Ricordo di Miriam Mafai
di Claudia Mancina

"La Miriam che io ho conosciuto, e frequentato in questi venti anni come un’amica straordinaria, era “dolce di cuore e con un’affettata durezza di testa” (Giuliano Ferrara). I suoi giudizi erano taglienti, ma la sua disponibilità, non solo ai rapporti umani, ma anche agli impegni: alle lezioni, ai dibattiti, agli incontri, era totale. Senza risparmio, anche quando era già malata". Un ricordo di Miriam Mafai di Claudia Mancina, tratto dal sito del settimanale Qualcosa di Riformista.

In questi giorni sono state scritte molte cose su Miriam, alcune anche molto belle. In tutte erano presenti alcuni temi ricorrenti: la sua risata, la sua libertà di pensiero, la sua vitalità. La sua curiosità, che le faceva sempre interrogare, gli altri e la realtà, senza mai dare per scontato il giudizio. Senza pregiudizio, sempre. Non credo di aver mai conosciuto una persona così aperta alla realtà, e quindi agli altri, come era Miriam. Le sue telefonate, per chiedere: che cosa ne pensi?
Miriam era così, ma sarebbe un errore credere che pensasse solo alla politica e che fosse fredda o, come qualcuno ha pensato, cinica. Era, con una sua sottile discrezione e riservatezza, ma anche con decisione, affettuosa e generosa. Non ho mai percepito il cinismo nelle sue parole e nei suoi sentimenti, piuttosto ho sentito (prendo in prestito le parole di Alfredo Reichlin) “l’impasto di ragioni ideali e di realismo, fino al limite dello scetticismo”. Lo scetticismo può essere una corazza della fede. Io credo che questo fosse lo scetticismo di Miriam. Lei non ha mai smesso di credere, pur con tante revisioni e aggiustamenti, in ciò in cui credeva quando la sua avventura è cominciata, durante la guerra, quella guerra terribile che pure era l’inizio della speranza, per l’Italia e soprattutto per l’Italia delle donne, come ha spiegato in quel meraviglioso libro che è Pane nero.
La Miriam che io ho conosciuto, e frequentato in questi venti anni come un’amica straordinaria, era “dolce di cuore e con un’affettata durezza di testa” (Giuliano Ferrara). I suoi giudizi erano taglienti, ma la sua disponibilità, non solo ai rapporti umani, ma anche agli impegni: alle lezioni, ai dibattiti, agli incontri, era totale. Senza risparmio, anche quando era già malata. Io credo che non fosse bisogno di riconoscimenti, come spesso avviene, ma un autentico bisogno di conoscere, di capire. E anche un antico costume, l’antico costume comunista, a cui era fedele perché questo costume corrispondeva alla sua natura più profonda e più vera.
Di questo voglio parlarvi, del suo rapporto col Pci, del suo modo di essere una comunista e un’ex-comunista. Perché Miriam è una delle pochissime persone – si contano sulle dita di una mano – che dopo aver vissuto una piena esperienza di comunista sono poi state capaci di chiudere quell’esperienza con totale e limpida convinzione, senza minimamente cedere alla tentazione di guardare indietro, e nello stesso tempo senza mai rinnegarla. Il suo Botteghe Oscure addio mette in scena questa cerimonia degli addii, con apparente freddezza ma in realtà con una enorme tenerezza per il Pci, per il suo sogno politico ma soprattutto per l’incredibile ambiente umano che il Pci aveva creato. La freddezza apparente sta nella lucidità della ricostruzione e del giudizio, nella decisione del distacco. Non c’è nostalgia politica, anche se è confessata la nostalgia umana, nostalgia per i sogni della giovinezza ma anche per la profonda umanità, per la moralità di certi rapporti. Ma l’autrice di quel libro così commosso non pensa neanche per un momento che si debba tornare indietro né per un momento dimentica o sottovaluta il carico di errori e di contraddizioni che ha contrassegnato quella storia.
