Lo scandalo: vabbè tutto, ma che due donne possano amarsi, in ogni senso del termine, che mostrino la superfluità sessuale del maschio, e no, questo proprio no! E poi le riprese di sesso lesbico non sono sempre state a uso e consumo del pornografo-maschio? Che le cose non siano così è una rovina per i costumi morali!
Ma il film non verrà per questo sequestrato, perché a prevalere persiste l’amore, e, comunque, una passione e passionalità che nulla condivide col peraltro celebrato (tanto per fare un esempio di scandalo) Ultimo tango a Parigi, col suo «esasperato pansessualismo fine a se stesso», di cui fu accusato.
Né vi sono un Bertolucci e un Brando che si accordano per una scena «realistica» di sodomia eterosessuale con burro, non contemplata nel copione, all’insaputa di Maria Schneider, sodomia subita da Maria Schneider che ha sempre giudicato quella scena una vera e propria umiliazione.
Sì, anche qui il regista è un uomo. Tunisino di nascita, trasferitosi da giovanissimo a Nizza. Regista uomo, dopo Cous cous, ora di un amore lesbico, amore che qualcuno doveva portare sugli schermi, anche, ma non solo, per riconoscere alcune sacche di realtà lesbo-chic. Chissà, magari il suo nome «esotico», Abdellatif Kechiche, e la sua vittoria a Cannes col lesbismo insinueranno maldicenze in molti.
Al di là del regista, della sua natalità, della possibilità che cavalchi una moda, della sua proiettività semi-estetico-maschile, credo, sinceramente, una fortuna quella capitata ad Adèle (Adèle Exarchopoulos) di riuscire a superare la consueta fissazione (le donne devono flirtare e andare con uomini: c’est la vie). A volte, l’incontro con una Emma (Léa Seydoux) può non bastare, anzi, riesce a essere foriero di altre fissazioni e pregiudizi. Invece, in questo caso, è proprio una donna intelligente, dai capelli blu, a volere conoscere Adèle e a conoscere con lei un desidero unico, congiunto all’amore lesbico, a condurre Adèle (non senza alcuni scontri con coetanei e coetanee: umiliazioni ben diverse da quella subita da Maria Schneider) a ricercare il proprio sé di donna, in un divenire adulto.
È una fortuna perché può accadere di non accorgersi mai dei veri e propri desideri, del vero e proprio essere se stesse, del «questo è amore. This is love» scritto sulla schiena, con poesia e una filosofia (che ribalta Sarte), come nel poster della trasposizione inglese del film, Blue Is the Warmest Colour. È una fortuna perché accade di illudersi di vivere intere vite amorose entro la comoda eterosessualità, quando, invece, la sessualità è quella che è, mentre dell’amore, della sua complessità, delle sue intensità, della sua costante aspirazione alla bellezza e alla profondità si giunge a conoscere ben poco.
E così si finisce magari con un qualche umiliatore alla Marlon Brando, o ci si costringe a rintracciare qualcosa nell’omologazione, attraverso il «così fan tutte» per adeguarsi al «così fan tutti», o ci si rifugia nel turismo sessuale femminile, come accade in Paradise: Love di Ulrich Seidl (lo scorso anno a Cannes) e prima ancora in Verso Sud, di Laurent Cantet con (la pur sempre straordinaria) Charlotte Rampling.
Non solo per il colore dei capelli di una delle protagoniste, ma soprattutto per il blu e ciò che evoca, il titolo Le Blue est une couleur chaude dell’intelligente e capace graphic novelist Julie Maroh rende ben più del titolo francese del film, La vie d’Adèle. Ha comunque vinto a Cannes focalizzandosi su cuore, crescita, razionalità, su una dimensione umana, quella degli amori omosessuali, che in Francia dallo scorso 18 maggio si possono concretizzare in matrimoni (però, le manifestazioni contro quest’istituzione matrimoniale si fanno sempre più feroci).
E da noi in Italia? L’Italia rimane, a ogni buon conto, feroce, arretrata, troppo: qui abbiamo davvero bisogno di sperare che le cose cambino e che stiano cambiando. Il nostro parlamento, in nome di umanità, civiltà, egalitarismo, dovrebbe agire nell’immediato per stabilire equità ed eguaglianze, finora negate a causa di eterosessismi malati. Attraenti le due attrici sulla Promenade de la Croisette, nel film appaiono due donne, come tante altre, non particolarmente sessualizzabili dagli e negli immaginari etero-maschili.
Quasi tre ore di film, che ci si augura, passi alla storia non come il film scandalo, bensì come un film di validi affetti, dialoghi, sentimenti, un film d’amore, di scelte deliberate, giovani, passionali, intellettuali, in cui la sessualità non viene nascosta, né dovrebbe turbare solo perché non-eterosessuale.
Un film di portata internazionale, giustamente premiato per la sua coraggiosa «love story», no, mi spiace non perché «l’amore lesbo eccita Cannes», non perché «il film del regista tunisino ha scandalizzato per le torride scene di sesso tra le protagoniste. Eccezionalmente premiate anch’esse con la Palma d’oro»: forse il Giornale esprime poca cultura e fantasia e abbonda di pregiudizi pure nei titoli. La vie d’Adèle non rappresenta solo l’espressione di una qualche fazione giovanilistica ribelle (a tante abbiamo assisto e di tante abbiamo patito, pure nei «vecchi»).
Credo che possa anzi rappresentare l’autonomia di ognuno di noi, nel riconoscere chi si ama e nel riconoscimento dell’amore altrui (etero o omo, che sia). Se poi ci saranno i soliti maschi voyeur e maniaci che leggeranno il film in chiave porno, e donne etero–fondamentaliste conformiste, che dire? È la loro sventura.
Nicla Vassallo
29 maggio 2013