Così il presidente della Repubblica ieri nel suo Intervento alla Cerimonia per lo scambio degli auguri di fine anno con i rappresentanti delle istituzioni, delle forze politiche e della società civile.
Di seguito l'intervento integrale del Presidente Sergio Mattarella:
"Ringrazio il Presidente del Senato per le sue considerazioni e per gli auguri che mi ha rivolti, che ricambio, con il saluto più cordiale, anche al Presidente della Camera, al Presidente del Consiglio, al Presidente della Corte costituzionale e a tutti i presenti,
In queste giornate che ci avvicinano al nuovo anno siamo attraversati da sentimenti contraddittori: da una parte il bisogno di condividere la speranza per un futuro di serenità e di pace, cui si affiancano le prospettive che le scoperte della scienza offrono all’umanità. Dall’altra la profonda preoccupazione di un tempo caratterizzato da guerre e violenze che rendono incerto l’orizzonte del mondo intero.
Ho avuto modo, nei giorni scorsi, incontrando i nostri ambasciatori e il corpo diplomatico accreditato, di soffermarmi sui punti di crisi che caratterizzano lo scenario mondiale e sull’incertezza prodotta dal venir meno dell’equilibrio internazionale realizzato a partire dal secondo dopoguerra. Quell’equilibrio non c’è più ma un nuovo assetto stenta a realizzarsi.
Dopo l’aggressione russa all’Ucraina nuovi fronti di crisi sono esplosi, in una concatenazione che allarga il conflitto dall’Europa al Medio Oriente, moltiplicando rapidamente gli scenari di guerra. Sarebbe miope non vedere quel che lega in un’unica trama questa tragica condizione.
Non è più il tempo del confronto tra due blocchi, quello dell’epoca della cosiddetta “guerra fredda”, nel quale la corsa agli armamenti militari, e in particolare alle dotazioni nucleari, era contenuta da una intensa iniziativa politico diplomatica capace di evitare pericoli di conflitto aperto.
Oggi prevale il conflitto. La politica e la diplomazia appaiono sovente accantonate dalla scelta delle armi, operata da chi ha dato avvio alla guerra. Le istituzioni sovranazionali ne risultano indebolite.
Le nostre nuove generazioni si confrontano con stupore e disorientamento con le immagini e le parole della guerra.
Occorre una approfondita riflessione sui danni che questa deriva emotiva può produrre nel lungo periodo sulle donne e sugli uomini di domani, sui loro sentimenti, sulla loro percezione della realtà e sul modo di organizzare la convivenza.
Non intendo riferirmi soltanto alle popolazioni che stanno vivendo sulla loro pelle le ferite dei conflitti. Ma su tutti noi. Perché le immagini trasmesse dalle guerre seminano in profondità, anche in chi non ne è direttamente coinvolto, paura, inimicizia, divisione, odio, barriere di ogni tipo.
Abituandosi a convivere con l’odio si rischia di diffonderlo, di renderlo inestinguibile.
Qualcosa, purtroppo, è già cambiato. Credo che possa essere reale un nesso tra quei sentimenti e il crescere della violenza intorno a noi, nelle nostre società.
Cicerone affermava che la storia è maestra di vita. Eppure talvolta siamo presi dal dubbio che questa maestra non venga ascoltata, come quando, nel cuore dell’Europa, assistiamo al ritorno di ombre che pensavamo definitivamente superate.
Occorre reagire, per riaffermare con forza e convinzione le ragioni della pace, della civiltà, della convivenza, di un mondo libero, solidale, interdipendente. Obiettivi per i quali il Governo è impegnato – come è avvenuto anche con l’efficace presidenza del G 7 – nella ricerca del dialogo e della collaborazione, con attenzione particolare nei confronti dei Paesi del Sud del mondo.
Non possiamo tornare indietro, non possiamo rassegnarci al disordine e al conflitto permanente.
La pace e la cooperazione sono sempre possibili.
Su questa frontiera oggi misuriamo la vitalità e la forza delle nostre democrazie, della civiltà del diritto, dei valori di libertà, di giustizia, di uguaglianza che sono stati e sono i mattoni con cui abbiamo costruito la nostra pacifica convivenza.
Perché anche le nostre società, quelle del mondo occidentale, che per molti decenni sono state la base e il baluardo più forte di questi valori, appaiono sfidate da insidiosi fattori di rischio.
