla libera esplicazione delle funzioni parlamentari".
L’autorevolezza del Parlamento nella concezione di Nilde Iotti non era legata solo al migliore funzionamento delle regole interne.
L’esperienza del fascismo aveva insegnato che le democrazie muoiono per suicidio, non per omicidio; muoiono quando smarriscono le ragioni del loro dover essere. La preoccupava perciò il rischio di un allontanamento del Parlamento dal Paese e quindi l’inaridimento della sua funzione costituzionale di presidio della democrazia.
Aveva fatto trasparire nettamente, come sua abitudine, questa preoccupazione nel discorso di insediamento. “Il Parlamento disse- questo altissimo strumento di democrazia, non può e non deve essere superato dai tempi. Esso, al contrario, deve riuscire a guidare questo processo. Non già nel senso di confondere le diverse funzioni degli organi istituzionali dello Stato … ma nel senso che il Parlamento diventi iniziativa, stimolo, confronto e incontro delle volontà politiche del paese ... Fare questo con rigore, con dedizione, con probità significa attuare la Costituzione repubblicana, renderla operante ispiratrice della vita del paese”.
Aveva nel contempo molto chiara la necessità che quella libera esplicazione delle funzioni parlamentari non potesse pregiudicare il diritto di decidere.
Il momento per lei più drammatico parlamentare fu costituito dal dibattito sul secondo decreto legge sulla scala mobile, tra febbraio e maggio 1984.
All’epoca, i salari crescevano con il crescere dell’inflazione; conseguentemente il costo del lavoro aumentava con l’aumento della inflazione. Il Presidente del consiglio Craxi propose un decreto legge per congelare tre punti di scala mobile. Il provvedimento, in termini economici, rallentava il processo di adeguamento degli stipendi e dei salari dei lavoratori dipendenti all'aumento del costo della vita. Questo taglio era compensato con l'introduzione di agevolazioni fiscali, il blocco dell'aumento dell'equo canone, il blocco delle tariffe pubbliche. Il decreto, adottato contro il parere della CGIL e del PCI, fu bocciato dalla Camera, a voto segreto. Il governo lo ripropose immediatamente. Poteva farlo perchè a quel tempo non era ancora intervenuta la sentenza della Corte Costituzionale che vieta la reiterazione dei decreti legge.
La ripresentazione aprì una lacerazione nel partito di Nilde Iotti. La parte più intransigente, che faceva capo a Enrico Berlinguer, intendeva sostenere un ostruzionismo ad oltranza per far decadere il decreto, che come è noto, doveva essere convertito in legge entro sessanta giorni, a pena di decadenza. La parte del PCI ispirata a un maggior realismo, guidata da Giorgio Napolitano, era contraria a questa strategia radicale per due motivi. Era sostenitrice di un rapporto meno conflittuale con il PSI; temeva, inoltre, come poi in effetti avvenne, che un atteggiamento radicale potesse tramutarsi in un danno grave per la tenuta del partito.
Nilde Iotti fu destinataria di forti pressioni da parte dei settori più intransigenti del suo partito che la richiamavano alla disciplina di partito per far saltare nei fatti l’intesa che era stata raggiunta in Conferenza dei Capigruppo in base alla quale il decreto legge sarebbe stato votato entro una data prestabilita. Ma la presidente Iotti difese il dovere del Parlamento di decidere, a garanzia della sua stessa funzione costituzionale. Qualche anno dopo si parlerà, a questo proposito di “democrazia decidente”, di democrazia che non si esaurisce nella rappresentanza, ma che mette in costante equilibrio la rappresentanza con la decisione.
Giorgio Napolitano, nella Introduzione ai due volumi di discorsi parlamentari della Presidente Iotti, così parla di quei difficili giorni: “La Iotti arbitra difficili accordi tra i gruppi di maggioranza e di opposizione per permettere a questi ultimi di dispiegare le loro proteste e il loro dissenso, ma insieme per evitare che decada anche il secondo decreto, per garantire cioè -punto cardine della sua concezione- il diritto dovere della maggioranza di legiferare e dunque in particolare di ottenere il voto di conversione di un decreto…L’opposizione può condurre la sua battaglia nei modi più duri, può ricorrere all’ostruzionismo, ma per rappresentare a Paese le sue ragioni, la sua protesta e per suscitare una riflessione, un ripensamento nella maggioranza, non per impedire che si giunga alla decisione …altrimenti si colpisce il ruolo e la credibilità del Parlamento, si minano le basi delle istituzioni democratiche.”
Giorgio Frasca Polara, che ne fu lucido e sempre leale consigliere, cita l’episodio del rifiuto della nomina a senatore a vita. Era l’estate del 1991, da poco le forze di governo erano state sconfitte nel referendum per introdurre nel voto l’obbligo della preferenza unica. Craxi intendeva ottenere da Francesco Cossiga lo scioglimento del Parlamento. La presidente Iotti sosteneva che la sorte di una istituzione fondamentale come il Parlamento non poteva essere piegata alle esigenze contingenti, pur se legittime, dell’una o dell’altra parte politica. Prevalse la sua posizione. Poco tempo dopo giunse ai suoi collaboratori l’indiscrezione secondo la quale il presidente Cossiga intendeva nominarla senatrice a vita. Prima che la indiscrezione trapelasse, come poi avvenne, la presidente Iotti inviò a Francesco Cossiga un breve biglietto: “Qui sono stata chiamata ripetutamente dai colleghi, qui resto per rispettarne e onorarne la volontà”. Uno stile che era riflesso di una educazione politica.