Come pochi Miriam aveva vissuto sino in fondo la storia del Pci, da dirigente periferico, come amava dire, immergendosi nelle lotte bracciantili della Lucania e dell’Abruzzo, nell’organizzazione femminile, in campagne elettorali che oggi neanche possiamo immaginare. E poi, una volta passata al giornalismo (militante, certo, ma giornalismo vero, libero, senza paraocchi), era stata tra le migliori osservatrici e commentatrici dell’evoluzione del Pci. Ricordo che ai tempi della svolta, quando ancora non eravamo amiche, leggevo i suoi articoli su Repubblica, che erano così acuti, così giusti, e mi chiedevo: ma perché non lo spiega a Giancarlo?
Miriam non faceva parte del gruppo della svolta, ma aveva troppo senso della realtà per non condividere la necessità che il Pci diventasse un’altra cosa, si aprisse, facesse un tuffo nella modernità e nella democrazia. Sapeva che solo a questa condizione si poteva salvare l’eredità di quella storia, alla quale lei, come tanti altri, aveva dedicato la vita. Aveva la lucidità di capire che il mondo era definitivamente cambiato; e che in un mondo cambiato l’eredità non frutta da sé, ma bisogna saperla mettere a frutto. E ha molto sofferto l’incapacità che i post-comunisti hanno purtroppo manifestato in quest’operazione. Ha molto sofferto il complessivo fallimento del tentativo di fondare una nuova tradizione della sinistra italiana.
Perché lei, ben lontana dal cinismo, credeva nella sinistra, anche se non trovava una sinistra valida nel panorama politico italiano. E’ rimasta però senza dubbi e sino in fondo una donna di sinistra, nonostante la delusione. Delusione, ma non sfiducia. Perché, come dice nel Silenzio dei comunisti, l’ottimismo e la fiducia nel futuro erano il suo difetto principale. Miriam aveva fiducia che la sinistra che lei voleva, che noi vogliamo, sarebbe venuta – anche se forse non più da quel ceppo antico. Sapeva che la storia può sorprendere. Ma non ha mai allentato la sua appartenenza. Ha continuato a partecipare alle riunioni di Direzione; ha perfino votato alle primarie per il segretario del Lazio.
Così come è rimasta sempre legata alla causa delle donne, alle quali ha dedicato anni di lavoro politico e giornalistico (con la direzione di Noi donne) e due libri, e un’incessante presenza in tutti i luoghi anche periferici della politica delle donne. Miriam non ha apprezzato il femminismo della differenza, e non capiva proprio il femminismo postmodernista. Ma è stata sempre con le donne, senza esitazione. Certo non avrebbe mai potuto indulgere ai toni lamentosi e autocommiserativi che sono spesso propri delle donne. Il movimento femminile che lei conosceva e praticava era un movimento forte, autorevole, fatto di donne che volevano conquistare libertà e potere.
Mettersi dal punto di vista delle donne ha avuto un effetto non secondario nel suo modo molto particolare di essere comunista. Le ha dato un tratto scanzonato e irriverente, una capacità critica che le impediva di cadere nella trappola dell’ideologia o del luogo comune di sinistra: come quando riconosce nei movimenti del Sessantotto “una componente di tipo luddista, antimodernizzatrice, pauperista”. Quella riassunta nel celebre lamento di Pasolini sulle lucciole che non ci sono più. Ma, lei dice, “il tempo delle lucciole era per me il tempo in cui le donne andavano a lavare i panni al fiume”. Non era un tempo che potesse rimpiangere.
Scetticismo e ottimismo: sembra una congiunzione impossibile, ma non lo è, ed è questa la lezione che Miriam ci ha lasciato attraverso tutta la sua opera, attraverso tutte le parole che ha scritto e che ha detto, attraverso le sue incessanti domande.
Permettetemi di leggere alcuni versi: sono versi di Montale, scelti da Miriam come exergo di Botteghe Oscure addio, insieme, non casualmente, alla dedica ai suoi nipoti.
Chi si ricorda più del fuoco ch’arse
impetuoso
nelle vene del mondo – in un riposo
freddo le forme, opache, sono sparse.
Rivedrò domani le banchine
e la muraglia e l’usata strada.
Nel futuro che s’apre le mattine
sono ancorate come barche in rada.
Questo è il messaggio di Miriam.
Non so come potremo fare a meno di lei. Certo ci mancherà moltissimo, ci manca già moltissimo. Addio Miriam.
Claudia Mancina
 

15 aprile 2012