La legge 194. Trentacinque anni portati abbastanza bene di Mariella Gramaglia, da La Stampa (prima puntata)

L’inchiesta sull’interruzione volontaria di gravidanza realizzata da Mariella Gramaglia e pubblicata in tre puntate sul quotidiano La StampaPrima puntata.


Ha trentacinque anni. Quasi metà di una vita. Odiata, amata, combattuta, difesa, la legge 194 per l’interruzione di gravidanza, nella forma, è rimasta uguale a se stessa, ma nella sostanza? Dall’anno del rapimento di Aldo Moro e dell’elezione di Sandro Pertini al Quirinale a quello di  Beppe Grillo e delle larghe intese, che tipo di acqua è passata sotto i ponti?

Prima di tutto si abortisce molto di meno. Nel 2012 abbiamo raggiunto il minimo storico: 105.968 interruzioni, meno 4,9% rispetto al 2011, meno 54,9% rispetto al lontano inizio. E in nessun paese le minorenni restano incinte così poco.

In secondo luogo, dunque, la famiglia, anche in questo caso, tiene stretti i suoi legami e non viene disgregata dalla maggiore laicità della cultura corrente. Abbiamo il tasso di abortività fra le minorenni più basso del mondo sviluppato (4.5 per mille) e, cosa ancor più straordinaria, la grande maggioranza arriva in ospedale con il consenso dei genitori, senza passare per il giudice tutelare. Più spesso in Sicilia e in Sardegna (83,6 per cento) che nel profondo Nord (Valle d’Aosta: 62,5). “Mai visto una ragazzina abbandonata a se stessa – dice un medico napoletano – se non ci sono i genitori, se non c’è il fidanzatino, almeno una zia  non manca mai”. Prendiamo il campione fino a 20 anni di età: la comparazione internazionale parla da sola. In Italia 6.4 per mille giovanissime donne interrompono la gravidanza, in Spagna 13.7,  in Francia 15.2, in Usa 19.8, in Svezia 19.8.

 

Se non contassimo le immigrate, che pesano circa per il 30 per cento, il decremento sarebbe ancora più rilevante. Ma, oltre a essere più disagiate e meno informate, sono anche mediamente assai più giovani delle italiane. La crisi dell’Est e l’apertura delle frontiere cinesi, paesi disabituati alla contraccezione, hanno avuto la loro parte. Per alcuni anni si è temuto un incremento esponenziale (8967 interruzioni nel 1995, 37.489 nel 2011) ma oggi gli stili di vita sono più omogenei ai nostri e, da un paio d’anni, la cifra si è stabilizzata intorno a quella del 2011, circa 40.000 interventi per le donne immigrate nel nostro paese. Più meno che più.

Tutto bene, dunque? No. Lasciando per un momento da parte chi ritiene che ogni singola interruzione sia un ferita etica,  restiamo alle questioni pratiche.

L’obiezione di coscienza è ormai un fiume in piena, anche se l’aborto farmacologico (Ru 486) sta scompaginano le carte. Si sottraggono all’applicazione della legge, comunque, più di due ginecologi su tre. Nel Sud si arriva a percentuali da boicottaggio, quasi il 90 per cento. L’anno nero, quello in cui l’obiezione aumenta più di dieci punti è il 2005. Perché?

In parte va in pensione la generazione dei medici dell’epopea, quella  che ha affiancato il movimento femminista, che ha vissuto lo sdegno contro l’aborto clandestino. Mario Campogrande, primario stimatissimo del S.Anna di Torino, che ha creato attraverso colleghi e allievi, la via Subalpina alla 194, gentile, attenta alle pazienti, ma anche barricadiera quando ne vale la pena (come nel caso della sperimentazione dell’Ru486 da parte del dottor Silvio Viale) ricorda con nostalgia gli anni lontani: “ Io presi posizione fin dal tempo della preparazione della legge: partecipavo a incontri con le donne, dibattiti, giravo l’Italia”.

 

“Se ho pagato questa scelta? Onestamente no, mai. Io sono stato fortunato perché nel 1978 ero già aiuto. Partecipai al concorso da primario a Cuneo, non una città facile. Tutti sapevano che non ero obiettore, ma vinsi il concorso senza problemi e poco dopo divenni primario al Sant’Anna. Oggi sono presidente nazionale dell’associazione ostetrici e ginecologi. Sono soddisfatto della mia carriera, ma mi manca l’entusiasmo e la determinazione delle donne di allora. I medici giovani sono molto soli”.

Tuttavia il 2005 è anche l’ “annus horribilis” della cultura laica, quello in cui regnante Silvio Berlusconi e officiante il Cardinal Camillo Ruini, sinistre e radicali perdono il referendum contro la legge 40 sulla fecondazione assistita, che vieta la diagnosi pre-impianto e la fecondazione fuori dal matrimonio. Insomma rovescia l’intera filosofia della 194 (in proposito: Ritanna Armeni, La colpa delle donne. Ponte alle Grazie. 2006). Forse parve a molti medici un cambio di egemonia senza ritorno.

Ma nulla è mai lineare. Il 30 luglio 2009 il Consiglio d’amministrazione dell’Agenzia italiana del farmaco esprime parere favorevole all’uso dell’aborto medico (Ru 486). “A condizione di praticare un’ipocrisia: - mi spiega Michele Grandolfo, epidemiologo e dirigente di ricerca all’Istituto superiore di sanità – le donne infatti dovrebbero restare ricoverate due giorni, ma il 90 per cento firma e si assume la responsabilità di uscire. Il medico non le trattiene, però questo giochino costa. Infatti – aggiunge – bisogna predisporre un piccolo reparto dedicato alla Ru 486”. Il ricorso a questo metodo, praticabile solo fino all’ottava settimana, è ancora molto minoritario, ma aumenta rapidamente: 3836 interventi il primo anno, più del doppio nel 2011. Secondo Grandolfo è la speranza del futuro: gli aborti sarebbero più precoci e quindi meno traumatici per la donna e per il medico e il peso sulla struttura sanitaria  più leggero.

