E’ indubbio che parlare di diritti dell’uomo ˗ o di diritti umani, o di diritti della persona ˗ non significhi parlare di attributi dell’individuo astrattamente intesi, una sorta di verità che lo riguardino in ogni tempo e in ogni luogo, pur se effettivamente nella storia sono stati anche così intesi, tanto da una tradizione giusnaturalistica quanto nella loro versione razionalistica e illuministica.
Tutti siamo invece consapevoli che il diritto, essendo cosa tutta e solo umana, è storia, e relatività dei propri valori, e proprio qui si annida la radice della possibile loro ambiguità: d’altra parte, il diritto, per definizione, non significa arbitrarietà o tirannia del volere, ma ragionevolezza delle sue parole e della grammatica da esso elaborata, tale appunto da permettere una comunicazione tra governati e governanti, un sentire comune che “faccia giusto” ovvero giustifichi, o più esattamente legittimi, tanto l’autorità quanto l’obbedienza. In questa ragionevolezza sta il suo essere precisamente un bene comune: comune infatti a tutti gli uomini è la parola e la ragione, significati che del resto confluiscono significativamente nel lógos, matrice ellenica del nostro pensiero occidentale, sulla quale si innesta appunto quel meccanismo di autodisciplinamento sociale tipicamente romano, il diritto, appunto. La nostra civiltà infatti, secondo la nota affermazione di Theodor Heuss, poggia su tre colli: il Partenone, il Campidoglio, e il Golgota, e l’interazione o osmosi di questi tre mondi ha innestato la sua spinta propulsiva nella storia.
Così, proprio perché ancora greci, pensiamo alla ragione e alla parola, cioè al potere comunicare tra di noi, come a un bene irrinunciabile. Come osserva Platone nel Sofista, la parola, e quindi anche la parola della legge, può essere eikòn o immagine vera della realtà, oppure phantásma, immagine deformata di essa, e il legislatore ne deve essere sommamente consapevole, proprio perché lavora sulle parole. I logici medievali chiamarono appunto ratio,o lógos, il retto rapporto tra la res significata e il verbum significante. La possibilità della parola di dire la realtà, e di comunicare tra gli esseri dotati di essa, appare così condicio per quam del diritto come linguaggio o grammatica sociale. Il suo contrario è la parola che non è comprensibile se non da chi la pronuncia, il delirio di chi comprende solo se stesso, cioè, etimologicamente, l’idiozia: il che diventa atroce se a pronunciarla è il principe, perché la forza diverrebbe misura di se stessa, come purtroppo la storia dimostra ampiamente, e non ha ancora finito di dimostrare. Alcuni esempi: che cosa vuol dire nascere o morire, matrimonio o patrimonio, figlio o sposa, “atti di disposizione” o “coniugio”. In effetti, mi pare condivisibile l’affermazione per la quale, se si vuole accedere all’universo del senso, bisogna innanzi tutto deporre la pretesa di imporre il proprio senso al mondo, una psicosi o autoreferenzialità nascosta in tutti noi.
Ho citato volentieri la filosofia antica, la “seconda navigazione” di Platone, cioè la scoperta della metafisica, e quella medievale, che sapeva per fede dove voleva andare, ma vi andava solo attraverso le risorse della ragione, per evitare, come accade spesso nei libri di filosofia del diritto e nei dibattiti, di pensare che gli uomini abbiano cominciato a pensare soltanto a partire dal Settecento. In realtà, prima non si parlava di diritti umani, ma di diritti naturali: tale espressione è oggi semplicemente improponibile perché per noi la natura di una cosa è la materia di cui è fatta, e di qui certo non si può dedurre alcun dovere, mentre per Aristotele e Tommaso è il fine, lo scopo, delle cose stesse. Insomma, quando noi moderni diciamo “natura” intendiamo qualcosa di diverso dagli antichi, e per questo il significato dell’espressione si è oscurato.
Inoltre, fino a Suárez, il diritto è una cosa, ipsa res iusta: è infatti la giusta divisione dei beni di questo mondo in base ai criteri della giustizia distributiva e commutativa, mentre, a partire dal gesuita seicentesco, il diritto comincia a essere pensato come facultas moralis, ossia un attributo della volontà, guarda caso proprio nei termini nei quali oggi intendiamo il diritto soggettivo, cioè come potere attribuito al soggetto da parte dell’ordinamento giuridico: ecco perché prima non ha semplicemente senso parlare di diritti umani, e dopo l’espressione invece si giustifica e soppianta quella precedente, di diritti naturali. Una comprensione storica dei termini aiuta molto a sfuggire alle ideologie, che sono sempre psicologicamente regressive e intellettualmente deprimenti, e che spesso costituiscono una trappola mortale per l’incontro e il dialogo, spesso più proclamati che voluti.
