Trentacinque anni dopo l’approvazione della 194 tutte le donne incinte osservano, ecografia dopo ecografia, un embrione che diventa feto. Trentacinque anni dopo i neonatologi suggeriscono la “canguro terapia” fra le braccia della mamma per tentare di tenere in vita una creatura di ventitré settimane. Trentacinque anni dopo custodiamo cuccioli non umani con una tenerezza inedita. Trentacinque anni dopo un papa chiamato Francesco ha stretto a sé un bambino anancefalo, ma ha anche detto di fronte alle scelte più intime della vita “chi sono io per giudicare?”. Terza puntata.
Un papa che ha voluto sottolineare lo strazio dell’aborto terapeutico e l’eroismo dell’accoglienza di un figlio sofferente, ma ha preferito tacere sulle scelte delle donne nella prima fase di gravidanza, adducendo il motivo che già molto la Chiesa ne ha parlato.
Claudia Mancina, filosofa laica docente di Etica alla Sapienza di Roma, membro del comitato nazionale di bioetica, la pensa così: “Io ho cominciato a riflettere su queste cose molti anni fa (Oltre il femminismo. Il Mulino. 2002); siamo cambiati tutti, le donne, i laici. Percepiamo il feto in modo diverso anche per motivi sociali. I bambini sono tanto pochi e preziosi. Credo che parlare di aborto terapeutico dopo i 90 giorni sia un’ipocrisia che nasconde una difficoltà di legiferare. Io posso essere favorevole solo in caso di malformazioni veramente molto gravi. Non ne traggo conclusioni legislative, non metto in discussione i principi della legge, ma il principio giuridico non esaurisce la dimensione morale e psicologica”.
Dell’Ru 486 che pensa? “La polemica contro il farmaco mi sembra del tutto infondata. Qualsiasi persona di buon senso dovrebbe preferire che l’interruzione di gravidanza avvenga in una fase precoce”.
Papa Francesco cosa cambia?“E’ un cambiamento di atteggiamento, non dottrinale e la Chiesa ha tutto il diritto di mantenere le sue posizioni; non le cambierà perché sono queste le questioni su cui si fonda il suo potere sulle coscienze. Tuttavia se la compassione e la comprensione inducessero a un dibattito civile e non a un atteggiamento terroristico sarebbe un bel passo avanti”.
Sul fronte opposto Carlo Casini, fondatore del Movimento per la vita, parlamentare di lungo corso, si considera più un militante che un politico o un intellettuale. Ha da poco inventato, insieme a Militia Christi e ad altre organizzazioni cattoliche una nuova iniziativa transnazionale. Si chiama “Uno di noi” (www.oneofus.eu). Me la faccio raccontare: “In base all’art.11 del trattato di Lisbona, se si raccolgono un milione di firme in almeno sette stati, si ha il potere di indicare alla commissione europea e al parlamento un atto legislativo. Insomma, tipo le nostre leggi di iniziativa popolare. Noi non diciamo una parola sulla sovranità dei singoli stati, ma chiediamo che l’Unione non finanzi la ricerca sugli embrioni, né le organizzazioni non governative che propagandano l’aborto. Siamo orgogliosi: con 1.400.000 firme abbiamo raggiunto il quorum in 15 nazioni, più del doppio della soglia richiesta, dunque siamo in grado di influenzare la legislazione. Non solo nei paesi cattolici, ma anche in quelli ortodossi e protestanti. Pensi che l’ Olanda è la prima”.
Ma da noi l’aborto diminuisce di continuo. “Deve calcolare anche le pillole del giorno dopo e di cinque giorni dopo. C’è comunque un’alterazione dell’endometrio. Così gli aborti aumentano di 400.00 unità. Io sono fiero dei 130.000 bambini che il mio movimento ha salvato dal 1990 a oggi”.
Di questo Papa cosa pensa? “E’ come madre Teresa, va a cercare gli ultimi degli ultimi. E l’essere più piccolo e più povero é il bambino non nato”.
Vittoria Tola, responsabile nazionale dell’Unione donne d’Italia non ci sta all’idea che i cattolici siano militanti più inossidabili delle femministe: “Siamo in pista ogni giorno a battagliare perché i reparti non chiudano, facciamo anche le denunce penali per interruzione di pubblico servizio. No, il Movimento per la vita non è cambiato; a Modena facciamo i picchetti contro i “pregatori” che insultano le donne quando entrano in ospedale. Quello che non sopportano è l’autodeterminazione. A difenderla, però, siamo in tante: i collettivi delle studentesse, le case delle donne, le consulte regionali, le ragazze dell’università. Le più giovani sono quelle più convinte dell’Ru 486”.