Si registra ovunque un fenomeno di evidente, progressiva polarizzazione che tocca tanti aspetti della nostra convivenza.
Appare sempre più difficile preservare lo spazio del dialogo e della mediazione all’interno di società che sembrano oggetto di forze centrifughe divaricanti, con una pericolosa riduzione delle occasioni di dialogo, di collaborazione, di condivisione.
Si tratta di una dinamica che non riguarda soltanto la politica ma la precede e va molto oltre. Tocca ambiti sociali, economici, culturali, persino etici.
Il pluralismo delle idee, l’articolazione di diverse opinioni rappresentano l’anima di una democrazia.
Questo è il principio cardine delle democrazie delle società occidentali
Ma sempre più spesso vi appare la strada di una radicalizzazione che pretende di semplificare escludendo l’ascolto e riducendo la complessità alle categorie di amico/nemico.
Quando si innescano conflitti che feriscono e lacerano una società; quando si cerca di sostituire alla forza della ragione la violenza o la prepotenza del più forte; quando si alimentano e si giustificano diseguaglianze crescenti e insopportabili occorre riflettere per riprendere un percorso costruttivo.
Si rischia che non esistano ambiti tenuti al riparo da questa tendenza alla divaricazione incomponibile delle opinioni. Sul cambiamento climatico e le politiche ambientali necessarie a contenerlo e a tutelare il pianeta.
Sul valore della scienza, della ricerca, sull’efficacia dei numerosi vaccini che hanno salvato milioni di vite umane da malattie mortali o invalidanti.
Temi così delicati e decisivi per il futuro che richiederebbero seria e serena riflessione comune, aperta alla comprensione di ogni aspetto, sono divenuti veri e propri terreni di scontro. E perfino motivo di violenza.
Conflitti alimentati e amplificati da un uso distorto e irresponsabile dei social media che, talvolta, divengono strumenti perversi di divisione, di condizionamento acritico, di deliberato travisamento della realtà, contraddicendo il loro autentico ruolo.
Le faglie di rottura sono molteplici, diffuse. E toccano, come ho ricordato, ambiti diversi.
La concentrazione in pochissime mani di enormi capitali e del potere tecnologico, così come il controllo accentrato dei dati – definibili come il nuovo petrolio dell’era digitale - determinano una condizione di grave rischio.
Gli effetti sono evidenti. Pochi soggetti – non uno soltanto, come ci si azzarda a interpretare - con immense disponibilità finanziarie, che guadagnano ben più di 500 volte la retribuzione di un operaio o di un impiegato. Grandi società che dettano le loro condizioni ai mercati e – al di sopra dei confini e della autorità degli Stati e delle Organizzazioni internazionali – tendono a sottrarsi a qualsiasi regolamentazione, a cominciare dagli obblighi fiscali.
Sembra che – come in una dimensione separata e parallela rispetto alla generalità dell’umanità – si persegua la ricchezza come fine a sé stessa; in realtà come strumento di potere molto più che in passato perché consente di essere svincolati da qualunque effettiva autorità pubblica.
A questi fenomeni si aggiunge il timore che si faccia spazio la tentazione di un progressivo svuotamento del potere pubblico. Fino ad intaccare la stessa idea di stato per come l’abbiamo codificata e conosciuta nei secoli.
Un esempio. Lo stato moderno si è fondato sul monopolio dell’uso della forza militare e della moneta. Ebbene, questi due pilastri sono oggi messi in discussione dalla prospettiva di una progressiva privatizzazione del potere pubblico, dall’iniziativa di potenze finanziarie private, capaci di sfidare le prerogative statuali anche su quei due fronti. Proprietari di immense ricchezze che oggi hanno di fatto il monopolio in diversi settori fondamentali. E costruzione di circuiti monetari paralleli, privati.
Chi può garantire che questo trasferimento di potere dalla sfera pubblica a quella privata abbia come fine la garanzia della libertà di tutti? La sicurezza di tutti? I diritti di ciascuno? Il bene comune inteso come bene di ogni persona, nessuna esclusa?
Questa garanzia oggi dipende da una sola condizione: la tenuta e il consolidamento delle istituzioni democratiche, unico argine agli usurpatori di sovranità.
