La durissima repressione delle donne iraniane: non perdiamo la nostra capacità di indignarci, di Anna Loretoni

Da simbolo di liberazione a simbolo di oppressione, oggi il velo deve essere, secondo le donne iraniane che si mobilitano, una questione di libera scelta. Tutto ciò ci aiuta a rifiutare, in quanto femministe occidentali, modelli unici di liberazione e di emancipazione, invitandoci a prendere sul serio diverse forme e pratiche di femminismo, che non ripropongono sic et simpliciter la via occidentale, ma che offrono nuovi sguardi sulle pratiche di liberazione delle donne


Con 29 voti a favore, 8 contrari e 16 astenuti l’Iran è stato espulso dalla Commissione ONU sui diritti delle donne, un forum a cui partecipano 45 Paesi. La comunità internazionale reagisce così, sebbene non unanimemente, ai drammatici fatti che sconvolgono l’Iran. Oltre a ciò, non mancano le prese di posizione di diversi leader politici. Solo in Italia, vanno ricordate le parole di indignazione del Presidente Mattarella al nuovo ambasciatore iraniano Mohammad Reza Sabouri, e quelle del Ministro degli Esteri Tajani sulle condanne capitali del regime.

Ciononostante, è sempre più raro trovare sui quotidiani italiani notizie su quanto sta avvenendo in Iran. La stampa ci ha ormai abituato a passare da momenti di martellante informazione a fasi di silenzio pressoché totale sugli stessi temi. E anche sulla base di questa modalità a cui ormai pochi giornali si sottraggono si consuma il venir meno della nostra capacità di indignarci e di provare a dare una risposta, per quel che possiamo, come cittadini e cittadine che hanno a cuore la democrazia e la libertà. Intanto in Iran il massacro continua, e così la mobilitazione, con la crescita del numero degli arrestati e dei giustiziati. E questo accade a più di quattro mesi da quel 16 settembre, quando Mahsa Amini, 22 anni, muore in ospedale dopo essere stata arrestata e detenuta dalla polizia religiosa, lo speciale reparto di polizia che vigila sul rispetto dei costumi.

Mahsa, giovane donna curda, era in vacanza a Teheran con la sua famiglia ed è stata arrestata perché portava il velo in modo ‘inappropriato’, facendo intravedere una parte dei capelli. In suo nome, ma anche nel nome di altre giovani donne uccise dal regime iraniano, hanno preso corpo proteste che vanno avanti da più di quattro mesi, nonostante la forte repressione nelle piazze e nelle carceri ad opera di un potere autoritario che non ammette alcuna forma di dissenso, e che continua a reagire con arresti, espulsioni ed esecuzioni.

Proteste senza un leader
Le proteste si sono venute via via strutturando; da spontanee e disorganizzate sono diventate più sistematiche, e il governo non riesce a silenziare la voce della mobilitazione. Come sottolinea Shirin Zakeri, ricercatrice iraniana presso La Sapienza di Roma, sono proteste senza un leader, e hanno successo proprio per questo, perché tutti e tutte sono leader, come si addice ad una vera e propria mobilitazione dal basso. Le proteste sono condotte nel nome del grido Jin, Jiyan, Azadî (Donna, vita, libertà), uno slogan del movimento curdo che ora torna nelle piazze iraniane e che è estremamente potente nel suo intento di sfidare apertamente il sistema patriarcale dell’Iran. Uno slogan rivoluzionario che infiamma le piazze, dove anche tagliarsi una ciocca di capelli diventa un gesto simbolico rivoluzionario e dove molte donne iraniane cantano ‘Bella ciao’ in lingua persiana, costruendo una ideale, immaginata, comunità tra la loro resistenza a quella delle donne italiane nella Resistenza.

Da più parti si è sottolineato che questa protesta nasce da una radicalizzazione della disperazione. I giovani che oggi scendono in piazza non hanno nulla da temere in termini di conseguenze per il loro futuro lavorativo. Durante il movimento verde del 2009 molti studenti speravano in un lavoro, in un futuro impiego statale, ma oggi, in seguito alla pesante crisi economica, anche quel sogno è svanito e questo li spinge a unirsi al movimento, spesso con il sostegno delle famiglie. La protesta riguarda anche le università, e le stesse mense universitarie diventano terreno di lotta per gli studenti che infrangono il divieto di mangiare insieme con le studentesse, trasgredendo a quella segregazione di genere che caratterizza la vita politica e sociale dell’intero paese. L’ayatollah Khamenei sostiene che scioperi e mobilitazioni studenteschi sono organizzati da nemici stranieri, ma sappiamo bene che si tratta della riproposizione di un refrain ampiamente utilizzato dai regimi autoritari, dalla Cina alla Turchia. E sono proprio quei giovani, spesso sotto i 25 anni, verso cui il regime aveva indirizzato tanti fondi per l’educazione, al fine di avvicinarli ai principi della Rivoluzione islamica, ad essere ora in piazza; a dimostrazione di un fallimento di quel sistema educativo fortemente ideologico.

