Io, immigrata di seconda generazione di Francesca Marinaro (da l’Unità 13 aprile 2016)

Conosco bene Bruxelles e quei suoi grandi quartieri-municipi dove non esiste una cultura condivisa, dove ognuno vive nel suo pezzo di territorio senza possibilità di incontro e di scambio. E’ in quei luoghi che da immigrata di seconda generazione ho acquisito la coscienza della mia “appartenenza duplice” che la stabilizzazione del fenomeno migratorio in Belgio ha prodotto. E’ in questi quartieri che con l’andare del tempo i simboli delle comunità d’immigrati hanno acquistato forza e sono diventati motivazione “identitaria” in reazione alla emarginazione. 


Ancora oggi la maggior parte dei giovani provenienti da famiglie di emigrati occupa posizioni marginali nella società belga. Spesso ottengono i lavori meno attraenti, i tassi di disoccupazione di questi giovani sono sopra la media, le loro condizioni abitative sono spesso pessime e i risultati scolastici rimangono al limite del minimo necessario per raggiungere una qualche forma di mobilità sociale. Persistono quindi forme di discriminazione strutturale che impediscono la buona riuscita dell’integrazione. Penso ai colloqui e ai test nel mercato del lavoro e nel sistema scolastico che a prima vista possono apparire “neutrali”, ma che in realtà non lo sono, perché tendono a far ripetere la storia dei padri e delle madri alle figlie e ai figli. E’ sempre in questi luoghi che il tema dominante del federalismo linguistico ha accentuato le spaccature della popolazione, tra autoctoni e nuovi arrivati dai paesi extraeuropei negli anni Sessanta-Settanta. Ma questi, oggi, non sono più solo problemi del Belgio e dei paesi che hanno conosciuto per primi i grandi fenomeni migratori in parte legati alla loro storia coloniale. Questi problemi riguardano ormai l’Europa intera.

Ci sono vecchie e nuove domande, ma tutte esigono risposte urgenti. Prima fra tutte: qual è l’idea di integrazione di cui l’Europa si fa portatrice? L’Europa nata da un processo di integrazione tra Stati come intende trattare i temi dell’integrazione all’interno dei singoli stati? Come si favorisce l’integrazione di quella parte della popolazione che ancora oggi continua a sentirsi ai margini della società d’insediamento?

Per affrontare queste grandi questioni occorre innanzitutto rafforzare la coscienza europea e la sua identità originaria nata dall’unità del molteplice.  Questi temi ci impongono di riaffrontare l’antico problema dell’unità politica e istituzionale dell’Unione europea e affrontare nel modo più concreto le questioni emergenti legate alla convivenza e alla sicurezza. Solo dando risposta a queste domande si potrà ripensare un nuovo progetto politico per l’Europa nel tempo in cui la paura rischia di prendere il sopravvento.

Non basta riconoscere che l’obiettivo del terrorismo è quello di seminare odio, diffidenza e disordine. Non basteranno i tradizionali strumenti di autodifesa, seppur affinati. Siamo in un ciclo storico nuovo, dalle implicazioni largamente sconosciute. Abbiamo quindi bisogno di istituzioni europee solide, di progetti concreti al servizio della convivenza e dello sviluppo, della pace e della sicurezza. È il tempo di ripensare la funzione dell’Europa.

Il punto, come sempre, è capire con quali idee e con quale forza governare questi processi. Appare quindi necessario allargare il campo di un nuovo “europeismo” per ridefinire la nuova “missione” dell’Europa. Per fare questo c’è bisogno di una nuova alleanza di forze in grado di saldare l’esperienza socialista e democratica con quelle popolari, cristiane, verdi e liberali per condividere una nuova ricerca sull’Europa del futuro, non rinchiusa dentro le strettoie ideologiche del passato ma aperta alle sfide che ci pone il mondo globalizzato. Si tratta di inevitabili “scomposizioni” e “ricomposizioni” delle famiglie politiche europee nel momento in cui la vera frattura è quella tra “europeisti” e “euroscettici” che si acuisce sempre più di fronte al grande tema della convivenza e della sicurezza. 

Francesca Marinaro

 

 

 

14 aprile 2016