Il pensiero della Carta di Sara Ventroni

Oltre l’emancipazione, oltre la liberazione: tra estraneità e voglia di vincere. La relazione di Sara Ventroni al convegno promosso dalla Fondazione Nilde Iotti, Fondazione Gramsci e dal Gruppo Carte delle Donne.

 

Le autrici della Carta delle Donne, oggi.

 

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Alle soglie degli anni Ottanta, dopo l’intensa stagione dei movimenti, le donne danno avvio a una fase di elaborazione teorica prendendo le mosse dalla consapevolezza di aver agito – dentro e fuori le istituzioni – un vero e proprio rivoluzionamento nella politica e nel costume: dalla legge sul divorzio al nuovo diritto di famiglia; dalla legge sulla parità di trattamento salariale alla 194[1].

Tuttavia, proprio i processi di femminilizzazione della società mostrano adesso gli imprevisti risvolti di una “rivoluzione passiva”[2], nella forbice aperta tra la gamma dei diritti acquisiti e “la marginalità nella vita pubblica”[3]. Se infatti da un lato la massiccia presenza delle donne in ogni ambito ha mutato la fisionomia del paese, dall’altro ha fatto emergere, nelle donne stesse, la percezione di una loro omologazione ai modelli maschili; omologazione innescata, paradossalmente, proprio dalla prospettiva emancipatoria.

È, questa, la stagione in cui le donne cominciano a nominare la loro estraneità a un “ordine simbolico”, prima ancora che sociale, che non può garantire agio e autorevolezza al sesso femminile perché si tratta di un ordine fondato su una universalità falsamente neutra, che non le contempla, e dunque non le può significare.

Da diversi fronti, le donne ora si pongono il problema di un loro esserci, costitutivamente, come soggetto sessuato: è il cosiddetto pensiero della differenza, che meriterebbe ben altri approfondimenti ma che qui, per ragioni di sintesi, possiamo circoscrivere alla fortunata ricezione che in questi anni riscontra l’opera[4] della filosofa Luce Irigaray.

Proprio su una diffusa percezione da un lato della forza e dall’altro dell’estraneità, affonda le radici il pensiero della Carta delle donne. Una Carta, è bene dirlo, che non nasce dalla testa di Zeus ma dall’incontro inedito tra donne del Pci, tra comuniste che in passato hanno praticato la doppia militanza e donne che vengono dal femminismo separatista. Le premesse di questo incontro erano già poste.

Nel 1982 il Centro Culturale Virginia Woolf apre i lavori annuali con un testo significativamente intitolato L’indecente differenza[5].

Nel 1983 esce il celebre numero “Sottosopra verde”[6], rivista della Libreria delle donne di Milano, dove si supera il “separatismo statico”, si mette a tema lo scacco tra la voglia di vincere e l’estraneità e si pone la questione di come “tradurre in realtà sociale l’esperienza, il sapere e il valore di essere donne”[7].

Nel 1986 Livia Turco, appena trentenne, dopo un apprendistato nella Fgci e già responsabile delle donne del partito torinese, per volontà del segretario Natta entra nella segreteria del Pci come responsabile della Sezione femminile Centrale con il preciso compito di scatenare, come lei stessa racconta, “la forza delle donne”[8].

Il patto di coscienza tra donne

Tutto inizia il 26 aprile 1986, con l’incidente alla centrale di Chernobyl. L’11 maggio, alla manifestazione contro il nucleare, partecipa anche il movimento femminista romano in uno spezzone separato. È la prima volta che le femministe aderiscono a un corteo “misto”.Con un appello pubblicato sull’“Unità” il 20 maggio, proprio il movimento femminista romano convoca una nuova manifestazione. L’invito è rivolto anche alle donne dei partiti e delle istituzioni. E Livia Turco decide di partecipare.

Anche se gravato da una reciproca diffidenza, questo è il primo momento di incontro. La manifestazione non è infatti indetta sul tema del nucleare ma su quello, apparentemente fuori contesto, della necessità di un “patto di coscienza tra donne”[9].

Partendo dall’individuazione di una comune “miseria simbolica”, le donne ora intendono costruire forza e visibilità attraverso il riconoscimento reciproco: è la cosiddetta pratica dellerelazioni tra donne.

Anche se provenienti da contesti diversi, le donne ora sembrano abitare uno stesso universo linguistico: un lessico criptico necessario a significare qualcosa di nuovo, non immediatamente traducibile nel gergo politico.