E Mercedes Bo, genovese, vicepresidente dell’Aied nazionale: “Io sono una di quelle della prima ora. Mi ricordo ancora una donna del Sud che venne da me in consultorio. Aveva sette figli ed era al ventisettesimo aborto clandestino. Sono ancora oggi stupefatta che fosse riuscita a contarli tutti. E’ da tre o quattro anni che non vedo più tornare le donne al centro dell’Aied per la seconda interruzione. Ormai in Liguria usiamo l’Ru 486 il 25 per cento delle volte e le immigrate, che a Genova città avevano sfiorato il 50 per cento per cento degli interventi, ormai si adeguano ai nostri comportamenti. E’ l’opinione pubblica giovanile che è cambiata: più tormentata, più attraversata dai sensi di colpa”.
Rosetta Papa, da trent’anni nella sanità Campana e autrice di La ragazza con il piercing al naso (Albatros, 2012), un caldo reportage sulle sue esperienze con le donne, ride quando le dico che la Federico II mi è sembrata un orologio svizzero: “Siamo la regione delle mamme bambine, quella con più donne in età fertile e meno consultori, quella del 61 per cento di cesarei, molti senza ragione. I consultori che dovevano orientare le persone più fragili nei quartieri sono dei banali ambulatori ginecologi”.
Insomma, come sempre, il mare non bagna Napoli? “ Le racconto una storiella. Un giorno una mia paziente mi disse: ‘Dottoressa mi piacerebbe tanto fare all’amore sotto la doccia’. E io: ‘Beh fallo, che male c’è?’. ‘E’ che non ho la doccia!’. Ecco lo Stato è come la doccia, per i poveri di qui non c’è mai. La fantasia e la buona volontà non bastano”.
Il dialogo che ha salvato Obama
Il 28 gennaio 2001 sei donne, leader dei due schieramenti del dibattito sull’aborto (tre a capo del movimento pro life e tre di quello pro choice) hanno pubblicato sul The Boston Globe un lungo articolo congiunto intitolato Talking with the Enemy (Parlare col nemico) che svelava gli incontri sistematici tenuti segretamente fra loro nei quasi sei anni precedenti.
Entrambe le parti avevano accettato di incontrarsi per la prima volta all’indomani di una situazione di grave allarme.
Infatti il 30 dicembre 1994 un uomo armato di fucile era entrato nella sede della Planned Parenthood clinic di Brookline, Massachusetts, uccidendo l’impiegata alla reception e ferendo tre altre persone. Risalito in macchina, si era poi recato in un’altra clinica dove di nuovo ha ucciso la giovane donna alla reception e ferito altre due persone. Questo accadimento che ha suscitato un enorme allarme nell’opinione pubblica e angoscia e scompiglio nei due schieramenti, ha indotto le sei leader ad accogliere l’invito della organizzazione Public Conversations Project e della sua direttrice
Laura Chasin, ad una serie di incontri per stabilire fra le due parti rapporti di maggior dialogo in modo da evitare altre tragedie. All’inizio entrambe le parti erano estremamente ambivalenti. Le tre esponenti “pro-vita” temevano che il solo fatto di incontrarsi con le “pro-abortiste” le esponesse all’ accusa di trattare una questione etica alla stregua di una differenza di opinioni. Specularmene le leader pro choice temevano che questi incontri venissero visti come un cedimento alla violenza. I principali motivi di astio reciproco nel primo incontro furono relativi all’uso delle parole: le pro choice si rifiutavano di chiamare pro-life le altre perché sarebbe stato come ammettere di non esserlo. E come chiamare ciò che si sviluppa nel grembo materno? Per le une era “un bimbo non nato” per le altre “un feto”.
Le facilitatrici che accompagnavano il lavoro suggerirono di iniziare i colloqui proprio da questo, dagli “incubi” di ognuna. La fase scongelamento ha aperto la strada alla discussione sulle regole di base per i dialoghi futuri. Ovvero: 1. Fare uso solo di parole accettabili (o almeno tollerabili) da tutte le partecipanti, 2. Non interrompere, non pontificare, non ricorrere ad attacchi personali, 3. Parlare a titolo personale e non come rappresentanti di un’organizzazione, 4. Totale riservatezza degli incontri finché non avessero concordato all’unanimità di renderli pubblici e in che modo. Infine, decisivo e faticosissimo: 5. Concentrarsi sul capire e l’essere capite rinunciando completamente a convincere.
Quando Obama, appena divenuto presidente, fu invitato alla università cattolica di Notre Dame per il discorso inaugurale dell’anno accademico, trovò ad accoglierlo gruppi di contestatori antiabortisti, ma tale contestazione si trasformò in una entusiastica ovazione dopo che nel suo discorso il tema divisivo della possibilità di ricorrere all’aborto fu trattato secondo l’ottica elaborata nella esperienza degli incontri del Public Conversations Project di Boston. (tratto da: Marianella Sclavi, Confronto creativo: dal diritto di parola al diritto di essere ascoltati, Et.al , 2011).
Mariella Gramaglia
25 novembre 2013