Diritti umani o diritti dell’uomo?
di Vincenzo Ferrone, da Il Sole 24 ore

Sono due concetti che hanno pregi diversi. L’uno, oggi più in uso, rimanda all’universalità. L’altro a un concreto progetto etico-politico.

 

L’autore dell’articolo è tra i relatori del convegno in programma domani della Fondazione Nilde Iotti


Disciplina temibile e pericolosa definiva Flaubert la storia nel suo Sciocchezzaio. E non aveva tutti i torti se guardiamo agli interrogativi e alle reazioni che la nuova storiografia internazionale sui diritti umani sta generando nel dibattito pubblico, come pure nel mondo accademico in un settore di ricerca da sempre rigidamente strutturato in percorsi obbligati e rassicuranti certezze, nonché appannaggio esclusivo di filosofi, giuristi, antropologi, sociologi e scienziati della politica.

Gli storici sono infatti arrivati assai tardi a occuparsi di diritti: lo sottolineava con tono di rimprovero già nel 2004 l’American Historical Review. Solo nel 1997, infatti, la potente società degli storici americani aveva deciso di dedicare la propria annuale convention all’argomento degli Human Rights – significativo, in una nazione che in fondo è nata rivendicando la propria indipendenza sulla base dei diritti inalienabili dell’individuo. Con il crollo delle utopie comuniste il tema del resto era divenuto ineludibile. In quanto formidabile formula politica emancipatoria e liberatrice il linguaggio dei diritti stava proprio in quegli anni prendendo la forma di un’ultima utopia, Last Utopia, come recita il titolo di un importante saggio del 2010 dello storico di Harvard Samuel Moyn. Un linguaggio che dominava sempre più incontrastato l’agenda politica, alimentando ovunque forme di lotta contro le dittature e i residui del colonialismo, e costituiva l’ultima fonte di legittimità per qualsiasi azione di forza internazionale, per quanto controversa e discutibile potesse essere.

Le prime importanti ricerche sui diritti fondamentali si devono a specialisti della storia contemporanea, in Italia come altrove. La ricostruzione delle alterne vicende dei cosiddetti “diritti umani” nel corso del Novecento è stata affrontata con attenzione a non produrre rischi di confusioni linguistiche e anacronismi.

L’uso dell’espressione “diritti umani” (Human Rights) in alternativa al lemma sette-ottocentesco “diritti dell’uomo” (Rights of Man) ha infatti una sua precisa valenza semantica: a tal proposito, infatti, è ormai noto che solo dalla fine degli anni Settanta del Novecento il riferimento agli Human Rights ha iniziato a dominare incontrastato il linguaggio pubblico, la cui storia contemporanea non presentava dunque alcun problema. Poi sono arrivate le ricerche degli storici dell’età moderna, e con esse i primi guai.

Prima del XX secolo, infatti, la pietra di paragone concettuale era un’altra: erano i “diritti dell’uomo” consacrati nella Declaration of Independence dei coloni americani del 1776 e poi nella Déclaration des droits de l’homme dell’89, e come tale quell’espressione non poteva in alcun modo essere elusa. Farne la storia delle origini significava indagare la trasformazione degli sparsi riferimenti ai diritti soggettivi e naturali della canonistica e della trattatistica giuridica del medioevo e della prima modernità nel linguaggio morale, politico e costituzionale dei diritti dell’uomo elaborato dall’Illuminismo.

Nel contesto culturale dei Lumi, infatti, il riferimento alla parola uomo aveva un chiaro significato universalistico, cosmopolita e soprattutto polisemico: quello all’essere umano, a prescindere dal genere, come si evince facilmente dall’Encyclopédie e dalla nascita delle cosiddette ’scienze dell’uomo’ tenute a battesimo dai philosophes. Non a caso solo durante la Rivoluzione francese, grazie soprattutto all’opera di Condorcet e di Olympe de Gouges, si pose la questione dell’estensione dei diritti politici alla donna con la necessità di precisare anche sul piano lessicale il riferimento al genere. Agli illuministi spetta il merito di aver definito dapprima sul piano morale e storico l’esistenza dei diritti fondamentali dell’individuo e di avere poi affrontato il tema cruciale di come garantirne l’esercizio politico attraverso la democrazia e la loro costituzionalizzazione.

Da questo punto di vista, al di là degli innegabili punti di contatto, l’odierno linguaggio dei diritti umani sembra avere alle spalle una storia diversa. Nell’interpretazione dominante della storiografia americana gli Human Rights sono presentati con un tratto di forte discontinuità rispetto al progetto culturale e politico dei Rights of Man illuministici, per apparire un’invenzione assai recente, senza vere radici nella storia del Vecchio Continente e tutta plasmata Oltreatlantico. Di questi Human Rights novecenteschi si sottolinea infatti il carattere universalistico, destrutturante, post-moderno, antipolitico, tutto contenuto nell’ambito morale, in opposizione al vecchio progetto illuministico che mirava invece a trasformare concretamente i diritti naturali in diritti di cittadinanza attraverso lo Stato e la nazione – i due velenosi ingredienti della modernità politica occidentale che, in questa prospettiva, risultano colpevoli di flagelli quali il colonialismo, il razzismo, i totalitarismi, l’Olocausto.

Rispetto all’uso dei settecenteschi “diritti dell’uomo” emergono innegabilmente, del resto, molti vantaggi. Gli Human Rights, anzitutto, superano agevolmente il vaglio inflessibile del politically correct – ricordo la recente richiesta di mutare nome alla Déclarations des droits de l’homme del 1789, accusata di sessismo, inoltrata al presidente Hollande da un gruppo di intellettuali femministe. Con la sua genericità la nuova retorica dei diritti umani supera le distinzioni di genere e orientamento sessuale, si attaglia ai difensori dei diritti dell’individuo eredi dell’Illuminismo e soddisfa i partigiani delle comunità e dei diritti delle nazioni (al costo, va detto, di perpetuare una rovinosa confusione tutta ottocentesca che continua a creare tragedie nella soluzione dei conflitti internazionali).

Fare la storia dell’origine intellettuale dei diritti umani così genericamente concepiti apre poi praterie sterminate agli storici più ingegnosi, fantasiosi o semplicemente attenti al mercato: in fondo, perché non arruolare Buddha e Gesù in solerti attivisti di Human Rights Watch? Ma ciò che preoccupa di più è la mancata consapevolezza di quei politici, diplomatici e giuristi che a Bruxelles considerano ormai equivalenti, e dunque intercambiabili, nei loro documenti e nelle loro sentenze le espressioni “diritti dell’uomo” e “diritti umani”.

Qualcuno dovrebbe forse segnalare loro che se esistono i diritti umani non vanno però dimenticati i diritti della storia – che non così facilmente si presta ad anacronismi e acrobazie lessicali – se si vuole davvero capire il nostro presente e agire con cognizione piena della posta in gioco.

Vincenzo Ferrone

Da il Sole 24 ore del 17 aprile 2016

17 aprile 2016