Donne in politica, che cosa ci esclude?
di Giulia Bongiorno da "Il Corriere della Sera" del 4 aprile 2012

È innegabile che nel nostro paese ci sono molte donne di valore che finora sono state tenute ai margini e che, per tanti motivi, non sono ancora riuscite a esprimere appieno le proprie competenze e i propri talenti.
È possibile inserire nel panorama politico una formazione che, attraverso una classe dirigente di donne, faccia dello sguardo e della sensibilità femminili la propria cifra distintiva?

Nessuno è in grado di immaginare come sarà la politica dopo il governo Monti, tra i cui meriti c’è sicuramente quello di aver affidato tre ministeri di peso a tre donne di valore.
La scelta del presidente Monti dimostra che, quando la selezione avviene sulla base della competenza, le donne sono in prima linea.
Ma cosa accadrà quando questo governo tecnico avrà esaurito il proprio mandato e la politica – come è giusto che sia – riprenderà il proprio posto?
Il mio timore è che si ripristineranno le vecchie logiche, quelle che finora hanno sempre escluso le donne da incarichi di potere.
Ecco perché è indifferibile una strategia diretta a promuovere la presenza femminile in politica.
Una prima strada potrebbe essere chiedere alle parlamentari di ciascuno schieramento di impegnarsi in una serrata trattativa all’interno del proprio partito per ottenere che, in occasione delle prossime elezioni, almeno la metà delle candidate siano donne. Ma è probabile che non basterà.
Forse, allora, bisognerebbe avere la forza e il coraggio di osare di più.
È innegabile che nel nostro paese ci sono molte donne di valore che finora sono state tenute ai margini e che, per tanti motivi, non sono ancora riuscite a esprimere appieno le proprie competenze e i propri talenti.
È possibile inserire nel panorama politico una formazione che, attraverso una classe dirigente di donne, faccia dello sguardo e della sensibilità femminili la propria cifra distintiva?
Le difficoltà sono innumerevoli, ma il punto non è questo: alle difficoltà siamo abituate. Il punto è che c’è un ostacolo preliminare davanti al quale cadiamo ogni volta: la nostra tendenza – anche dopo aver combattuto battaglie comuni – a dividerci, a frammentarci, a disgregarci. L’incapacità di mantenere un fronte unico.
In tutti gli schieramenti di uomini ci sono invidie, gelosie e odi, e quindi divisioni, scissioni, a volte persino rotture clamorose. Ma i sentimenti vengono sempre incanalati in strategie.
Tizio può non essere del tutto convinto dell’idoneità di Caio a rivestire un determinato ruolo, ma una volta deciso che Caio è il candidato del suo schieramento lo sosterrà: non fosse altro, per partecipare della fetta di potere che Caio potrebbe conquistare. Se le cose andranno bene, proprio a partire da quella prima fetta ne arriveranno altre, e loro se le spartiranno tutte: magari detestandosi, ma silenziosamente. In nome di un interesse comune e superiore.
Nei gruppi di donne questo non avviene: noi non ce ne teniamo nemmeno mezza. Quando si forma uno schieramento, prima o poi c’è sempre qualcuna che attacca apertamente qualcun’altra, è solo questione di tempo. E gli obiettivi che erano stati fissati, e che magari per un attimo erano sembrati persino a portata di mano, si fanno lontani. Irraggiungibili.
Credo sia l’esito della micidiale congiuntura tra una distorta forma di “schiettezza” (le virgolette qui sono d’obbligo), la difficoltà nel disciplinare le emozioni e l’incapacità di valutare le conseguenze dei propri gesti: quel che è certo è che nella maggior parte dei casi basterebbe risparmiare una critica – o rinviarla a un momento e a una sede più opportuni – per evitare fratture insanabili, e dunque perdita di forza, di coesione e di credibilità.
Purtroppo, non abbiamo ancora capito che è proprio nella zona d’ombra tra il dire e il non dire che risiede e prospera il potere.
Il potere passa di necessità attraverso la coesione. E coesione non significa amarsi, significa saper convivere mettendo da parte l’incontenibile smania di entrare in conflitto aperto ogni qual volta emerge un disaccordo. Cosa che peraltro le donne sanno fare benissimo quando si tratta, per esempio, di venire a patti con il marito se c’è in gioco il bene dei figli. Per qualche motivo, però, paradossalmente, proprio quando ci si ritrova tra donne a tentare di creare un gruppo che persegue un obiettivo, la nostra capacità di mediazione e di ascolto, la nostra comprensione e il nostro spirito di sacrificio precipitano in caduta libera.
Le donne andranno al potere soltanto quando avranno capito la differenza tra l’amore e la civile convivenza e saranno – anche solo apparentemente – unite, compatte e solidali.
Quando, cioè, in nome di un interesse comune avranno imparato a essere meno “schiette” e più strategiche.
Quanto tempo ci vorrà per superare questa ontologica incapacità di fare gruppo, di fare gruppo veramente però, e per più di cinque minuti?
Giulia Bongiorno
 

04 aprile 2012