La crescita economica? Più donne che lavorano (e più figli)
di Barbara Stefanelli, dal Corriere della Sera del 19 ottobre 2011

Il calcolo lo ha presentato ieri Bankitalia: se raggiungessimo il traguardo fissato dal Trattato di Lisbona - un’occupazione femminile al 60 per cento - il nostro Prodotto interno lordo aumenterebbe del 7% con un incremento della ricchezza nazionale (Pil) pari a quella che abbiamo faticosamente accumulato in dodici anni dal 1998 al 2010. In sintesi: promuovere la presenza delle donne sul mercato del lavoro non è solo una questione di equità, è una questione di benessere, un investimento sul futuro di tutti.

Lo chiamano «giacimento di Pil potenziale». È quella quota di crescita in più che l’Italia potrebbe esprimere e che viene invece abbandonata in una «miniera nazionale» di risorse e di stimoli mai davvero sfruttata.
Il calcolo lo ha presentato ieri Bankitalia: se raggiungessimo il traguardo fissato dal Trattato di Lisbona – un’occupazione femminile al 60 per cento - il nostro Prodotto interno lordo aumenterebbe del 7%. Un’elaborazione simile torna in uno studio di Confartigianato, dal titolo evocativo «Donne che resistono».
Se l’Italia passasse dal dato attuale di occupazione femminile (46,1%) alla media dell’area Euro (58,1%) si produrrebbe un incremento della ricchezza nazionale (Pil) pari a quella che abbiamo faticosamente accumulato in dodici anni dal 1998 al 2010.
In sintesi: promuovere la presenza delle donne sul mercato del lavoro non è solo una questione di equità, è una questione di benessere, un investimento sul futuro di tutti.
Qualche tempo fa era stato uno studio di Alessandra Casarico e Paola Profeta dell’Università Bocconi a fare la differenza in tanti dibattiti su donne e lavoro: la proiezione in quel caso era molto piccola, assai significativo lo scenario.
Sarebbero bastate 100 mila nuove occupate – dicevano Casarico e Profeta nel 2007 – per stimolare uno 0,28% in più del Pil. E se quello «zero virgola» fosse stato investito per finanziare un incremento del 30% della spesa pubblica pro famiglie, ne sarebbero derivate ulteriori opportunità di crescita.
Ormai capita che i dati sul sistema Italia sembrino il frutto di qualche errore di trasmissione tra burocrazie.
Che dire della nostra 74esima posizione nel Global Gender Gap Index, l’indice che misura le disparità di genere, su 134 Paesi?
Un campionato mondiale che non ci vede lottare neppure a metà classifica…
E che effetto vi fa sapere che ci sono province come Napoli e Crotone dove l’«inattività femminile» arriva al 72,4%, peggio del 70,4 della Turchia?
Il punto è che le italiane non rinunciano al lavoro per abbracciare, a pieno diritto, una visione tradizionale della maternità. Al contrario. Siamo arrivati a un incrocio paradossale di bassa partecipazione e bassa fecondità.
La nostra percentuale di figli per donna è diventata la più debole in Europa (1,4 bambini rispetto alla media dell’1,9): è successo che il tasso di fecondità non ha ripreso a crescere dalla fine degli anni Ottanta, come è avvenuto in tutti i Paesi a noi simili per economia e cultura.
Ed è da questo segmento che possiamo ricominciare. Dobbiamo muoverci verso quella che viene definita «la seconda transizione demografica»: i Paesi dove si fanno più figli sono oggi quelli che hanno indici di occupazione femminile più alti.
Tra i due poli della vita di una donna – professione e maternità – si crea una «relazione positiva» che rimette in moto la società. Noi siamo invece in una fase di «relazione negativa» che determina uno spreco antimoderno di talenti. La maternità – non un’antica discriminazione di genere – è il nodo da sciogliere.
Il nostro sistema di welfare è sbilanciato sulle pensioni (oltre 10 punti percentuali di spesa oltre la media Ue) a sfavore degli interventi per le famiglie (solo l’1,3% del Pil, in Francia è il doppio).
Questa è una strada percorribile, alla quale si accompagnano le nuove politiche che favoriscono la conciliazione tra vita privata e professionale (flessibilità, part time, telelavoro, congedi parentali) e interventi fiscali a sostegno dell’occupazione, soprattutto delle madri, e delle imprese al femminile.
Alle riforme si deve unire la volontà personale di rimuovere gli ostacoli culturali. Deteniamo un ultimo record d’altri tempi: le italiane dedicano al «lavoro domestico» – alla cura di casa e famiglia – 5 ore e 20 minuti al giorno, gli uomini un’ora e 35; se entrambi occupati, le donne scendono a 3 ore e 53 minuti, gli uomini a un’ora e 10.
È il momento di mischiare le carte. La femminista Lea Melandri ha incitato le donne a guardare al nuovo modo di essere padri di alcuni uomini «con meno sospetto, sfiducia e incredulità». E i giovani papà – come propone lo scrittore Gian Carlo Marchesini – potrebbero scoprire che «per le cartilagini emotive di un uomo adulto» non esiste niente di meglio di «un attivo, quotidiano esercizio di paternità».
Barbara Stefanelli

19 ottobre 2011