L’urgenza di trovare costantemente, a difesa dell’autorevolezza del Parlamento, l’equilibrio tra le ragioni della maggioranza e quelle della opposizione, la spinsero a definire quello che si chiama Lodo Iotti e che ancora oggi disciplina l’attività della Camera quando il governo pone la questione di fiducia. Quando il governo pone la questione di fiducia, decadono tutti gli emendamenti delle opposizioni che quindi si trovano nella impossibilità di presentare e difendere le proprie ragioni. Il lodo Iotti dà modo ai gruppi di opposizione, in quel caso, di illustrare comunque tutte le proprie proposte emendative e di posticipare il voto di fiducia oltre le 24 ore prestabilite dal Regolamento. Se si tratta del voto di fiducia su un decreto legge, il termine finale deve comunque garantire il voto entro il termine utile per evitare la decadenza.
La difesa del Parlamento come luogo fondamentale per la rappresentanza della nazione non le impediva di cogliere l’inadeguatezza della struttura e del funzionamento delle Camere. La sua costante attenzione ai processi storici come fatti umani, determinati dagli uomini nella loro concreta storicità la spinsero ad avanzare una proposta radicale.
Nell’autunno del 1979, pochi mesi dopo la sua elezione, parlando a Piombino, si assunse la responsabilità di proporre una riforma costituzionale che consolidasse il ruolo del Parlamento in relazione ai tempi. Indicò il superamento del bicameralismo per costituire il Senato delle autonomie locali; si disse favorevole, all’interno di questo quadro, alla riduzione del numero dei parlamentari, all'introduzione della sfiducia costruttiva per la stabilità dei governi, all’ampliamento dei poteri controllo da parte del Parlamento. Per la sua lunga esperienza politica era consapevole della necessità della riforma dei partiti. Disse: «La strada è quella del rinnovamento dei partiti, radicale e profondo, fatto a viso scoperto, in modo trasparente, sotto il controllo dell’opinione pubblica, che deve veder cambiare non tanto e solo le facce ma i metodi di azione, i comportamenti nelle responsabilità pubbliche, le scelte, le selezioni dei nuovi gruppi dirigenti che devono essere democratiche e cristalline, in modo che non si possa dire che il lupo perde il pelo ma non il vizio».
La sua posizione sulla riduzione del numero dei parlamentari è stata utilizzata in una recente polemica per motivare il sostegno alla legge oggetto del referendum del 29 marzo scorso. In realtà l’assimilazione è mal posta. Quella proposta, come tutte le altre successive, presupponeva il superamento del bicameralismo paritario.
La generazione di Nilde Iotti era naturalmente attenta alle questioni internazionali. Questa attenzione fece sì che durante la sua presidenza la Camera si aprisse alle relazioni con assemblee parlamentari di altri Paesi e che commentasse con partecipazione gli eventi internazionali. Anche in questo caso non era trascurato l’insegnamento dei fatti. Dopo l’eccidio di piazza Tien An Men, Nilde Iotti tenne a sottolineare la necessità di guardare oltre il cinismo di chi commentava con malcelata soddisfazione le difficoltà del regime cinese. “Sarebbe un errore grave, disse, significherebbe non capire che i nostri ragazzi si sono sentiti fratelli –al di là di ogni considerazione politica- dei giovani di Tien An Men.
Ecco questa fratellanza chiede di divenire -certo per strade lunghe e difficili ma non eliminabili- la realtà del futuro. Dobbiamo lavorare per questo, senza iattanza, senza pregiudizi, ma credendo con tenacia e fino in fondo, nei valori universali della giustizia, della dignità e della libertà di ogni uomo e di ogni popolo.”.
Unità della nazione e dignità delle persone nella storia della Repubblica non sono parole.
L’Italia repubblicana è stata colpita da undici stragi politiche, due opposti terrorismi con circa 500 uccisi in quindici anni (1969-1984), due stragi di mafia, tre tentativi di rovesciamento violento del governo, l’omicidio di un uomo di Stato, di 24 magistrati e di undici giornalisti.
E’ difficile dire quanti altri altri paesi sarebbero stati capaci di subire lacerazioni così profonde, senza perdere il senso della propria identità democratica.
Noi ne siamo stati capaci. La semplice consapevolezza di questa capacità sarebbe sufficiente a farci abbandonare il vizio dell’autodenigrazione.
Saremmo stati certamente più forti se nessuno di quegli eventi si fosse verificato.
Ma proprio la capacità di resistenza dei cittadini e delle istituzioni ha consentito e consente tutt’ora di appropriarci del valore della unità e della dignità della nazione.
Permettetemi, infine, un cenno personale. Quando Nilde Iotti fu eletta alla Presidenza Camera, ascoltai le sue parole con grande attenzione, come tutti del resto. Mi colpì particolarmente una frase: “Fare politica vuol dire capire le ragioni degli altri.”. Un messaggio di straordinaria forza.
Luciano Violante
14 marzo 2022