Se abbiamo ricordato il pensiero greco, non dobbiamo dimenticare che, al tempo stesso, poiché eredi della cultura romana, concepiamo il diritto come sistema distinto da altri ordini di disciplinamento sociale, in specie la morale e la teologia, o il discorso sulla divinità: in questo senso esso è affidato non a tutti, ma un gruppo di esperti, i giuristi appunto, che ne elaborano una grammatica propria in sedi proprie: certo quella legislativa, ma anche la giurisdizionale, l’amministrativa e, almeno si spererebbe, quella dottrinale, le università. In questo senso ci si potrebbe interrogare se oggi il diritto rimane tale, ovvero si limiti a recepire i dictamina di un potere che non solo non ha più la sua fonte di legittimazione nel popolo, ma, ad esempio nella finanza ovvero nelle lobbies del potere mediatico o tecnocratico. Sembra una domanda accademica, invece è il motivo per cui i paesi “democratici”, quelli che proclamano i diritti dell’uomo, continuano a commerciare con quelli che li reprimono. Il che mostra che il commercio, ovvero il denaro, e non il diritto, è il principio architettonico, il valore che è regola e misura degli altri, la laica divinità alla quale ci siamo asserviti. Come tutte le divinità pagane, riceve sacrifici umani.
Infatti, perché il diritto rimanga tale, è necessario riconoscere che non è solamente una tecnica di autodisciplinamento sociale, ma è qualcosa di più: una tecnica di umanizzazione delle tecniche . Infatti le tecniche, come saperi operativi sul mondo, presuppongono degli oggetti, mentre il diritto presuppone, e istituisce, soggetti, e la sua operazione è precisamente quella di impedire la degradazione di questi a oggetti di disposizione di altri. Così la nostra Costituzione afferma che la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili, contro il rischio di creare uomini e donne pleno iure e altri dimidiato iure, soggetti solo in parte di diritto.
In questo senso, la città moderna supera la struttura di fondamentale disuguaglianza, tra uomini e donne, tra ottimati e plebe, tra schiavi e liberi, tra cittadini e stranieri, tipica del mondo antico. Il diritto, senza diventare etica o assurgere al modello di uno Stato etico, che consacrerebbe il potere o teologizzerebbe il diritto, interagisce con supplementi di senso, o surplus di significato, che in se stesso non trova: infatti, come osserva il sen. Pera, i fondamenti del diritto non sono giuridici, e i fondamenti della politica non sono politici. A ben pensarci, nemmeno i fondamenti della geometria, alla quale è stato efficacemente paragonato il diritto, sono geometrici, come del resto i fondamenti della scienza non sono scientifici.
Anche se l’elaborazione dei diritti dell’uomo non è certo avvenuta nella Chiesa che vi ravvisava un impoverimento della metafisica, nel senso che non vedeva risolto il problema se i diritti derivassero dalla volontà di qualcuno oppure fossero tali per un ordine oggettivo delle cose, è difficile non riconoscere in questa uguaglianza fondamentale il compiersi della tesi hegeliana: è solo nel mondo germanico, che per lui significa il mondo moderno, cioè riconciliato dal cristianesimo, che la libertà è data a tutti, e non solo agli ottimati, perché a ognuno è dato lo Spirito. Vedo qui una secolarizzazione del pensiero di san Paolo, quando afferma: «non c’è più Giudeo né Greco, non c’è più né schiavo né libero, non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno» (Gal 3, 28), e uno dei tanti esempi di origine teologica del pensiero giuridico laico, o gli effetti di quel terzo colle, il Golgota, sugli altri due prima ricordati. Del resto, potremmo ricordare Bernanos, nel suo Diario di un curato di campagna: «Dio ha salvato ognuno di noi e ognuno di noi vale il sangue di Dio. Puoi tradurla come ti pare, anche in linguaggio razionalistico, il più stupido di tutti, ma ti costringe a mettere vicino parole che esplodono al minimo contatto». In questo continuo rinvio dei tre mondi vedo l’essenza della nostra civiltà come civiltà del diritto o dei diritti, che durerà almeno finchè li terremo fermi tutti e tre. Sarebbe interessante, e ve lo lascio come proposta, fare questo giochetto: che cosa diventerebbe il diritto togliendo uno di questi tre, volta per volta? Forse senza il Partenone sarebbe solo tecnica, un’ingegneria sociale, senza il Campidoglio (quello antico…) solo filosofia o discorso sul giusto, senza il Golgota… chissà, lascio a voi il pensarlo.
In effetti i diritti dell’uomo, così come il nostro Stato moderno e secolare, almeno secondo l’analisi di E. W. Bőckenfőrde, vivono di presupposti che non possono garantire: del resto, il lemma «Stato», per quanto o nella misura in cui oggi se ne possa ancora parlare, è solo un’espressione metaforica per descrivere l’unità logica dell’ordinamento. Il diritto si rivela quindi come una mediazione tra politica ed etica. Questo è tanto più vero nella particolare forma di Stato oggi in vigore, e non a caso dopo la sistematica negazione dei diritti operata dai totalitarismi del ventesimo secolo: lo Stato costituzionale di diritto, strutturalmente diverso dallo Stato di diritto come modello di azione semplicemente per leges et sub lege, o in der Weise des Rechts. Le Costituzioni rappresentano così, almeno a dire di G. Zagrebelsky, il riemergere dell’antico ius, il diritto come “cosa giusta”,e delle sue istanze sul possibile appiattimento della norma a mera lex: esse rappresentano quelle idee a noi care, per le quali siamo anche disposti a combattere, a noi consegnate dalla storia e da noi condivise, e come tali non presenti in altre storie o narrazioni di diritti. Il problema delle scontro con altre concezioni del mondo, sia ad extra che ab intra della nostra città, sta proprio qui, non in discorsi sugli dèi e sulla loro natura, e non sono risolvibili, a mio parere, in termini di chiusura. Confido nella capacità della parola e della ragione di essere vettore di reciproca comunicazione tra le diverse componenti culturali della nostra società come nell’impatto con l’estraneità. E’ la capacità del diritto di fare opera di pace, di fronte alla sempre facile dinamica cainitica della chiusura e dell’esclusione: quasi una laica beatitudine. E, come cittadino, questo mi aspetto dalle nostre istituzioni, da chi è loro preposto.