Particolarmente rilevante in questa rivolta è l’attivismo delle donne, che va inscritto in una lunga storia di protagonismo femminile, dal Nord d’Africa all’Asia Sud occidentale; contesti in cui la partecipazione delle donne ai grandi eventi delle mobilitazioni si è manifestata con particolare evidenza. Le donne hanno infatti giocato un ruolo importante nel corso delle primavere arabe del 2010-2011, nella rivolta di Getsi Park in Turchia nel 2013, nella rivoluzione in Sudan e nello stesso Iran nel 2019.

Sanno bene ciò che vogliono
Dall’instaurazione del regime degli ayatollah, le donne iraniane non hanno mai smesso di lottare, e sono queste donne che oggi si mobilitano, trascinando con sé gran parte della popolazione iraniana. Le iraniane, tra le popolazioni femminili più scolarizzate al mondo, non vanno certo dipinte con stereotipi orientalisti, come vittime a cui offrire una via di liberazione. Queste donne, consapevoli dei propri diritti, sanno bene ciò che vogliono e lottano per ottenerlo a rischio della loro vita. All’interno di una popolazione molto giovane, con un’età media di 32 anni, le donne stanno quindi assumendo un ruolo centrale, anche grazie alla loro cultura. Questo ci dicono le molte immagini che le mostrano in testa ai cortei, mentre danzano senza velo davanti al fuoco, con i capelli al vento o raccolti in una coda di cavallo. Sono immagini di un popolo in rivolta, in cui troviamo la potenza dei corpi femminili che resistono.

Le donne iraniane hanno partecipato sia alle proteste dell’Onda verde del 2009, sia a quelle del 2019 contro la crisi economica. Ma oggi sta succedendo qualcosa di nuovo. Sono loro ad avere innescato la rivolta, mettendo al centro della lotta i temi femministi. Il rifiuto dell’obbligatorietà del velo, la lotta contro la polizia morale e la discriminazione di genere sono diventate le forze trainanti di un movimento più ampio che si batte contro la tirannide, la crisi economica, la corruzione, l’oppressione delle minoranze. In questi cortei ci sono donne giovani, anzi giovanissime, e adulte, ragazze delle scuole ma anche uomini.

Nel corso delle primavere arabe del 2010-11 le donne erano molto presenti nelle piazze, ma la loro voce era limitata e gli obiettivi di genere erano stati marginalizzati in nome di obiettivi più generali. Come ha scritto Renata Pepicelli, studiosa di Islam presso l’Università di Pisa, in questa mobilitazione il paradigma è cambiato, e la questione della libertà delle donne è il catalizzatore per lotte economiche e politiche. La centralità dei temi delle donne si spiega in primo luogo in relazione alla specificità del contesto iraniano, che è particolarmente repressivo nei loro confronti. Il velo è imposto per legge, come avviene solo in un altro paese, l’Afghanistan, e le donne sono costrette a vivere in un regime di segregazione, ma anche sulla base della capacità politiche dei movimenti femministi locali, in grado di costruire un dialogo transnazionale con altri femminismi nel mondo.

È questo un tratto delle lotte femministe che si sta rafforzando negli ultimi anni, basti pensare al gruppo cileno las tesis che nel 2019 fu capace di replicare in molte piazze europee il grido “el violador eres tu”. C’è una forte solidarietà che nasce da questa connessione transnazionale, come si è visto anche nelle piazze italiane, e c’è una connessione tra le accademie, che accolgono e sostengono studentesse, ricercatrici e studiose iraniane. Una parte importante in questo network la gioca anche la diaspora iraniana, che è sparsa in tutto il mondo. Tra i molti nomi, non si può non ricordare Shirin Ebadi, avvocata iraniana, Premio Nobel per la pace nel 2003, poi perseguitata dal regime e in esilio autoimposto, che molti contatti ha avuto e mantiene tuttora con le università italiane.

La solidarietà non sia strumentale
Un’amara nota di riflessione va fatta per sottolineare che parte di questa solidarietà, anche se marginale, è strumentale e anti-islamica, come è già accaduto in relazione all’uso dei diritti delle donne in chiave anti-migratoria fatto proprio da alcune leader della destra europea, da Marine Le Pen a Giorgia Meloni. La riflessione del femminismo più attento ha mostrato gli errori e i limiti di questa prospettiva, proponendo una riflessione sul velo che, al di là del binomio imposizione/divieto, lo riconosce come simbolo, in quanto tale aperto ai molti significati che le soggettività femminili intendono liberamente attribuirgli. Se nel 1936 lo Shah Reza Pahlavi, seguendo il modello di altri leader autoritari come il turco Ataturk, proibisce per legge il velo, con il regime degli ayatollah esso viene reintrodotto e il 6 marzo del 1979, sotto la guida di Khomeini, si annuncia la sua obbligatorietà, imponendo dal 1983 pene corporali per chi non lo indossa.

Da simbolo di liberazione a simbolo di oppressione, oggi il velo deve essere, secondo le donne iraniane che si mobilitano, una questione di libera scelta. Tutto ciò ci aiuta a rifiutare, in quanto femministe occidentali, modelli unici di liberazione e di emancipazione, invitandoci a prendere sul serio diverse forme e pratiche di femminismo, che non ripropongono sic et simpliciter la via occidentale, ma che offrono nuovi sguardi sulle pratiche di liberazione delle donne.

Anna Loretoni

Professoressa ordinaria di Filosofia politica presso la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa

Quest'articolo è apparso su Striscia Rossa

03 febbraio 2023