“La magnifica ossessione”. Un libro di Graziella Falconi Recensione di Pietro Folena

La magnifica ossessione è un romanzo di Lloyd C.Douglas del 1929, anno della grande crisi americana, che ha ispirato i due film, il principale dei quali nel 1954. Bob Merrick, il protagonista, a un certo punto di una vita dissoluta e sregolata, viene preso dalla “magnifica ossessione” di occuparsi degli altri.

Graziella Falconi, per anni dirigente del PCI e del PDS-DS, donna di grande sensibilità culturale (messa alla prova nel suo bellissimo libro “Oh, bimbe”, una serie di ritratti di donne del PCI), usa non casualmente il titolo di quest’opera americana per parlare dell’ossessione dei comunisti italiani per la formazione e la cultura (Una magnifica ossessione. Ed. Harpo, Roma, maggio 2016).


Di “ossessione” -termine che rimanda al capolavoro del più straordinario regista del dopoguerra, anch’egli comunista italiano, Lucino Visconti- si trattò per davvero. Graziella Falconi si occupa del tema con leggerezza -il contrario della superficialità-, con ironia, e con amore, molto femminile, per una storia grande, oramai finita. Se la formazione culturale e delle coscienze fu per tutto il movimento operaio, fin dagli albori ottocenteschi, una priorità assoluta -in un’epoca in cui la scuola non era ancora un diritto per tutti-, per il Partito Comunista Italiano divenne un’ossessione. Questo saggio non ha pretese storiche, né si può iscrivere sotto il segno della diffusa memorialistica dei dirigenti comunisti. Offre semmai, con una ricchezza di notizie e di dati attinti negli archivi, molto materiale per chi volesse cimentarsi in un lavoro storiografico su questi temi, dopo vent’anni e più di retorica nuovista, che ha portato a percepire in modo distorto e, sì, superficiale la storia del PCI. Graziella Falconi si occupa per grandi argomenti dell’ostinazione con cui il PCI si è occupato della formazione: la propaganda, la comunicazione, la straordinaria epopea delle feste dell’Unità, fino alle radio libere e ai giganteschi ritardi accumulati dal PCI con la liberalizzazione dell’emittenza tv; l’attività di stampa ed editoriale, dai primi fogli clandestini all’Unità, dal rapporto nel secondo dopoguerra con le grandi case editrici come Einaudi e Feltrinelli, fino alle riviste di settore e specializzate; la sezione culturale del PCI e i suoi rapporti fecondi e tormentati con gran parte dell’intellettualità italiana, e l’esperienza dei centri studi e di ricerca; la rete di scuole di Partito e, soprattutto, la mitica Frattocchie.

 

Si sente, in tutto questo saggio, la grande passione togliattiana di Graziella Falconi: più fredda verso quei filoni culturali più eterodossi che via via, a partire dal 68, si sono affermati nel PCI, e di cui la FGCI -e soprattutto la nuova FGCI di cui fui il segretario- è stata una delle espressioni (filoni culturali che solo si affacciano in questa ricostruzione), e più intensa e calorosa per quell’originalissima costruzione togliattiana che fu il “partito nuovo”, il partito di massa. Tuttavia Falconi -la chiamò così, rinverdendo l’antica consuetudine comunista, da lei ricordata, di chiamarsi esclusivamente per cognome (qualcosa che appare assurdo nell’era dei Matteo)- fa quest’operazione con molta ironia, e con tanto garbo. Mi farebbe piacere sapere cosa Emanuele Macaluso pensi della dedica “Maestro Jedi” tributagli dall’autrice. C’è, in questa attualissima citazione cinematografica dell’interminabile saga di Guerre Stellariuna potente intuizione: la Direzione del PCI, il gruppo attorno a Palmiro Togliatti, appariva come un’organizzazione monastica e spirituale così come i maestri Jedi di George Lucas, “ guardiani di pace e giustizia della Vecchia Repubblica, prima dell’oscurantismo, prima dell’Impero”. E’ un modo per sfottere la vecchia guardia, e la presunzione di superiorità del Migliore e del suo gruppo, ma è un modo di farlo affettuoso e riconoscente.

