La via italiana alla convivenza
di Livia Turco, da Tamtàm democratico del 16 novembre 2011

I cinque milioni di immigrati e di immigrate che vivono con noi sono parte di noi, sono una popolazione e non solo lavoratori. Sono donne, uomini, giovani che ci aiutano a vivere meglio. C’è un’Italia profonda, che ha cominciato a costruire la mescolanza e la convivenza tra i diversi. Questa Italia resta tuttora nascosta e sconosciuta.  Eppure, questa realtà ha costruito  un peculiare “via italiana alla civile convivenza”.

Nel 1861, al primo censimento dell’Italia unita, erano 200.000 gli italiani all’estero. 100.000 nelle due Americhe, 80.000 in Francia, 20.000 in Germania e Svizzera. Venivano dal Piemonte, dalla Liguria, dal Veneto e dal Sud. Tra il 1876 e il 1973 l’emigrazione coinvolse a vario titolo, tra partiti, rientrati, rimasti qualcosa come 26.000.000 di individui. La lingua italiana si è diffusa sin dall’inizio in tutto il mondo e l’idea dell’Italia e di italianità è cresciuta sin dall’inizio dell’Unità d’Italia fuori dal nostro territorio. I nostri emigrati hanno costruito un’Italia transazionale perché l’hanno diffusa nel mondo ed hanno portato il mondo a casa nostra. Come ci ha ricordato il Presidente Giorgio Napolitano nel suo bellissimo discorso pronunciato alla Camera il 17 marzo scorso, nell’Italia unita c’è anche la diversità, la pluralità, la solidarietà.
 
Per costruire un’Italia forte e autorevole dobbiamo guardare alle forze in campo, alle energie che possiamo mobilitare e ai talenti da valorizzare. I 5.000.000 di immigrati e di immigrate che vivono con noi sono parte di noi, sono una popolazione e non solo lavoratori. Sono donne, uomini, giovani che ci aiutano a vivere meglio. C’è un’Italia profonda, che ha cominciato a costruire la mescolanza e la convivenza tra i diversi. Questa Italia resta tuttora nascosta e sconosciuta.  Eppure, questa realtà ha costruito  un peculiare “via italiana alla civile convivenza”.
Essa nasce nelle comunità locali alla fine degli anni ’70 quando iniziarono i primi flussi migratori. Si forma attorno ai Comuni, che fanno un gioco di squadra con il volontariato, l’associazionismo, i sindacati, gli imprenditori, le scuole. Ciò che ha favorito la via italiana alla convivenza è stato il felice incontro di alcune peculiarità dell’Italia e di alcune peculiarità dell’immigrazione: la diffusione dell’immigrazione su tutto il territorio, nei piccoli centri anche quelli disabitati; la diffusione secondo le esigenze del nostro mercato del lavoro; la presenza delle donne nelle nostre famiglie che hanno abbattuto stereotipi e che hanno costruito legami; la presenza di una democrazia diffusa dei sindacati, le associazioni, i comuni, le parrocchie che hanno coinvolto gli immigrati e sin dall’inizio hanno accorciato le distanze tra italiani ed immigrati; la scuola che ha formato i nostri ragazzi ma anche le famiglie italiane e straniere facendole incontrare e diventare capaci di parlarsi tra di loro.
 
La via italiana alla convivenza ha valorizzato il lavoro, i diritti sociali, ha puntato sul superamento delle discriminazioni, ha parlato di diritti-doveri. Di rispetto delle regole e di riconoscimento delle differenze. Ha favorito la mescolanza attraverso i gesti della vita quotidiana, nelle fabbriche attraverso il rapporto di fiducia con il datore di lavoro e l’amicizia con i lavoratori, nelle scuole, nei quartieri, nelle famiglie. Quando sono esplosi i conflitti ha saputo superarli perché l’ente locale si è messo di mezzo, cercando di capire le ragioni degli uni e degli altri, promuovendo un gioco di squadra ed individuando obiettivi comuni. Un impegno che in genere è coinciso con la lotta al degrado urbano e sociale. E con la rinascita del proprio quartiere e della propria città. È questa la storia di città come Torino, Mestre, Milano, Genova.
Fin dall’inizio la via italiana alla convivenza ha puntato sulla partecipazione politica, attraverso le consulte per gli stranieri ed i consiglieri aggiunti. Nel 1996, con il primo governo dell’Ulivo, ha incontrato finalmente la politica che con la legge 40/1996 l’ha sostenuta e valorizzata attraverso indirizzi e risorse. Legge poi del tutto abbandonata e stravolta dalle nuove normative del centro-destra. La via italiana alla convivenza civile è sociale, comunitaria, della mescolanza e dell’integrazione politica.
Ci dice che la nuova unità d’Italia è l’unità nella diversità.
 
