Sono Teresa Simeone, ho 33 anni, e sono madre di due figli. Sono una delle tante braccianti di Ceglie Messapico. …Se noi donne lottiamo possiamo ottenere qualcosa. La nostra esperienza del maggio 1986, quella dell’autogestione, ce lo ha dimostrato.
E’ per questo che io e altre quaranta braccianti oggi siamo donne comuniste. Vogliamo continuare la nostra lotta contro il caporalato, nella speranza che ci sia da parte di chi ci governa un minimo di ascolto e di considerazione. … Vogliamo almeno un accordo tra produttori e lavoratrici senza l’intermediazione dei caporali, che controllano oramai il lavoro agricolo del brindisino, del barese, del metapontino e persino della Calabria.
Così scriveva Teresa nel 1987 sul mensile della Commissione nazionale di organizzazione del PCI.
Sono Teresa Simeone, ho 33 anni, e sono madre di due figli. Sono una delle tante braccianti di Ceglie Messapico. …Se noi donne lottiamo possiamo ottenere qualcosa. La nostra esperienza del maggio 1986, quella dell’autogestione, ce lo ha dimostrato. E’ per questo che io e altre quaranta braccianti oggi siamo donne comuniste.
Vogliamo lavorare libere, senza la figura del caporale, così come abbiamo fatto da maggio a oggi. Ce l’abbiamo fatta anche se abbiamo iniziato in poche ( un numero da incoscienti, 11 lavoratrici su 3000 braccianti a Ceglie) ma grazie a noi, si sono ricredute le altre lavoratrici e siamo diventate 300. Abbiamo continuato tutta l’estate con l’acinellatura e oggi vogliamo andare avanti finché ci sarà qualcuno ad ascoltarci. Noi donne braccianti lottiamo perché vogliamo poter continuare a lavorare con l’autogestione a tempo pieno. Per questo mi sono iscritta al PCI. E’ stato l’unico partito che si è mosso a nostro favore.
Così scriveva Teresa nel 1987 sul mensile della Commissione nazionale di organizzazione del PCI. Teresa aveva partecipato all’iniziativa con Livia Turco che avevo organizzato a Brindisi dopo la morte delle giovani braccianti nel Ford Transit guidato dal caporale. Insieme a Rosa della Camera del lavoro di S. Vito dei Normanni eravamo andate a casa di alcune braccianti per parlare con loro. Con i volti segnati dalla solitudine queste donne non conoscevano né il sindacato, né il partito. Solo i caporali. Vogliono risposte concrete a una domanda antica: che facciamo senza i caporali, con nove mila lire al giorno possiamo sopravvivere, senza caporale chi ci garantisce il lavoro nelle aziende del metapontino.
All’iniziativa del maggio 1986 saranno circa 500 le braccianti nella sala della Provincia di Brindisi. Non ci sono posti a sedere. Sono presenti i partiti, i sindacati, le associazioni, e la presenza femminile delle altre realtà pugliesi.
Non immaginavo una partecipazione così grande. Rinuncio alla relazione introduttiva e passo la parola alle donne braccianti. Con interventi di qualche minuto ripetono tutte la stessa domanda. Che facciamo senza i caporali. Un operaio racconta la sua esperienza,può essere un conforto per le donne del caporalato. Dopo l’intervento di Angelo Lana della Federbraccianti nazionale conclude Livia Turco.
Livia era stata eletta nella Segreteria nazionale del PCI di Alessandro Natta. Con parole molto semplici si impegna a fare la sua parte perché si rende conto dalle presenze che il fenomeno caporalato esiste.
Il giorno dopo ci sarà il sequestro dei pulmini, le braccianti non possono lavorare, entrano nella Camera del lavoro di Ceglie Messapico e la occupano.Chiedono il lavoro. Vado a trovarle e mi invento la proposta dell’autogestione.
