Domanda: Livia Turco perché ha scritto questo libro?
Risposta: Per tre ragioni. La prima, l’esigenza di passare il testimone di una battaglia intrapresa anni fa alle nuove generazioni. La seconda, la preoccupazione che si rischi di tornare al buio. Visto che i ginecologi che hanno combattuto per la 194 stanno quasi tutti andando in pensione, mentre aumentano, tra i nuovi, quelli obiettori. Infine, la necessità di far capire ai giovani che non è colpa loro se non fanno i figli ma di una società che non è accogliente della maternità.
D: Non è un po’ strano che Lei torni a parlare di aborto quando, in realtà, in Italia come nel resto del mondo, si registrano sempre meno casi?
R: Esattamente il contrario. È importante proprio per far capire come la battaglia per la legalizzazione dell’aborto è servita a diffondere una cultura della contraccezione, dell’importanza dei consultori familiari, del dialogo con i ginecologi che ha allentato la necessità, per le donne, di ricorrevi. Unitamente al fatto che la legge, permettendo loro di non doversi più nascondere e uscire dallo stigma sociale, le ha indotte a riflettere in maniera più matura e autonoma sul senso della maternità.
D: Lei che è una grintosa di sinistra, cattolica e paladina della 194, come etichetterebbe oggi, politicamente, un soggetto come l’americano Scott Arbeiter, fervente cattolico e anti-abortista convinto che però è pro-immigrati?
R: In verità, con gli occhi dell’italiana mi è difficile dargli una collocazione politica. A primo impatto, mi verrebbe da dire un conservatore sui generis. Certamente, non un uomo di destra. Proprio perché chi, come lui, difende il diritto alla vita a 360°, dalla formazione dell’embrione alla protezione del rifugiato che scappa dalla guerra, in un altro paese, per salvarsi, è qualcuno di veramente e profondamente coerente con l’essenza più pura del principio pro-life.
D: Per finire, c’è un tema che il mio giornale ha più volte affrontato, quello della sessualità dei maschietti. Non è che la battaglia per le donne l’ha messa un po’ da parte?
R: In parte non è vero, in parte sì. Non è vero nella misura in cui io, personalmente, nel libro mi rivolgo a ragazzi e ragazze. Perché, per me, la questione dell’aborto non è solo un fatto femminile, ma di entrambi i sessi. Anche il maschio va educato alla contraccezione, alla responsabilità genitoriale, alla prevenzione dei comportamenti sessuali a rischio. Per contribuire, così, a un ulteriore calo del ricorso all’interruzione volontaria di gravidanza. E anche, come Lei sottolinea, alla riduzione delle conseguenze legate ai tabù che vivono: il ricorso alla droga e alla violenza sulle compagne per sentirsi forti. È pur vero, però, che in generale delle difficoltà dei maschi se ne parla meno, che la questione della salute sessuale maschile non è sotto i riflettori come quella femminile.
D: Se Lei fosse Ministro della salute oggi, cosa farebbe per gli uomini?
R: Punterei a tre soluzioni. Innanzitutto, partirei dal dialogo in famiglia. In particolare, dal potenziamento della relazione madre-figlio maschio per scardinare gli imbarazzi e fare in modo che lui si senta libero di parlare di un problema. In secondo luogo, istituire corsi di educazione sessuale e consultori maschili obbligatori nelle scuole. Infine, l’obbligo, da parte delle aziende, di riservare una quota fissa di congedi parentali per i padri. Così come avviene già in altre realtà europee avanzate.
Annalisa Lista
Intervista pubblicata su West
09 febbraio 2017