In questa fase le donne non solo sembrano intendersi, ma si contaminano. Questa mutua influenza è subito evidente nella relazione[10] che Livia Turco presenta il 13 giugno alla Sezione femminile, dove si cita più volte Bocchetti insistendo proprio su alcuni concetti-chiave: indebitamento, strategia delle relazioni tra donne, miseria simbolica, estraneità.

Dopo la manifestazione di maggio, Livia e il nutrito gruppo[11] della Sezione femminile rilanciano il dialogo[12] organizzando, il 4 luglio, il seminario “Scienza potere e coscienza del limite”[13]. Nel convegno vengono indagati i rapporti tra tecnologia e potere; i fondamenti e la committenza della scienza, il rapporto tra biotecnologia e riproduzione[14]. Il concetto di “coscienza del limite”, che dà titolo all’incontro, non solo mette in discussione il modello di sviluppo e l’onnipotenza simboleggiata dall’uso spregiudicato della tecnica, ma interroga[15] il fondamento falsamente neutro di ogni ambito del sapere e le sue ricadute. La “coscienza del limite” si pone non come un tema tra i temi, ma come vero e proprio “paradigma di pensiero”[16].

Il momento fondativo del “patto tra donne”[17] è la festa dell’Unità di Tirrenia, nel luglio ‘86. Accompagnata da Luisa Muraro, al festival[18] interviene la filosofa Luce Irigaray con una conferenza intitolata Tra morire e uccidere c’è una terza via: vivere. Dopo l’incontro di Tirrenia, il profilo della Carta si va delineando, come si evince dallarelazione[19] di Livia Turco alla Sezione femminile il 6-7 ottobre ‘86, alle Frattocchie.

In questa fase si parla ancora di “Carta programmatica”[20] e non di carta itinerante, ma si delinea già quel doppio livello che poi emergerà nella versione finale del documento: da una parte il nucleo del pensiero, ovvero la differenza sessuale e la strategia delle relazioni tra donne che deve agire come “materiale ingombrante”, come “inciampo” nel partito e nelle istituzioni; dall’altra i contenuti programmatici, da declinare in proposte politiche: il lavoro, il deficit di rappresentanza, la maternità, i tempi di vita, l’ambiente ecc.

La Carta itinerante

Dalle donne la forza delle donne[21]. Con questo titolo viene pubblicata[22], nel novembre del 1986, la Carta itinerante. Il testo è pensato per girare capillarmente dalle federazioni alle sezioni, dentro e fuori il partito: itinerando, appunto, tra le donne.

La divisione della Carta in due parti[23] suscita, però, immediate perplessità: le femministe e alcune donne del partito si riconoscono solo nella prima sezione[24], ravvisando nell’inventario di obiettivi della seconda parte un “annacquamento”[25] della novità della proposta.

Effettivamente, la Carta non nasconde la sua natura anfibia nella giustapposizione di un linguaggio assertivo, da manifesto, di contro un elenco ragionato di proposte programmatiche per “costruire la società umana”.

Al netto di questa ambiguità, la Carta rivela però da subito la portata di una scommessa inedita: agire, da soggetto sessuato dentro un soggetto misto, il partito, a statuto idealmente ugualitario[26]: “siamo donne comuniste”, è l’incipit memorabile.

La Carta inizia a girare[27] suscitando vive discussioni nelle sezioni, come testimoniano i verbali degli incontri conservati nell’Archivio storico delle donne “Camilla Ravera”[28], e numerose iniziative politiche: dalla manifestazione[29] del 13 dicembre a Napoli sul tema “lavorare tutte” (con il sostegno pubblico di Iotti[30] e di molte intellettuali) al convegno del febbraio dell’‘87 “Procreare verso il Duemila” al teatro Niccolini di Firenze.

Il nodo della rappresentanza

Le elezioni anticipate del 1987 imprimono un’improvvisa accelerazione e le comuniste si immergono nella campagna elettorale: scorrendo i documenti della Sezione femminile si comprende la passione e l’affanno con cui attingono dalla Carta, valorizzandola e facendola agire come forza autonoma, quasi un programma parallelo a quello del partito. Il motto della Carta “dalle donne la forza delle donne” viene tradotto nello slogan “Scegli una donna. Vota Pci”, con l’obiettivo dichiarato di ottenere un “riequilibrio di rappresentanza”.

Le elezioni imminenti mettono alla prova la coesione delle donne della Carta: il tema della rappresentanza diventa divisivo.