In realtà si trattava di una parola magica, molto cara a queste giovani donne. Il sindacalista segretario CGIL sostituisce il caporale su un pulman di linea e va a contrattare insieme alle lavoratrici nelle piccole e medie imprese del metapontino e delle zone interne. Il salario da 9mila lire passa a 29 mila lire con un contributo volontario di cinquemila lire per le spese del trasporto. Una esperienza di lotta che fa il giro d’Italia. Dai media, alla Rai regionale, dalle Feste de l’Unità alla Festa Nazionale delle donne di Arezzo, sino al salotto televisivo di Raffaella Carrà. Scrive Giglia Tedesco su Donne Parlamento Società,1986: le braccianti di Ceglie Messapico, in provincia di Brindisi, si ribellano ai caporali e decidono di autogestire il trasporto e l’ingaggio. La commissione lavoro del Senato, dopo un sopralluogo nelle zone interessate, costata, e riconosce all’unanimità, la gravità e la diffusione del fenomeno. Ma la maggioranza respinge nella legge finanziaria, il nostro emendamento teso a garantire il finanziamento dell’avvio di una lotta pubblica al caporalato, fenomeno emblematico del lavoro nero, che è in buona parte lavoro di donne.
E il femminismo con Alessandra Bocchetti vuol conoscere da me i fatti quando ci incontriamo a Bruxelles per la Carta delle donne comuniste. Con la carta delle donne in Puglia partiamo dal caporalato nel luglio 1986 quando sono eletta responsabile femminile regionale del PCI. Sapevamo bene come questa scelta riguardasse una parte. Lottare contro i caporali significava misurarsi con le preoccupazioni fondamentali del PCI: la questione democratica e la realtà giovanile.
E’ qui che si consuma il modo in cui questo sistema moderno continua a reggersi nel mezzogiorno. Non a caso si reggeva sulla divisione sessuale del lavoro e sulla svalorizzazione del lavoro e dei lavori delle donne, e non sulla grande impresa. Il caporalato pertanto diventa una forza per rompere la rassegnazione, il ricatto, la forma strutturale di uno sviluppo dove maggiori sono le trasformazioni, più alti i profitti.
Chi percepiva ancora 10, 15.000 lire al giorno di salario è la giovane bracciante che va a lavorare nelle zone irrigue del tarantino e del metapontino senza sapere per chi lavora; chi ha i livelli salariali al di sotto del 60% del salario previsto, con orari di lavoro a discrezione del titolare e paga in termini di salute il livello di salubrità dell’ambiente di lavoro è la lavoratrice a façon che lavora per Benetton, Max Mara, Ives S. Laurent, Cacharel. E’ la ragazza disoccupata e sfiduciata nelle possibilità di trovare un altro lavoro, per i tempi di attesa, due anni, soprattutto se giovanissima e in cerca di prima occupazione, anzi se trentenne e laureata deve attendere anche tre anni, spesso per fare un lavoro inadeguato al titolo di studio.
E’ la ragazza obbligata a scegliere il lavoro fuori dal mercato, costretta a fare nell’arco di un anno l’estetista, la commessa, la segretaria in uno studio professionale, l’operatrice nei servizi sociali, la precaria nella scuola, lavorare semmai nell’azienda di turismo per qualche mese estivo, e fare anche la baby sitter. Tutto questo senza un contributo previdenziale, ma solo una misera indennità di disoccupazione di 800 lire al giorno per 180 giorni. Una realtà la Puglia dove nonostante avanzi un comportamento volto a conseguire il diploma o la laurea, tanto da raggiungere alla facoltà di Scienze dell’informazione dell’Università di Bari il 29,7% di donne rispetto al 25% della facoltà di Milano, i livelli di istruzione della popolazione femminile pugliese sono inferiori rispetto al mezzogiorno.
Dinanzi a queste contraddizioni le braccianti dell’autogestione mi obbligavano a dire quali ostacoli da rimuovere, quali cose da fare, per che cosa lottare.