Oggi la questione del rapporto tra immigrati ed italiani non è più solo quella dei diritti e dei doveri ma di quale Italia costruire insieme, di un nuovo progetto Italia da condividere. Per questo bisogna proporre una alleanza tra italiani ed immigrati per un’Italia migliore. Un’alleanza per lo sviluppo umano, per la dignità del lavoro, per il welfare delle sicurezze per tutti, per il diritto allo studio e la scuola interculturale per tutti, per una democrazia forte ed inclusiva. Costruire un’alleanza politica, condividere un progetto significa essere riconosciuti come cittadini, e poter aver le sedi in cui esprimersi e contare. Il tema della democrazia e della partecipazione politica è dunque oggi la questione cruciale, è il passaggio politico istituzionale necessario per creare coesione sociale e politica.
Partecipare vuol dire essere riconosciuti ma anche assumersi delle responsabilità, esercitare un dovere nei confronti della propria comunità. Abbiamo bisogno di una democrazia che consenta a chi nasce e cresce in Italia di dirsi italiano e che consenta a chi vive con noi, lavora e paga le tasse di partecipare attivamente alla vita politica. Una democrazia per essere forte deve saper prevenire lacerazioni e conflitti. La democrazia italiana deve cogliere il conflitto potenziale contenuto nel fatto che un elevato numero di giovani che nasce e cresce nel nostro Pese e si sente italiano è privo di identità, e al compimento del 18° anno se non trova un lavoro o se non frequenta con assiduità gli studi universitari diventa clandestino e rischia l’espulsione. Ha solo un anno di tempo per rivolgere domanda di cittadinanza e per poterlo fare deve avere vissuto ininterrottamente per 18 anni nel nostro Paese. Si tratta della legge sulla cittadinanza che a livello europeo è la più ostile nei confronti dei minori.
 
Consentire a chi nasce in Italia, figlio di immigrati con la carta di soggiorno, di essere riconosciuto cittadino italiano e a chi arriva in Italia di essere italiano dopo aver compiuto un ciclo di studi è una necessità e un dovere della nostra democrazia. È una grande priorità per il PD. Siamo impegnati in una campagna affinché tutti gli italiani si riconoscano nella parola d’ordine: chi nasce e cresce in Italia è italiano. In questo modo si superano i limiti del multiculturalismo.
Recentemente il leader inglese Cameron ha riaperto il dibattito sulla crisi o addirittura il fallimento del multiculturalismo. È vero, il multiculturalismo si dimostra incapace di dirimere i conflitti e di costruire convivenza quando si limita a praticare il principio della tolleranza e il rispetto della pluralità inteso come il semplice stare l’uno accanto all’altro. Quando rinuncia a  fare la fatica di conoscersi, riconoscersi, costruire una relazione reciproca, condividere, anche arricchendoli, i valori e le regole del Paese ospitante. Per costruire l’unità bisogna conoscersi e riconoscersi, condividere le scelte, sedersi allo stesso tavolo, guardarsi in faccia, contribuire a realizzare mete comuni e progetti condivisi.
Il multiculturalismo può esistere solo se si rafforza l’unità nazionale, sul piano sociale ed economico, ma anche sul piano dei valori condivisi, che fondano l’appartenenza alla cittadinanza ed alla identità collettiva. Solo se si rafforza il senso di appartenenza all’identità collettiva diventa possibile riconoscere le differenze culturali. Solo rafforzando le politiche di uguaglianza diventa possibile accettare le differenze. Occorre essere uguali e differenti.
 
La strada maestra è quella della cittadinanza e della partecipazione politica. L’Italia della convivenza non può continuare a crescere con le sole forze degli enti Locali, del volontariato, delle aziende, delle scuole. Ha bisogno di una buona politica nazionale. Ha bisogno di una nuova legge quadro sull’immigrazione che abroghi la Bossi-Fine e la Berlusconi-Maroni, riparta dalle leggi del centro-sinistra per innovarle.  Ha bisogno di avere finalmente un tavolo attorno a cui siedano governo, regioni, comuni, associazioni per costruire un Piano Nazionale per l’integrazione dotato di strumenti di informazione, monitoraggio, formazione e risorse. Che non sia come il piano “identità, incontro” varato dal governo Berlusconi in cui ci sono tante idee anche condivisibili, ma quando si va al capitolo delle risorse, leggiamo “occorre realizzare un coordinamento  tra le risorse esistenti”.  Coordinamento difficile, dato che le risorse sono inesistenti. Noi proponiamo un piano ed un fondo nazionale che sia cofinanziato dal governo, dalle regioni ed anche da soggetti privati.
Oggi vanno di moda gli innovatori e i rottamatori. Non c’è nulla di più innovativo che imparare la fatica di vivere con chi è diverso da noi e non c’è nulla di più urgente da rottamare dei pregiudizi e della paura. Perché offuscano la vista ed alterano il battito del cuore. L’Italia invece ha bisogno di uno sguardo attento e di un cuore generoso.
 
Livia Turco

12 novembre 2011