Femminicidio: non si vede un salto di qualità delle politiche, di Cecilia D'Elia

Se il femminicidio di Giula Cecchettin è stato uno spartiacque nelle coscienze, non possiamo dire lo sia stato nelle politiche pubbliche. Non si vede un salto di qualità delle politiche. Ancora troppo poco viene fatto sulla prevenzione. Ancora troppo debole è la rete dei centri antiviolenza e delle case rifugio, luoghi essenziali, ma mai finanziati adeguatamente.

La scrittrice messicana Cristina Rivera Garza nel romanzo L’invincibile estate di Liliana[1], pubblicato nel 2021, ricostruisce la storia della sorella, vittima di femminicidio a Città del Messico il 16 luglio del 1990. Sono passati trent’anni da allora e finalmente sente di poter raccontare la storia di Liliana, leggere i suoi quaderni, riaprire le carte processuali e affrontare il lutto che ha cambiato la sua vita.

Cristina Rivere Garza spiega perché non avrebbe potuto farlo prima. “Non avrei mai potuto scrivere questo libro senza la lingua che le donne hanno elaborato negli ultimi anni su questo tema, senza il linguaggio dei movimenti femministi che hanno cambiato i nostri paesi negli ultimi trent’anni … Negli anni Novanta avrei avuto a disposizione solo le parole del delitto passionale, che come sappiamo dà spesso la colpa alla vittima per la violenza subita. Avrei fatto del male a mia sorella e a me stessa. Ci sono voluti anni di cambiamenti. Avevo bisogno di un altro vocabolario. Abbiamo cambiato il nome alle cose, abbiamo smesso di chiamare la violenza con il lessico dell’amore romantico”[2].

L’ondata femminista che si è alzata dall’Argentina, nel 2015 con il movimento Ni Una Menos, ha attraversato il mondo. I versi della poeta Susanna Chavez Castillo[3], vittima a sua volta di femminicidio a 36 anni, attivista messicana originaria di Ciudad Juarez, sono risuonati potenti in Italia nei giorni successivi al femminicidio di Giulia Cecchettin, a novembre dello scorso anno. Centinaia di migliaia di ragazze e ragazzi in quei giorni hanno fatto rumore, come chiedeva Elena, la sorella di Giulia. Lo sgomento e la rabbia per l’ennesimo femminicidio, grazie alle parole del padre e della sorella di Giulia, hanno messo sotto accusa la cultura patriarcale e sessista che produce la violenza e hanno chiesto un cambiamento culturale.  

È stato uno spartiacque nella coscienza pubblica. Le parole delle giovanissime hanno incrociato quelle di altre generazioni di donne. C’è infatti un sapere che viene dalle donne, dal femminismo, sulla violenza maschile contro le donne, c’è una storia politica che è anche storia di modifiche legislative ottenute per contrastare e prevenire la violenza.

Leggi che la Fondazione Iotti racconta nelle sue pubblicazioni. L’ultima l’abbiamo approvata un anno fa, la legge 168/2023, che rafforza le misure cautelari, l’uso del braccialetto elettronico. L’abbiamo votata, come spesso è avvenuto nelle norme sulla violenza, in modo unitario in Parlamento. In quella discussione parlamentare abbiamo cercato di sottolineare l’importanza della formazione. Ci sono stati ordini del giorno per ribadirne l’importanza e anche emendamenti alla legge di bilancio fatti unitariamente dalle opposizioni per finanziare questa formazione. Questo impegno parlamentare vorremmo rinnovarlo per arrivare ad approvare leggi sulle molestie sessuali nei luoghi di lavoro, in Senato ne abbiamo iniziato la discussione, ma servirebbero anche la legge sul consenso e quella sull’educazione all’affettività.

In questi anni abbiamo scritto buone norme, ma rimane il problema del modo in cui vengono applicate, delle sentenze che ancora banalizzano la violenza o non la riconoscono, della pratica processuale che produce la cosiddetta vittimizzazione secondaria delle donne, le giudica, inoltre troppo spesso viene sottovalutato il rischio che corrono. Tutto questo perché manca una formazione obbligatoria, e io dico anche integrata, tra i diversi soggetti che si occupano di violenza, a partire dalla magistratura.  Il cuore della questione rimane quella culturale. Come nominiamo la violenza, come ne parliamo, e il passaggio da una cultura del possesso a quella del consenso.

