Un 8 marzo che dedico alle amiche di LIFE
di Maria Paola Patuelli

Chi pensa – e teme – che la cultura dell’Islam sia una e inamovibile nella sue forme, ha, in questi giorni, una buona occasione per fermarsi a riflettere. Un buona occasione sia per chi si colloca in un indistinto laicismo, che vede negativamente tutto ciò che riguarda la sfera religiosa, sia per gli appartenenti a diverse fedi religiose, spesso diffidenti le une delle altre.


A Ravenna è accaduto qualcosa di assai significativo, che riguarda in primo luogo donne, ma subito dopo l’intera nostra comunità.

Le donne in questione sono donne musulmane, di profonda fede religiosa, della associazione LIFE di Ravenna. Italiane e non solo. Qualche anno fa informarono pubblicamente la città – l’amministrazione comunale e la stampa - delle grandi difficoltà che incontravano all’interno della loro comunità, alla quale, peraltro, avevano dato un grande contributo, culturale ed economico, anche per la realizzazione della Moschea, diritto costituzionalmente fondato che, in più occasioni, anche attraverso il Comitato in Difesa della Costituzione di Ravenna, avevamo chiesto che fosse garantito.

Le amiche di LIFE criticarono la gestione misogina e non democratica del Centro di Cultura islamica. Lo fecero pubblicamente, “ci misero la faccia”, una faccia con velo, e già questo è strano, con tutte le difficoltà che – sapevano – questo avrebbe comportato. Ma ritennero di non avere altro modo per farsi ascoltare, visto che le strade del confronto e del dialogo interno alla comunità non avevano avuto esito alcuno.
Seguì la denuncia a Marisa Iannucci, presidente di LIFE, per diffamazione. Beghe interne per ragioni di potere e di conquista della leadership, sentii dire in quei giorni, da parte di italiani non musulmani e da parte di molti musulmani.

Anche da parte di molte donne, in vari ambienti, anche ambienti al di fuori di ogni sospetto. Quando donne compiono azioni forti, i sospetti lievitano in maniera impressionante, anche fra donne.
Pochi giorni fa è arrivato l’esito del processo civile. Una sentenza chiara. Non solo Marisa Iannucci e le sue sorelle non avevano “diffamato” e avevano soltanto - soltanto? - espresso una legittima opinione – art. 21 della Costituzione – ma avevano fatto accuse fondate su fatti che la magistratura ha potuto accertare, di non rispetto di regole e di statuti.
A questo punto non posso che dire a me stessa che questo 8 marzo è veramente – per me – particolarmente importante. Con Marina Mannucci ero in tribunale il giorno dell’udienza. Volevo, anche fisicamente, fare sapere alle amiche/sorelle di LIFE che la mia fiducia in loro era tanta. Che apprezzavo il loro impegno e coraggio civile, a prescindere dall’esito del processo. Che – nella mia esperienza di vita – era la prima volta che donne si erano impegnate in un esplicito conflitto con uomini della loro comunità, per ragioni culturali e civili, e non solo per ragioni delittuose in senso stretto.

E’ una storia che ci fa riflettere, per varie ragioni.
Intanto, abbiamo la conferma che l’Islam non è un monolite indistinto, fatto di patriarchi che delle loro donne possono fare quello che vogliono.
Inoltre, le donne sono in movimento in varie parti del mondo musulmano, dove, sempre più, prendono la parola e compiono azioni politiche. Le donne di LIFE, a Ravenna, hanno compiuto una azione politica sicuramente molto forte.

Hanno deciso di agire come sembrava loro necessario e giusto, pur sapendo dei rischi e senza la certezza di vedere riconosciute le loro ragioni.
Mi fa piacere pensare che sono stata accanto a loro in spirito di sorellanza, di sisterhood, dicono le femministe, in spirito di solidarietà.

Solidarietà non generica, o corporativa. Una solidarietà che si fonda su azioni condivise nel mare burrascoso del rapporto delle donne con il mondo spesso inospitale nel quale si trovano.
Questa storia può dare forza alle donne, a qualunque comunità o cultura appartengano.
Questo è l’8 marzo che preferisco.

Maria Paola Patuelli
 

11 marzo 2016