Il 13 maggio 1987 il CRS organizza il convegno “Le donne nella parabola democratica”[31], dove viene interrogato il concetto stesso di rappresentanza. Sotto indagine (si vedano gli interventi di Boccia, Cavarero, Rodano, Cotturri, Izzo) è la novità, espressa anche in termini di conflitto, tra il fondamento neutro del concetto di rappresentanza e il portato costituente del soggetto femminile; un nesso che svela le contraddizioni nascoste nel principio del neutro-universale, ponendo in discussione il fondamento stesso delle forme della democrazia.

La campagna elettorale delle donne del Pci si apre il 20 maggio e si chiude il 10 giugno.

Alla presentazione delle liste con Giglia Tedesco e Nilde Iotti, Livia Turco parla di “strozzatura dentro le istituzioni”: le donne sono troppo poche. La Presidente della Camera coglie l’occasione per ricordare che la percentuale delle elette è rimasta ferma ai tempi della Costituente.

L’esito delle elezioni vede un deciso calo di voti per il Pci ma registra un vero e proprio successo[32] per le comuniste. Perde il partito, vincono le donne. Memorabile il commento sarcastico di Pajetta: “Le disgrazie non vengono mai da sole”[33].

La rottura di un dialogo

L’accelerazione imposta dalle elezioni fa maturare una prima frattura fra donne della Carta e una parte del femminismo proprio sul tema della rappresentanza e del rapporto con le istituzioni. Nel giugno del 1987 esce il “Sottosopra blu”[34]: con l’articolo di Lia Cigarini, La separazione femminile e la contemporanea pubblicazione del volume Non credere di avere diritti[35] a cura della Libreria delle donne di Milano, al concetto di rappresentanza si oppone quello di affidamento.

La discussione prosegue dopo le elezioni anche tra le donne del Pci.

A settembre, Franca Chiaromonte e Letizia Paolozzi intervengono sul “Manifesto”[36]: ricostruendo la cronologia da Chernobyl alle elezioni politiche, le due criticano il “pasticcio” del “riequilibrio di rappresentanza” e mettono in discussione il principio della “doppia appartenenza”, nominando altre forme di mediazione quali, appunto, la “disparità” e l’“affidamento”. Il 10 ottobre, dalle stesse pagine replica[37] Francesca Izzo, invitando a non schiacciare sulla campagna elettorale il complesso tema della rappresentanza e dell’appartenenza: per Izzo, il valore della Carta sta nell’“aver imboccato una via mai battuta: produrre cultura e politica segnate dalla differenza in luoghi misti come i partiti e le istituzioni”[38].

Il tempo è ricchezza, non denaro[39]

Nel giugno del 1988, dopo le dimissioni di Natta, Achille Occhetto viene eletto segretario del Pci.

Intanto, la “seconda fase” della Carta è preparata, nel dicembre dello stesso anno, dal convegno “Il tempo delle donne nelle città. I diritti, i lavori, i poteri”[40]. A partire dall’esperienza della sindaca modenese Alfonsina Rinaldi, le comuniste lanciano una nuova sfida, naturale prosecuzione di quella aperta nell’86 con la “coscienza del limite”. La riflessione sui tempi è complessa e investe vari ambiti, divenendo anch’essa vero e proprio paradigma di pensiero. Prendendo le mosse dalla critica al neoliberismo, le donne comuniste intendono rileggere, attraverso il rifiuto di una concezione declinata al singolare, produttivistica e neutra, del tempo, la stessa organizzazione sociale, i tempi, appunto, della vita, del lavoro, delle relazioni, in un’ottica bisessuata.

I temi s’intrecciano, impiantandosi su questo nuovo concetto che prefigura il superamento della divisione sessuale del lavoro; il riconoscimento del valore della cura; una diversa valorizzazione dei cicli di vita e del nesso produzione-riproduzione.

Rinnovando il patto tra donne, con la riflessione sui tempi le comuniste criticano in modo radicale il modello produttivistico neoliberista e gettano le basi per la proposta di legge di iniziativa popolare[41] che verrà lanciata nel 1990.

1989-1991: le comuniste e il nome della Cosa

Nel Marzo del 1989 il XVIII Congresso del Pci è aperto da Luce Irigaray.

Il pensiero della differenza è ufficialmente riconosciuto dal partito.

Dal 12 novembre 1989 (Bolognina) al 3 febbraio 1991 (XX, e ultimo, congresso del Pci) i comunisti e le comuniste vivono una stagione di passione e di travaglio[42].

Per milioni di militanti s’incrina un fondamento identitario: il cambio di nome assume i connotati di un interrogativo di portata esistenziale.