Sono state proprio loro a farci entrare in relazione con le altre lavoratrici, a farci scoprire una realtà ancora tutta da indagare, e a sfatare una idea di debolezza. Nel febbraio del 1987 a Bari centinaia di lavoratrici ci dicono questo all’incontro con Livia Turco che prepara la Conferenza nazionale delle lavoratrici e dei lavoratori. La loro voce non tradisce più i loro corpi. Parlano senza paura, denunciano senza vergogna la loro condizione quando incontrano Alessandro Natta.
In Basilicata il PCI organizza un Convegno interregionale dove sono presenti le piccole e medie imprese. Spetta a me fare la relazione. Sarò breve perché c’è una platea da stadio. Ma dopo quel quarto d’ora così emozionante partecipo ad un incontro a Brindisi dove invece sarò processata. Avrei ridotto quelle giovani donne ad un fenomeno da circo. Anche Rosa (alle elezioni politiche deputata) è coinvolta in questo stravolgimento. Mi assumo tutta la responsabilità e rimuovo la gravità dell’offesa. Organizzo incontri con le lavoratrici precarie e delle cooperative cosiddette rosse nei comuni pugliesi.
Stavolta però non avrò alcun sostegno, nemmeno dalle donne del sindacato. Soltanto Carla Casalini del Manifesto mi chiede di pubblicare le condizioni di lavoro e di vita raccontate nella relazione. Il caporalato invece passa nelle mani degli uomini di partito ( dal Segretario regionale, al Responsabile nazionale della Commissione agraria, alle conclusioni di Antonio Bassolino della Direzione). L’unità di tutte le forze nella lotta contro il caporalato diventa un convegno nazionale a Taranto il 19 febbraio 1987.
Sino ad allora è un fenomeno patrimonio della Federbraccianti, a parte l’impegno di Livia Turco. Non ha timore a dirlo Rosa Da Ponte già nell’81 in una commissione femminile regionale con M. D’Alema. Elaborare proposte specifiche contro il caporalato deve diventare un compito politico. E Teresa Bellanova, l’attuale Viceministro sempre nell’81 in un convegno della Federbraccianti ( Puglia, Basilicata Campania) sottolinea l’importanza dell’incontro dinanzi ad una esperienza fallimentare.
Avevo imparato molto dalla Federbraccianti, oggi Flai. Nel 1979 Peppino Trulli parla di una vertenza sul caporalato che ci ha offerto l’opportunità di entrare in contatto con migliaia di giovani e di donne che non accettano l’idea della precarietà. E Tonino Papadia allora Segretario provinciale a Brindisi scrive che L’intermediazione, in questi anni, ha contribuito ad allargare i processi degenerativi e di ricatto non solo sulle lavoratrici ( oltre 20.000), ma anche in molti casi, sulle aziende contadine, attraverso il controllo della manodopera, del salario e dei mezzi di trasporto. … Il caporale non deve determinare né il diritto al lavoro, né quello previdenziale, né tantomeno deve arricchirsi sui lavori altrui. In questi anni il danaro facile ha portato l’intermediario ad essere gestore unico della manodopera e dei flussi migratori e ad estendere la sua presenza nelle campagne in tutte le fasi lavorative.
Sono passati circa quarant’anni i corpi di giovani maschi immigrati, africani, macedoni, rumeni, polacchi e persino di bambini hanno sostituito i corpi delle braccianti pugliesi. Di caporalato ne parlano tutti: dalla Treccani nel suo dizionario agli ambulatori di Emergency, dalla Presidenza della Camera, ai Ministri. Media, Rai, TV private, scrittori, associazioni, sindacati oramai riconoscono e nominano un fenomeno non più circoscritto alla Puglia, e al metapontino.
Esso si estende in tutto il paese. Eppure è oramai un reato che modifica il codice penale e non è più delegato al sindacato, al PCI, alla sinistra. C’è il Papa. Speriamo che il Disegno di legge approvato in agosto al Senato sia presto il testo definitivo per questo fenomeno criminale sempre più meritevole di disprezzo.
Marialba Pileggi
23 settembre 2016