Sarebbe interessante, oltre che sommamente necessario, lavorare sulla capacità espansiva dell’ordinamento giuridico, svolgendo quanto è nelle pieghe, per così dire, della nostra Costituzione, sia nella promozione dei diritti inviolabili come dei doveri inderogabili per il pieno svolgimento della personalità di ognuno, in quel continuo processo di messa a fuoco dei diritti in cui si svolge, a diversi livelli e in diversi luoghi, la iuris dictio, il diritto, il suo metterlo in parola. E’ bello costatare come tutto questo è anche già avvenuto in passato, segnando il passaggio da un mondo giuridico imperniato sul borghese proprietario, nel quale i diritti dell’uomo sono, almeno a detta di Marx, il diritto stesso all’egoismo, a un quadro più complesso, più ricco di prospettive, che sviluppa il concetto stesso di libertà dalle antiche e classiche “libertà di” alle “libertà da”, dilatando lo sforzo stesso dello Stato a una promozione sociale, e perciò giuridica, mai immaginata prima. Nel passato, come oggi, lo sforzo è quello di mantenere, o istituire, la piena soggettività di ognuno, contro quelle spinte volte a fare del diritto la longa manus di altri potentati, che, obbedendo a logiche mercantili, tendono a fare di alcuni dei meno uguali, o degli oggetti. Ma nella storia uomini oggetti sono stati solo gli schiavi. Creazione propria del diritto è infatti quella di soggetto di diritto, che non coincide con quella filosofica di persona né con quella empirica di individuo, ma declina entrambe nel proprio linguaggio.
E noi pensiamo che tutti lo siamo ugualmente, per un diritto nativo, uomini e donne, poveri e ricchi, bambini e adulti, tutti allo stesso modo: questa è una risorsa dogmatica che condividiamo, e che altri non ritengono; è uno degli aspetti fondanti di quel Sollen nel quale riconosciamo comunque un carattere irrinunciabile del diritto, che non può, per proprio statuto epistemologico e non per un dovere morale o di altro genere, limitarsi a legittimare l’esistente, ad essere ancella di altro. Il diritto ha funzione architettonica in vista dell’attuazione della sovranità della persona, vera Grundnorm del sistema, del suo diritto ad avere diritti: in questo senso capiamo come il nostro ordinamento giuridico liberal-occidentale è nato e si è sviluppato in simbiosi con uno specifico ordinamento morale: come insegna P. Prodi, morale e diritto sono in una tensione sempre continua e ineliminabile, costitutiva della nostra storia e dei nostri diritti. Se non ci fosse, rimarrebbe la norma a una dimensione: lo Stato diverrebbe un monopolista etico, o le confessioni religiose assurgerebbero a nuovi Cesari. Poiché noi vogliamo dare a Dio quel che è di Dio e a Cesare quel che è di Cesare, costruiamo il diritto come mediazione tra etica e politica, e tra altri saperi, come una casella di un alveare che si appoggia su altre e ne è a sua volta supportata, in una comunicazione reciproca sempre aperta: infatti, ancora secondo Zagrebelsky, «Nel campo del diritto non si ha a che fare con “meri fatti” come possono essere […] quelli […] oggetto […] delle scienze naturali o delle scienze sociali descrittive […], analizzabili in termini quantitativi, e comprensibili […] alla stregua delle leggi di causalità: il diritto ha che fare con “fatti umani”, comprensibili in tutt’altro modo, cioè secondo categorie di senso e di valore», che ne sono il fondamento. Questa affermazione mi sembra una riproposizione molto perspicua delle istanze più vere del pensiero antico e medievale, che improvvidamente molti volentieri asporterebbero dal tessuto della storia. In ogni caso, trovare e dichiarare queste categorie è il problema di cui ci occupiamo, l’unico problema, si potrebbe dire, di tutta la storia della filosofia del diritto. Altrimenti, il diritto decade a semplice pretesa: può servire a emancipare o bombardare. Tutelare la vera immagine del diritto, contro i suoi fantasmi, per riprendere la lezione di Platone, è il senso stesso della nostra civiltà.
Ottavio De Bertolis
Gesuita, già docente di Filosofia del diritto presso la Pontificia università Gregoriana di Roma, autore di numerose pubblicazioni, ora docente presso la Lumsa.
14 maggio 2016