Oggi abbiamo, ad esempio la parola femminicidio. Abbiamo persino nei testi istituzionali accolto la lettura che le donne hanno offerto della violenza maschile, ratificando la Convenzione di Istanbul, l’Italia lo ha fatto nel 2013. Nella Convenzione si dice chiaramente che “la violenza contro le donne è una manifestazione dei rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi, che hanno portato alla dominazione sulle donne e alla discriminazione nei loro confronti da parte degli uomini e impedito la loro piena emancipazione”. Si parla della “natura strutturale della violenza contro le donne, in quanto basata sul genere,” del fatto che è “uno dei meccanismi sociali cruciali per mezzo dei quali le donne sono costrette in una posizione subordinata rispetto agli uomini”[4]. La Convenzione impegna gli Stati a politiche integrate di prevenzione, punizione, protezione delle donne che la subiscono.

Anche per monitorare tutto questo è istituita la Commissione d’inchiesta sul femminicidio, nonché su ogni forma di violenza di genere, da questa legislatura bicamerale.

Le cronache che ci hanno avvicinato a questo 25 novembre ci hanno consegnato, come sempre, l’elenco di una mattanza. Gli ultimi casi ci raccontano di giovanissime, a Piacenza, nella provincia di Bergamo.

Se il femminicidio di Giula Cecchettin è stato uno spartiacque nelle coscienze, non possiamo dire lo sia stato nelle politiche pubbliche. Non si vede un salto di qualità delle politiche.

Ancora troppo poco viene fatto sulla prevenzione. Ancora troppo debole è la rete dei centri antiviolenza e delle case rifugio, luoghi essenziali, ma mai finanziati adeguatamente.

Probabilmente burocraticamente arriverà il nuovo Piano strategico nazionale contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, che con la legge di bilancio 2022 ha smesso di essere straordinario, per il momento siamo fermi a quello scaduto nel 2023. Aspettiamo ancora i decreti attuativi della legge sulle statistiche, approvata nel 2022. Il tanto sbandierato progetto Valditara di educazione al rispetto latita e in ogni caso tradisce il tipo di intervento che servirebbe, non solo perché pensato per le ultime classi e facoltativo. Tradisce perché viene svanisce la lettura di genere. Si parla di rispetto, di bullismo. Non si sconfigge la violenza cancellando la questione di genere. Questo governo, del resto, anche su Caivano ha finito per parlare genericamente di devianza minorile causata da ambienti degradati, rimuovendo che l’episodio da cui si era originata la necessità di un intervento in quel territorio era uno stupro di gruppo reiterato

Purtroppo, non ci deve stupire che sull’educazione tutto sia fermo. Le parole pronunciate dal ministro dell’istruzione Valditara alla cerimonia di presentazione della Fondazione Giulia Cecchettin, stonate e fuoriluogo in una cerimonia importante ed emozionante, negano la radice patriarcale della violenza. Riducono il patriarcato a un fatto giuridico superato con il diritto di famiglia del 1975, peccato si sia dimenticato che sulla trasmissione del cognome materno nonostante la Corte costituzionale nel 20222 abbia fatto decadere l’automatismo della sola trasmissione del cognome del padre ai figli, il Parlamento non ha ancora approvato le norme che regolano la trasmissione egualitaria del cognome.

Ne stiamo discutendo in Senato, ma con tanta fatica. Soprattutto Valditara ha cercato di scaricare sull’immigrazione illegale la violenza maschile contro le donne. Ecco trovato il vero nemico. Altro che educazione all’affettività nelle scuole, quello che al ministro interessa è alimentare la campagna sulla paura dello straniero. A suggello di queste affermazioni è arrivata la copertura politica della prima donna Presidente del Consiglio, che ha confermato il nesso tra violenza contro le donne e migranti.

Passa in secondo piano la necessità ad esempio dell’educazione all'affettività, di progetti promossi con le donne che lavorano nei centri antiviolenza.

Il cambiamento necessario è innanzitutto culturale, troppi ragazzi e uomini non sanno convivere con la libertà delle donne.

Lottare contro la violenza significa impegnarsi per affermare la cultura del consenso, il rispetto dell’autonomia delle donne, della loro libertà su di sé e sul proprio corpo.

Ancora oggi la nostra libertà è una sfida in un mondo segnato da rigurgiti patriarcali.

Sen. Cecilia D'Elia

Vicepresidente della Commissione Parlamentare D'inchiesta sul Femminicidio

 


[1]
Cristina Rivera Garza, L’invincibile estate di Liliana, edizioni SUR, Isola del Liri (Fr), 2023, pp. 315

[2] Annalisa Camilli, Come si racconta un femminicidio, in Internazionale, 15/3/2024, https://www.internazionale.it/notizie/annalisa-camilli/2024/03/15/femminicidio-cristina-rivera-garza-invincibile-estate-liliana

[3] Susanna Chavez Castillo, prima tempesta, non una donna in meno non una morta in più, edizioni Sur, 2024, Isola del Liri (Fr), pp.111

[4] https://www.istat.it/it/files/2017/11/ISTANBUL-Convenzione-Consiglio-Europa.pdf

22 novembre 2024