Ricordo parole con cui Karl Popper sottolinea come si abbia bisogno della libertà per impedire che lo Stato abusi del suo potere e si abbia bisogno dello Stato per impedire che ci si sottragga alle regole liberamente stabilite abusando di quella libertà.
Le democrazie occidentali hanno assicurato, soprattutto a partire dal dopoguerra, uno sviluppo capace di tenere assieme diritti individuali e interessi collettivi in un quadro di coesione sociale, libertà, crescita civile, solidarietà, anche internazionale. Come è storicamente dimostrato dall’integrazione del nostro Continente, dall’Unione Europea.
Cosa ha progressivamente indebolito questo modello agli occhi di parte delle pubbliche opinioni?
Alcuni studiosi hanno parlato di post democrazia.
Si insinua nelle nostre opinioni pubbliche il dubbio che il potere democratico sia debole, inefficiente, lento, inadeguato a governare realtà in veloce evoluzione. O addirittura sia un fattore penalizzante nella competizione con sistemi non democratici. È singolare e contro la realtà che si trascuri come nelle democrazie le decisioni assunte, sulla base del consenso liberamente espresso dai cittadini, siano ben più salde e affidabili.
Bisogna amare la democrazia.
Bisogna prendersene cura.
È garanzia di libertà, promuove benessere e sviluppo, costante ricerca della pace. Obiettivi, questi, negati dai regimi autoritari, incapaci di dare risposte alle speranze delle persone e, in realtà, assai meno saldi e forti di quanto vorrebbero far credere.
Evitando che conflitti e radicalizzazioni, artificialmente alimentate da chi pensa in tal modo di ottenere spazio e visibilità, riescano a produrre una desertificazione del tessuto civile che lascerebbe campo libero ad avventure di ogni tipo.
Vorrei dire ai più giovani, che governeranno il futuro: quel che sta cambiando attorno a noi presenta un grande fascino. Le possibilità offerte dalle tecnologie digitali, l’intelligenza artificiale, l’idea di una “connessione” permanente che ci fanno sentire al centro del mondo. Tutto questo apre potenzialità straordinarie, positive, di grande valore, a condizione che non perdiamo la misura della nostra umanità.
E la nostra umanità si esprime anzitutto in relazione. Nel vivere insieme agli altri. Nel condividere. Nel fare comunità.
Le nostre democrazie hanno bisogno di questa umanità, di queste relazioni, di rinnovata partecipazione che torni ad animare e a dare valore allo spazio pubblico, alla dimensione comunitaria.
È questa l’unica, impegnativa e concreta alternativa alle lacerazioni delle nostre società, allo svuotamento di senso, alla disaffezione, alle mille solitudini che abitano le nostre città.
Leggo con queste lenti il crescente e preoccupante fenomeno dell’astensionismo, registrato nelle tornate elettorali da diversi anni a questa parte.
Una democrazia senza popolo sarebbe una democrazia di fantasmi.
Una democrazia debole.
È necessario operare per recuperare fiducia, adoperandosi prima di tutto, per ricostruire il rapporto tra persone e istituzioni.
Perché le istituzioni vivono della partecipazione e dell’impegno personale.
La democrazia non si esaurisce nelle sue procedure: è impegno, passione, senso della comunità, richiede che si contribuisca alle scelte, a ogni livello.
Anche per questo è necessario sostenere il pluralismo, nelle articolazioni sociali come nell’informazione, non affidando soltanto alle logiche di mercato quel che è prezioso per la qualità della convivenza e per una piena cittadinanza.
Sovente parliamo della stabilità come di un fattore determinante del patrimonio di credibilità e di buona reputazione di un Paese.
E come si è detto la stabilità è alimentata da istituzioni efficienti.
Da istituzioni in grado di assumere decisioni tempestive.
Dal consenso dei cittadini.
Da una società civile che sa impegnarsi e crescere, perché sa che la coesione si nutre di lavoro ed è incoraggiante registrare segnali positivi nell’andamento dell’occupazione.
Ma ci sono, prima ancora, fattori che non dobbiamo sottovalutare: valori comuni e condivisi, cultura, sentimenti popolari che ci fanno riconoscere come un unico popolo, legato da un comune destino.