Nel marzo del 1990 si apre a Bologna il Congresso straordinario, il XIX, del Pci. Una parte delle donne aderisce alla mozione del , intendendo partecipare alla nascita del nuovo partito come soggetto fondante; alle tre mozioni se ne affianca una quarta, di sole donne, La nostra libertà è solo nelle nostre mani, dove le ragioni del No – si dice – “sono tratte direttamente dal pensiero della differenza”[43].

Il 10 marzo il comitato centrale del Partito approva la mozione del segretario Occhetto per la nascita di un nuovo partito riformatore: si apre ufficialmente la fase costituente.

Per le donne comuniste la domanda sulla Cosa (cioè sulla sostanza del nuovo soggetto-partito) è un interrogativo doppio e complesso, da accordare alla questione primaria posta con la Carta: essere comuniste partendo dalla differenza sessuale. Si tratta, per le donne, di capire come e dove collocarsi in questo passaggio che è al tempo stesso terminale e fondativo.

Le vedove di Lenin. Processo al pensiero della differenza

In questo clima, prendendo a pretesto proprio la “legge sui tempi”– per la quale, da candidata del Pci alle regionali si è impegnata nella raccolta di firme – Miriam Mafai entra a gamba tesa nel dibattito con un articolo[44] su “MicroMega” attaccando frontalmente il pensiero della differenza.

Quella di Mafai è una vera e propria requisitoria: le femministe sono infatti definite “una setta esoterica, legata da rituali e parole d’ordine solo a loro noti”. I capi d’accusa sono: “ideologismo”, “oscurità”, “lobbismo”. Dietro le invettive di Mafai c’è senz’altro il rifiuto dell’egemonia (sic) che il pensiero della differenza ha conquistato all’interno del Pci  - egemonia che in questa fase potrebbe giocare in chiave anti-riformistica. Non solo: Mafai vede minata quella idea di uguaglianza formale tra uomini e donne sancita dalla Costituzione sulla quale la scrittrice ha improntato la sua vita e la sua militanza. È, quella di Mafai, una concezione radicalmente emancipatoria che non ammette compromessi.

Da Livia Turco a Claudia Mancina, da Gloria Buffo a Ida Dominijanni le repliche non tardano ad arrivare. La risposta più articolata[45] ed efficace la dà Marisa Rodano dalle pagine del “Venerdì”. Sottolineando l’importanza storica della prospettiva emancipazionista, Rodano ricorda a Mafai che i limiti dell’emancipazione[46], prima ancora che dalle femministe, erano già stati avvertiti nel lontano 1964, al congresso dell’Udi, quando era apparso chiaro che l’ingresso delle donne nel mondo del lavoro e nella società non era garanzia che la cosiddetta “questione femminile” fosse risolta; anzi: si riconosceva che la società non solo era classista ma anche sessista; “una posizione allora scandalosa per il movimento operaio” – scrive  Rodano – “visto che si dovrà attendere il XV Congresso del 1979 per vedere riconosciute dal Pci l’esistenza e la rilevanza sociale della contraddizione di sesso”.

Linguaggio, identità, soggetti

Oscurità. Elitismo. Settarismo. Le accuse lanciate da Miriam Mafai vengono indagate e fatte agire politicamente dalle pagine di “Reti”[47] nel numero di settembre-ottobre del ‘90. Il dibattito che si svolge sulla rivista è particolarmente significativo perché da un lato registra la fine dell’esperienza della Carta, dall’altra ne trae un primo bilancio – i diversi modi di agirla, o di non agirla – nella costituzione del nuovo partito.

La discussione investe, giocoforza, anche il linguaggio del pensiero della differenza.

Intervenendo sui numerosi “slittamenti semantici”[48] e citando l’ambivalenza della Carta (il suo innesto sulla tradizione emancipazionista) Dominijanni arriva a sostenere che “solo nella pratica delle relazioni tra donne la differenza sessuale trova le parole per dirsi”[49]. Per la giornalista del “Manifesto” l’“alibi dell’oscurità” deriva dal fatto che le parole, quando si staccano dal “contesto originario” che le ha prodotte, finiscono per confondersi.

Paola Gaiotti de Biase riprende[50] il tema del disordine simbolico per mettere in luce un paradosso di fondo: non ci si può lamentare degli slittamenti semantici che subiscono le parole quando escono dal contesto originario del piccolo gruppo e al tempo stesso avere la pretesa di fondare un “nuovo ordine simbolico”; quest’ultimo, infatti, per affermarsi, ha bisogno di diventare linguaggio condiviso.