 

Ma l’epidemiologo, benché il suo mestiere siano i numeri, ci tiene ad aggiungere altro. “Io vorrei che si ricordasse sempre l’importanza della legge sui consultori (29 luglio 1975): doveva esserci un consultorio ogni 20.000 abitanti, in realtà, tranne in Piemonte (e anche lì a organici ridotti), la legge non è mai stata attuata; i consultori sono in media uno ogni 100.000 abitanti”. Per Grandolfo quello che conta è “l’empowerment” delle donne: “Bisogna avere fiducia nell’autodeterminazione. Le donne sono soggetti forti, vanno favorite le loro competenze”.  Non sopporta, per esempio, che si dica comunemente che il medico “certifica” o “autorizza” l’interruzione di gravidanza. E’ la donna che sceglie, il medico si limita ad “attestare”.

Intanto si vive in un limbo tra civiltà e arretratezza. Le liste d’attesa esistono: non di rado superano i 15 giorni e talvolta i 22. Gli aborti clandestini vengono stimati fra i 10.000 e i 15.000, di cui il 90 per cento al Sud. Qualche mese fa montò un’ansia collettiva anche nei mezzi d’informazione: aumentavano gli aborti spontanei e tutti pensarono a un ritorno delle mammane e dei loro interventi cruenti. In realtà i medici più seri spiegano che è assai aumentata l’età delle donne che tentano una gravidanza e quindi il rischio di aborto sale. Una questione che ha a che fare anche con l’aborto terapeutico, come vedremo.

 

Le pioniere

 

Adele Faccio, ex partigiana, è stata parlamentare del partito radicale e  attivista per i diritti civili. Nel 1973 fu tra le fondatrici del Cisa (centro per la sterilizzazione e l’aborto) e  ne diventò presidente. Applicò all’interruzione di gravidanza gli stessi principi e le stesse pratiche di disobbedienza civile che già i radicali avevano sperimentato nella lotta  contro il servizio militare obbligatorio. Organizzò i viaggi a Londra di donne incinte che volevano interrompere la gravidanza in modo sicuro  e ambulatori italiani (come quello fiorentino di Giorgio Conciani) disposti a testimoniare il loro rifiuto del codice Rocco allora vigente, anche a rischio della repressione.

Per prima fece conoscere il metodo Karman ( dal nome dell’americano Harvey Karman),  basato sull’usterosuzione, un sistema assai più semplice e meno doloroso del raschiamento allora in uso.

Dopo l’irruzione della polizia nell’ambulatorio di Conciani,  il 26 gennaio 1975 si fece arrestare dichiarando pubblicamente di aver interrotto una gravidanza di sua volontà: all’epoca aveva commesso un “delitto contro l’integrità della stirpe” e rimase in carcere trentatré giorni.

Collaborò alla stesura della 194, ma opponendosi a ciò che riteneva un di più  di “statalismo” e cercando - senza successo - di orientare la legge verso la liberalizzazione. Sua è anche l’eredità dell’Aied (associazione italiana per l’educazione demografica), fondata a Milano nel 1953 e finanziata anche da Adriano Olivetti. Detestata all’epoca sia dal mondo cattolico che dai comunisti, l’associazione creò una rete di consultori laici che gode ancora oggi di ottima salute  (Gianfranco Porta, Amore e libertà, Storia dell’Aied, Laterza 2013).

Poncho e capelli all’Anita Garibaldi, Adele Faccio, meravigliosamente anticonformista, era la negazione dell’immagine televisiva tipo della parlamentare di oggi .

Nell’ultimo periodo della vita si è dedicata alla pittura. E’ morta nel 2007 a 86 anni.    

 

Nel 1971 Simonetta Tosi ha solo 34 anni. Eppure è già una professionista di punta. Laureata in Italia e poi alla Harvard Medical School di Boston, è ricercatrice di biologia cellulare al Centro nazionale delle ricerche.

E’ a questo punto che il clima di quegli anni, l’interesse per la medicina sociale e infine l’incontro con il femminismo cambiano la sua vita come un turbine.

Nel 1973 fonda il Consultorio femminista di via dei Sabelli nell’antico quartiere di San Lorenzo a Roma. Le sue colleghe conservano ancora i suoi taccuini: girava casa per casa, in una zona all’epoca povera, spiegando le tecniche anticoncezionali e cercando di prevenire gli aborti clandestini. Non sempre era ben accolta.

Nel 1975, quando viene approvata la legge sui consultori, non si sottrae al rapporto con le istituzioni pubbliche, anzi le incalza ad una concezione non gerarchica e chiusa del consultorio, tuttavia per molto tempo non chiude la sua esperienza autogestita che ha fatto scuola in tutta Italia.

Nel 1978, quando è approvata la legge 194, comincia a lavorare all’Istituto superiore di Sanità e mette a punto un sistema di monitoraggio che, in larga misura, è usato ancora oggi per le relazioni annuali dei ministri.

 

Nel frattempo si ammala gravemente e nuore nel 1984. In quegli anni, quando le riunioni si facevano lunghe e farraginose, aveva preso l’abitudine di mettere in guardia: “Guardate che io ho fretta”. Solo gli amici più cari capivano cosa volesse dire.  

 

Mariella Gramaglia

23 novembre 2013