Questo patrimonio “immateriale” è prezioso per quella unità morale che è presupposto per una convivenza ordinata, per una Repubblica forte, per un Paese stabile e di prestigio nel mondo.
Queste doti sono emerse in tante circostanze. Di fronte alle emergenze. In occasione di catastrofi che feriscono il Paese. O negli anni bui del terrorismo. O, recentemente, quando abbiamo dato prova di straordinaria solidarietà nel combattere la pandemia.
Come un fiume carsico questo patrimonio, costituito dalla nostra unità morale, si manifesta nei momenti più difficili.
È avvenuto più volte nella nostra storia.
Non è soltanto memoria.
Cosa significa concretamente rispettare e preservare questa unità?
Anzitutto vuol dire vivere la Costituzione nella sua attualità. Avere come riferimento sicuro i suoi valori fondativi: la libertà, l’uguaglianza, la giustizia, la solidarietà. I diritti inalienabili di ogni persona.
Vuol dire anche riconoscere che vi sono interessi nazionali che richiedono la massima convergenza. Ad esempio il rispetto dei trattati e delle alleanze internazionali, la difesa e la sicurezza dei nostri concittadini e delle infrastrutture strategiche, la salvaguardia dell’ambiente e la messa in sicurezza dei nostri territori. Non possiamo dividerci su questi obiettivi, che sono inevitabilmente di lungo periodo e vanno dunque perseguiti con un impegno che va oltre le maggioranze e le opposizioni di turno.
Va sempre rammentato un punto fondamentale: il rispetto delle istituzioni nei confronti di chi ne ricopre il ruolo. Così come coloro che rivestono responsabilità istituzionali, a cominciare dal Presidente della Repubblica, sono tenuti a esercitarle sapendo che le istituzioni sono di tutti. Che il servizio che si svolge è a garanzia della dignità di ognuno, a prescindere dall’appartenenza politica.
Abbiamo, a tutti i livelli, esempi efficaci, quotidiani, di come questo sia non solo possibile, ma praticato.
L’ho visto, ad esempio, di recente, nella passione dei tanti sindaci che ho incontrato all’assemblea dell’Anci. Le diverse appartenenze politiche, le legittime e preziose differenze delle identità culturali - che sono l’essenza della dialettica democratica - non impediscono di ricercare e trovare convergenze e unità su alcuni grandi temi. Nell’interesse dei cittadini.
Questa attitudine, questa miniera di valori e di sentimenti è più diffusa di quel che si pensa e ho avuto modo, anche nel corso di quest’anno, di constatarlo personalmente in numerose occasioni. Anima tante nostre comunità. Anima tante espressioni della società civile, del mondo associativo delle professioni, dell’economia, del mondo del lavoro: canali di partecipazione e costruzione del bene comune, con cui è prezioso il dialogo.
Lo possiamo chiamare, senza eccessi retorici, spirito di servizio. Passione civile. Senso del dovere.
Quello manifestato, ad esempio, malgrado l’esposizione a forti rischi, dai nostri militari in Unifil in Libano.
Così come tanti altri, cui penso con riconoscenza, nei Corpi dello Stato e nella società civile.
Quel senso del dovere che richiede a tutti coloro che operano in ogni istituzione, di rispettare i limiti del proprio ruolo. Senza invasioni di campo, senza sovrapposizioni, senza contrapposizioni.
La Repubblica vive di questo ordine. Ha bisogno della fiducia delle persone che devono poter vedere, nei comportamenti e negli atti di chi ha responsabilità, armonia tra le istituzioni.
Anche per poter rimuovere il disorientamento e il senso di incertezza per il futuro che affiora sovente e che riguarda numerosi aspetti della vita, dal lavoro, alle cure per la salute, alle prospettive per i giovani, alla situazione internazionale. Sentimenti che verrebbero ampliati da un clima di costante ricerca di contrapposizioni.
L’augurio che voglio fare a tutti noi - che qui rappresentiamo le diverse articolazioni che compongono la nostra Italia - è di poter essere all’altezza delle nostre responsabilità. Di riuscire a farvi fronte con lo stesso impegno e la stessa fiduciosa determinazione con la quale tantissimi nostri concittadini, affrontando difficoltà, mandano avanti, ogni giorno, le loro famiglie e le nostre comunità.
Auguri a tutti per il Natale e il nuovo anno".
18 dicembre 2024