Letizia Paolozzi, rivendicando[51] la pratica della disparità e dell’affidamento, sottolinea l’inconciliabilità di alcuni assunti della Carta (riequilibrio di rappresentanza) col pensiero della differenza: non si tratta, per Paolozzi, di erigere il linguaggio a “sistema di comando” ma a “sistema di sovversione”.

Insomma, la questione linguistica tocca il nervo scoperto delle relazioni politiche tra le donne: si tratta di un rapporto esclusivo di affidamento oppure della fondazione di un nuovo ordine simbolico in ambito misto, come il partito o le istituzioni?

Il vecchio tema della doppia militanza sembra ritornare, sottoforma di assillo linguistico, nelle vesti della doppia, o esclusiva, appartenenza.

Nello stesso numero della rivista viene presentato il documento in vista del XX Congresso[52] dove Livia Turco mette in luce la forza, l’“intreccio conflittuale”, della doppia appartenenza proposta a suo tempo dalla Carta: un intreccio dal quale ripartire per superare la logica delle commissioni femminili e per immaginare nuove forme (anche in sezioni separatiste o collettive) di adesione al partito.

In un bilancio critico e appassionato, Francesca Izzo[53], pur registrando l’esaurimento della Carta, ne salva l’assunto primigenio, ovvero la doppia appartenenza[54], che ora si rivelerebbe efficace perché entra come nucleo teorico nel momento fondativo di un soggetto politico misto. Il tentativo è quello di provare a “cambiare l’impianto monosessuale di un partito”[55].

Una scommessa e un’impresa, scrive Izzo, che le donne finora non hanno mai tentato.

Se questa scommessa sia stata vinta o persa, è una domanda che meriterebbe un altro convegno.

In coda: domande sulla Carta

E dunque, solo con una serie di domande è possibile concludere questo excursus. Molte cose, da allora, sono cambiate, e alcune anche meglio: dalla rappresentanza a nuove conquiste legislative, come ad esempio quelle contro la violenza. Ma restano aperti alcuni interrogativi:

Che ne è oggi della differenza sessuale, principio fondativo di un nuovo ordine simbolico? Ha vinto l’egemonia del neutro, nascosto sotto l’individualismo fluido di nuove ideologie decostruzioniste?

Che ne è dei tempi e della materialità dei corpi?

Lo sfruttamento post-industriale, su scala globale, colonizza proprio il tempo – il bene più prezioso –  fingendo di liberarlo.

E come si legano, oggi, libertà e maternità?

Cosa ne pensiamo infatti delle “nuove tecnologie di  riproduzione”? Cito da p. 75 della Carta: “va legalizzato l’affitto dell’utero dietro compenso di denaro?”

Dov’è, oggi, il guadagno per le donne, se credono di avere signoria onnipotente sul proprio corpo, cancellando o dilazionando il tempo con l’aiuto della tecnica, perdendo così “coscienza del limite”?

Si tratta di questioni poste a suo tempo in modo visionario e che oggi drammaticamente interrogano, su scala planetaria, il nostro presente: donne e uomini, insieme.

 

NOTE

[1]Per un quadro più dettagliato delle novità introdotte dalle donne in ambito legislativo si vedaLe Leggi delle donne che hanno cambiato l’Italia, a cura della Fondazione Nilde Iotti, Ediesse, Roma 2013.

[2]F. Izzo, I dilemmi del femminismo nella Seconda Repubblica, in L’Italia contemporanea dagli anni Ottanta a oggi, II, Carocci, Roma 2014, p. 101.

[3] Ibidem.

[4]Si vedano, in merito: L. Irigaray, Speculum. L'altra donna, Feltrinelli, Milano 1975; Id., Questo sesso che non è un sesso, Feltrinelli, Milano 1978; Id.,Etica della differenza sessuale, Feltrinelli, Milano 1985.

[5]A. Bocchetti, L’indecente differenza, ora in Cosa vuole una donna. Storia, politica teoria. Scritti 1981/1995. La Tartaruga edizioni, Roma 1995, p. 23.

[6]  Più donne che uomini, “Sottosopra verde”, a cura della Libreria delle donne di Milano, gennaio 1983.

[7]Ibidem.

[8]Si veda il racconto di Livia Turco raccolto per il sito “Carta delle donne” http://www.cartadelledonne.it/index.html/uncategorized/livia-turco-carta-itinerante-idee-proposte-interrogativi/

[9]Questo è il titolo della convocazione della manifestazione; cfr. A. Bocchetti, op. cit., p. 68-9.