 

Una magnifca ossessione è un testo, oltreché godibile (e sicuramente sorprendente per i nostri figli, che non hanno idea di quale costruzione complessa fosse il PCI), che pone due problemi.

 

Il primo problema è posto agli storici. L’ossessione del PCI non fu quella dei partiti stalinisti -dal cui filone si emancipò progressivamente, dalla svolta di salerno del 1944 in poi-: la costruzione dell’Uomo Nuovo, della società socialista, fino alle sue versioni guevariane e a quelle maoiste degli anni sessanta e settanta del secolo scorso che segnarono profondamente i gruppi extraparlamentari e anche chi, tragicamente, scelse la lotta armata. Per il PCI non c’è un modello astratto o dogmatico d uomo: è un uomo storicamente determinato. E’ l’impianto storicistico del PCI, con la scelta straordinaria per l’epoca di pubblicare Antonio Gramsci e i suoi Quaderni, segna l’a vera e propria ossessione per la cultura, la nozione di egemonia non come dominio ma come produzione di senso, di idee, di valori. Voglio ricordare cosa fu in questo senso anche l’esperiuenza dei gruppi parlamentari della Sinistra Indipendente, eletti nelle liste del PCI. Il vero cruccio per me è come mai, malgrado il sacrosanto anche se tardivo tentativo dell’ultimo Berlinguer, il Partito non si sia aperto a sufficienza in forma plurale alle nuove istanze e alle nuove culture, rinnovando e rendendo più democratico quel mondo guidato da una ristretta élite, che siedeva al secondo piano delle Botteghe Oscure, nella mitica stanza della Direzione. Nel racconto di Graziella Falconi c’è la lunga parabola che -dall’egemonia delle TV commerciali negli anni 80 alle crisi dell’Unità alla rinuncia, addirittura teorizzata, che il Partito politico potesse avere una funzione pedagogica- ha portato a consumare uno straordinario patrimonio culturale collettivo, unico, per dimensioni e per potenza in tutto l’Occidente. In realtà, dall’apertura di Luigi Longo ai contestatori nel 68 alla fine del PCI, e poi anche nella complessa vicenda del PDS-DS, non si sono prodotti un pensiero né un’azione capaci di ripensare il partito politico nell’epoca contemporanea.

 

E qui c’è il secondo problema che si pone, a chi oggi ha responsabilità politiche a sinistra. Oggi i partiti sono vissuti come ceti separati. Il numero di donne e di uomini, soprattutto coloro che vivono le grandi e le piccole ingiustizie di questo tempo, che non si sentono rappresentati, è cresciuto a dismisura. In tutto l’Occidente -come dimostrano la Brexit, Trump, i populisti di destra che sfondano in molti paesi- questo vuoto rischia di essere riempito da risposte pericolose, nazionaliste, xenofobe, antidemocratiche. Tutto sommato ci si può ritenere fortunati, in Italia, pensando che il M5S -che è una realtà diversa- sia entrato lì, dove non c’è più nessuno. Ma lo stesso M5S si è organizzato per vincere, nei quartieri, nei territori, dove ci sono più ingiustizia e solitudine. Intanto da anni e anni il Partito Democratico diventava partito di eletti -non biblicamente parlando-, di rappresenatnti istituzionali, al punto di far coincidere la carica di segretario con quella di candidato/Premier, e di stabilire la regola di fatto che il Partito ovunque è diretto solo da deputati, senatori, eletti. Nessuno si occupa più della società. Altro che vocazione pedagogica. Non so se e quanto di quel grande passato si possa reimpiantare in una idea di un partito “sociale”, e sicuramente da quel passato dev’essere espunta ogni idea di superiorità morale di un’élite. Ma di maestri Jedi ha bisogno un partito vero, senza aspettare la prossima puntata di Guerre Stellari. E di persone che si dedichino, per costituzione morale e materiale del Partito, a una magnifica ossessione, a occuparsi degli altri, come ogni giorno ricorda Francesco, e a farlo con dedizione e generosità.

 

Pietro Folena

Tratto dal blog di Folena “Terra di Nesuno”

29 giugno 2016