[10]“Dopo Cernobyl le donne hanno proposto se stesse per costruire una strategia di vita. Se stesse significa la materialità della propria vita quotidiana, la parzialità del proprio pensiero […]  ‘la coscienza della mia parzialità si oppone ad un pensiero che non avendo misura di sé, finisce inevitabilmente per perdere il senso della vita’ (Alessandra Bocchetti). Le donne propongono se stesse per una strategia di vita ed intendono affermare quel “se stesse” attraverso un patto di coscienza ed un reciproco indebitamento. Vale a dire, il bisogno di rendere conto a noi stesse e di ritrovare noi stesse, portare avanti i nostri interessi; ‘che le donne di potere siano debitrici alle donne del loro potere, che le donne di parola siano debitrici alle parole delle donne. Il debito è un vincolo non solo etico ma concreto, di interesse immediato’ (A. Bocchetti).C’è la voglia di una reciproca valorizzazione. Ho avvertito molto importante la proposta del patto di coscienza e dell’indebitamento che Alessandra Bocchetti ha definito strategia di presenza sociale e di potere delle donne […] Dobbiamo essere all’altezza. Ciò è potuto avvenire anche grazie alla tenace presenza ed al lavoro, molte volte difficile e misconosciuto di alcune nostre compagne del Movimento”, Livia Turco, Relazione introduttiva della Commissione Femminile Nazionale, 13 giugno 1986, in Fondazione Istituto Gramsci (d’ora in poi FIG), Archivio Storico delle donne “Camilla Ravera”, Fascicolo: Donne Comuniste II. Carta delle donne. Nomi.1986 [21 5 3], Busta 164, 4. DOC. 1986, da Donne comuniste a Estero.

[11]Si tratti di Perla Lusa, Anna Maria Carloni, Gloria Buffo, Tiziana Arista, Giulia Rodano, Elena Cordoni, Roberta Lisi, Alberta De Simone, Marisa Nicchi; successivamente si aggiungono Anna Maria Riviello, Donatella Massarelli, Mariangela Grainer; come scrive Turco, “decisi fin dall’inizio di stringere una forte alleanza con “le intellettuali”, diverse tra loro ma che mi affascinavano tanto: Franca Chiaromonte […] Letizia Paolozzi, Luisa Boccia, Francesca Izzo, Claudia Mancina, Laura Pennacchi”; per un elenco completo si veda http://www.cartadelledonne.it/index.html/uncategorized/livia-turco-carta-itinerante-idee-proposte-interrogativi/.

[12]“È  un momento magico di sintonia tra realtà politiche femminili diverse che finora sono state lontanissime tra loro” A. Bocchetti, cit., p. 69.

[13] Cfr. Scienza potere coscienza del limite. Dopo Cernobyl: oltre l’estraneità, Editori Riuniti riviste, Quaderni di Donne e politica supplemento al n. 5, settembre-ottobre 1986.

[14] Si vedano gli interventi di M. Boselli, Nascere lontano dal corpo materno, ivi p 86 ss.; M. Rodano, Un movimento per cambiare la committenza, ivi, p. 120 ss.

[15] Cfr. G. Vacca, Vent’anni dopo. La sinistra fra mutamenti e revisioni, Einaudi, Torino 1997, p. 168 ss.

[16]L. Turco, Un fecondo paradigma del pensiero, in Scienza potere coscienza del limite, cit., p. 12.

[17]“L’asse politico della festa ruota intorno alla necessità di un ‘patto tra donne’ per produrre e far valere la forza femminile. Su queste basi si gettano le fondamenta della Carta”, C. Martucci, La libreria delle donne di Milano. Un laboratorio di pratica politica, FrancoAngeli, Milano 2008.

[18]Nel programma della festa è previsto un dibattito misto e un dibattito solo femminile dove si confrontano Livia Turco, Alessandra Bocchetti, Lia Cigarini.

[19]Cfr. L. Turco, “Relazione alla commissione femminile nazionale”, 6-7 ottobre 1986, Frattocchie, in FIG, Archivio storico delle donne “Camilla Ravera”, Fascicolo: Donne Comuniste II. Carta delle donne. Nomi.1986 [21 5 3] busta 164, 4. DOC. 1986, da Donne comuniste a Estero.

[20]In realtà, l’aggettivo “itinerante” compare nella relazione di Turco, ma non in diretta connessione alla Carta, che a quell’altezza viene ancora definita, appunto, “programmatica”, ibid.

[21]Il titolo riecheggia Le donne con le donne possono, intervento di A. Bocchetti all’omonimo convegno svoltosi a Roma l’11-12-13 maggio 1984, ora in A. Bocchetti, Cosa vuole una donna, cit., p. 58 ss.

[22] Dopo averla sottoposta a Nilde Iotti, Turco presenta la Carta alla direzione del Partito, ricevendo la benedizione ironica di Natta, ben consapevole che l’autonomia del soggetto femminile, come intuito già da Berlinguer nel discorso di Venezia del 1981, è un tema con il quale il Pci deve misurarsi anche per guadagnare consenso al partito nella nuova direzione pluralista. Il 9 novembre, l’allora coordinatore della Segreteria, Achille Occhetto, insieme a Giglia Tedesco e Livia Turco presentano pubblicamente il volume.

[23] In realtà, la Carta è divisa in tre parti, precedute dalla premessa Dalle donne alle donne: Prima parte: Idee, proposte, interrogativi; Seconda parte: Costruire la società umana; Terza parte: Le conquiste che vogliamo ottenere oggi; il volume è corredato da schede tematiche (pace, ambiente, diritti, risorse, lavoro, sessualità, procreazione ecc.) da compilare, ritagliare e inviare alla Sezione femminile Pci, via di  Botteghe Oscure 4.

[24]“Ho creduto nella Carta delle Donne, o meglio nella prima parte della Carta, dove era evidente un desiderio di soggettività autentica; la seconda parte era fatta per i santi e non diceva nulla di veramente nuovo”, A. Bocchetti, Dove va il PCI: un incontro tra donne, ora in Cosa vuole una donna, cit., p. 170.

[25]F. Chiaromonte, L. Paolozzi, La doppia fedeltà, in “Il Manifesto”, 23 settembre 1987.

[26]“La militanza nel nostro partito non ci fa dimenticare che apparteniamo ad un sesso con una storia e una condizione sua propria. Abbiamo imparato che in politica le scelte portano un segno di classe e di sesso”, Dalle donne la forza delle donne. Carta itinerante, Nuova stampa di Mondadori, Cles (Trento) 1986, p. 9.

[27]La ricezione della Carta è vivacissima come testimonia il volumeIdee scritte intorno alla Carta, sorta di libro-rassegna stampa che inizia a registrare l’interesse degli uomini (si veda l’interessante contributo di Mario Tronti).

[28]Si vedano i verbali dattiloscritti delle riunioni: ad es. la “relazione” della riunione del 15/12/86, presso la sezione “Porta San Giovanni sulla Carta delle donne” con L. Turco; il verbale della “riunione delle compagne della sez. Tor Tre Teste su Carta delle donne”, sabato 31/1/87; la riunione alla sezione Alessandrina del 2/2/87; si veda anche il “Bollettino” a cura della Commissione femminile provinciale, Federazione di Padova, n. 10 aprile 1987, numero speciale: pp. 1-14, con la discussione sulla “Carta delle donne” dove si annuncia che il testo è presentato a Strasburgo e tradotto in varie lingue; in FIG, Archivio storico delle donne “Camilla Ravera”, Fascicolo: Donne Comuniste II. Carta delle donne Busta 164, 4. DOC. 1986, da Donne comuniste a Estero; e in Fascicolo Donne comuniste II. 1987, busta 1987 171 4.

[29]La manifestazione è preceduta da un appello di numerose intellettuali e accompagnata da una lettera di Nilde Iotti.

[30]Cfr. “Lettera di Nilde Jotti [sic] al Comitato donne per il lavoro”, in FIG, Archivio storico delle donne “Camilla Ravera”, Fascicolo Donne comuniste II. 1987, busta 1987 171 4.

[31]Si veda Il genere della rappresentanza, a c. di M. L. Boccia e I. Peretti, il numero di Materiali e atti del CRS riporta gli Atti del convegno, Roma 1987.

[32]La rappresentanza femminile, che nella precedente legislatura era pari al 6,%, sale al 9,6%. Tre punti secchi. La parte del leone la fa il Pci con 60 elette: un raddoppio al Senato, un 25 per cento in più alla Camera.

[33]Livia e gli imperativi categorici, in G. Falconi, Oh Bimbe! Le ragazze di Adriana, Memori Editore, Roma 2014, p. 257.

[34]Sulla rappresentanza politica femminile, sull’arte di polemizzare tra donne e sulla rivoluzione scientifica in corso – Sottosopra blu, “Sottosopra”, giugno 1987. In questo stesso numero, con l’articolo Per sé/per me, pur non condividendo il tema della rappresentanza (preferendo quello di “rappresentazione”); Bocchetti non si sottrae al dialogo e insiste sul “legame di necessità”: la donna che vince per sé, senza dimenticare il debito che ha con le altre donne – scrive Bocchetti – vince anche per me; cfr. anche, sul tema della “disparità”, dell’“affidamento” e del “potere”: Vincere cosa, vincere cosa, dialogo tra A. Bocchetti e L. Muraro, testo di apertura del programma del Centro Culturale Virginia Woolf, anno 1986-87, ora in A. Bocchetti, cit. 86 ss.

[35]AA. VV. Non credere di avere diritti, Rosenberg & Sellier, Torino 1987.

[36]F. Chiaromonte, L. Paolozzi, La doppia fedeltà, cit.

[37]F. Izzo, Non è eterna la doppia fedeltà, in “Il Manifesto”, 10 ottobre 1987.

[38] Ibidem.

[39]L. Turco, Il tempo è ricchezza, non denaro, in Le donne cambiano i tempi. Una legge per rendere più umani i tempi del lavoro, gli orari della città, il ritmo della vita; p. 5. Il volume – che raccoglie vari interventi e presenta, in calce il testo della proposta di legge –   non reca indicazioni editoriali

[40]Cfr. Il tempo delle donne nelle città. I diritti, i lavori, i poteri, Modena 2-3-4 dicembre 1988; in “Dp&S”, n. 15, settembre 1989.

[41]Cfr. Le donne cambiano i tempi. Una legge per rendere più umani i tempi del lavoro, gli orari della città, il ritmo della vita; il volume – che raccoglie vari interventi e presenta, in calce il testo della proposta di legge –   non reca indicazioni editoriali.

[42]Quando, al termine del Comitato centrale del 21 novembre, Occhetto afferma: “viene prima la cosa poi il nome. E la cosa è in Italia la costruzione di una nuova forza politica”, l’allora segretario del Pci dà l’abbrivio alla sceneggiatura di un dramma collettivo.

[43] Cfr. F. Chiaromonte, L. Paolozzi, Il taglio. Due femministe raccontano la fine del Pci, Datanews, Roma, 1992.

[44]M. Mafai, Le vedove di Lenin e la deriva femminista, in “MicroMega” 4/1990, pp. 7-15.

[45]M. Rodano, Non siamo femministe dell’ultim’ora, in “il Venerdì” supplemento di “La Repubblica”, 2 novembre 1990.

[46]Sul vasto tema del “valore storico dell’emancipazione” - sull’idea che abbia agito o meno come prospettiva per fare emergere i limiti di un ordine simbolico neutro maschile/universale -, si veda A. Bocchetti, Fare leva, testo di apertura del programma del Centro Culturale Virginia Woolf gruppo B, anno 1989, ora in Cosa vuole una donna, cit., p. 152 ss. Bocchetti decisamente nega questo valore storico, anzi riscontra nell’emancipazione una “modalità di fuga” delle donne da sé.

[47]Nella  rivista, dialogano donne del femminismo e comuniste.

[48]I. Dominijanni, Parole ai corpi Corpi alle parole, in “Reti”, n. 5, settembre-ottobre 1990, pp. 3-10. Sulla necessità di fare chiarezza, di stabilire un discrimine linguistico nel lessico, si veda anche A. Bocchetti, Vivere e pensare la differenza, in op. cit.: “tutte sembriamo parlare lo stesso linguaggio, mentre vogliamo dire cose assai diverse”, ivi p. 140.

[49]Ivi, p. 4.

[50]P. Gaiotti de Biase, Quando il linguaggio diviene ideologico, ivi, p. 24 ss.

[51]L. Paolozzi, Un vuoto da abitare, ivi, pp. 19-21.

[52]L. Turco, Un partito di donne e di uomini. Materiali per una discussione sul XX Congresso; si tratta del documento congressuale proposto alle donne comuniste e pubblicato in “Reti”, cit. pp.  49-55.

[53]F. Izzo, La questione democratica tra donne, in “Reti”, ivi, pp. 59-61.

[54]Francesca Izzo era già intervenuta sul tema della doppia appartenenza; si veda in proposito: F. Izzo, Perché le relazioni tra donne, in “Reti”, maggio-agosto 1988.

[55] F. Izzo, La questione democratica tra donne, in “Reti” n. 5, settembre-ottobre 1990, cit., p. 61.

28 ottobre 2015