L’86% dei Direttori generali e l’80% dei farmacisti ospedalieri del Ssn sa cosa sia la medicina di genere, ma tra i medici i più informati a riguardo sono gli oncologi, che sfiorano il 77%, seguiti dai neurologi con il 75%. Tra gli altri specialisti, meno di uno su 4 sa cosa si intenda per “medicina di genere”, anche se tutti si aspettano che produca presto alcuni cambiamenti, a cominciare da nuove linee guida e da foglietti illustrativi dei medicinali declinati in "rosa" e "celeste", segnalando cioè come, in molti casi, uomini e donne debbano utilizzare diversamente i farmaci, aspettandosi anche risposte e reazioni avverse differenti.
La medicina di genere è nata negli anni ‘90 negli Stati Uniti, in particolare in ambito cardiologico, proponendosi di rivedere dalle fondamenta la medicina, partendo dalla semplice costatazione che tra uomini e donne vi sono grandi differenze, in termini biologici, funzionali e psicosociali, e che dunque occorre tenere conto di queste diversità.
Fino ad allora, invece, la medicina si era occupata di un corpo “neutro”, che in realtà corrispondeva a quello di un maschio adulto, bianco, di media corporatura e intorno ai 35 anni. Approcci terapeutici, farmaci, strategie di prevenzione sono stati tarati, e in larga parte lo sono ancora, per questo paziente ipotetico, e non sorprende dunque che, ad esempio, le donne facciano registrare una maggiore incidenza di effetti collaterali.
Alla medicina di genere e agli interventi che da essa discendono per poter offrire cure appropriate alle donne e agli uomini è stato dedicato oggi un convegno che si è svolto a Roma, “La salute della differenza”, organizzato dal Giseg, Gruppo italiano Salute e Genere, con la collaborazione di Novartis.
I lavori del Convegno sono stati aperti dal saluto del nuovo presidente di Novartis Italia,
Philippe Barrois, seguito dall’intervento di
Flavia Franconi, farmacologa dell’Università di Sassari e vera “locomotiva” dello sviluppo della medicina di genere in Italia. Franconi ha sottolineato soprattutto il valore universale di questo approccio: “Il genere non è medicina delle donne. La Medicina di Genere è di tutti e per comprendere appieno il suo intrinseco significato dovremmo iniziare a parlarne come di medicina sesso-genere (sex-gender medicine), perché le differenze biologiche hanno la stessa importanza delle differenze socio-ambientali”.
La farmacologa ha poi illustrato i risultati di una survey, realizzata dal Giseg e rivolta ad un campione di operatori della sanità italiana per rilevare il grado di conoscenza della Medicina di Genere e le loro aspettative a riguardo.
“Mi sembra che i primi risultati della ricerca siano incoraggianti – commenta Franconi – la percezione della tematica è buona. Il nostro sistema sanitario è consapevole del problema ed è pronto ad adottare i principi della Medicina di Genere. L’86% dei direttori generali e dei direttori sanitari ha una conoscenza specifica alta, ugualmente alta è la conoscenza da parte degli specialisti: 62% dei cardiologi, 77% degli oncologi sanno cos’è la Medicina di Genere”. “Forse c’è ancora bisogno di comunicare – aggiunge – e infatti i medici e i decisori sanitari chiedono educazione e informazione sul tema, ma si dichiarano pronti a diventare attori di questa trasformazione”.
Non siamo comunque all’anno zero: la medicina di genere in Italia può già contare su alcune realtà, come il Progetto strategico “Salute donna” coordinato dall’Istituto superiore di Sanità. “L’obiettivo finale della Medicina di Genere – spiega
Stefano Vella, Direttore Dipartimento del Farmaco dell’Iss e coordinatore del Progetto – è proprio la ricerca traslazionale, ovvero riuscire a capire le differenze tra il genere femminile e quello maschile per meglio disegnare cure appropriate, ma anche per lavorare sui determinanti sociali che talvolta pesano quasi più della biologia e della genetica nell’influenzare le patologie: ad esempio, sappiamo che l’arrivo delle donne ai controlli medici in seguito a sintomi specifici è spesso più tardivo rispetto a quello degli uomini, che probabilmente si ‘preoccupano’ più rapidamente per la propria salute. Anche i farmaci – prosegue Vella – non sono sempre ‘tagliati’ sulla donna (che è stata in passato pesantemente esclusa dagli studi clinici), che tra l’altro soffre maggiormente degli inevitabili effetti collaterali. La Medicina di Genere grazie ai tanti gruppi di studio nati in tempi recenti, non ultimo quello istituito dall’Aifa, aiuterà ricercatori, medici e operatori del Ssn a superare queste diseguaglianze”. Sempre che si riesca a mantenere in vita queste esperienze di ricerca, visto che, ad esempio, il Progetto “Salute Donna” esaurisce con quest’anno i finanziamenti stanziati, “anche se – aggiunge ancora Vella – tutti i 25 Centri di ricerca italiani che vi partecipano sperano che si trovi il modo di rifinanziarlo, pur in un contesto economico così difficile”.
La rilevanza delle differenze di genere sono particolarmente evidenti riguardo alle malattie cardiovascolari e neurologiche. La sclerosi multipla, ad esempio, colpisce le donne più frequentemente rispetto agli uomini, come ha spiegato la neurologa
Maria Trojano dell’Università di Bari. “C’è un incremento significativo del rapporto femmine/maschi specie in Nord Europa e in Nord America – ha detto Trojano – dove ormai la differenza raggiunge il 4 a 1. Fattori ambientali (uso di contraccettivi orali, modifica della dieta, esposizione solare e vitamina D) sembrano giocare un ruolo importante in questo incremento. Sappiamo anche che il genere influenza il corso della malattia: le donne hanno una prognosi migliore rispetto agli uomini, hanno meno frequentemente forme progressive e presentano più lesioni infiammatorie alla risonanza magnetica; viceversa gli uomini presentano forme più aggressive con una maggiore componente neurodegenerativa”.
Importante anche una nuova valutazione dei farmaci in un’ottica di genere: anche farmaci molto conosciuti, analizzati in una prospettiva di genere possono infatti rivelare come un loro uso appropriato sia diverso tra uomo e donna. Proprio per questo Novartis ha voluto avviare il primo studio osservazionale incentrato sull’impatto delle differenze di genere sulla risposta alle cure, rivolto a studiare il follow out dell’impiego della ciclosporina nella psoriasi.
“Lo studio al quale parteciperanno 55 Centri universitari e ospedalieri di Dermatologia, – ha spiegato
Gaia Panina – si baserà sull’osservazione di 1.200 pazienti affetti da psoriasi a placche in trattamento farmacologico con ciclosporina; durerà 18 mesi e la pubblicazione dei risultati dello studio è prevista per il 2013. La popolazione di pazienti sarà composta da 800 donne, delle quali 400 in età fertile e 400 in menopausa, e 400 uomini. L’iter etico-amministrativo è concluso e lo studio è entrato nella fase di arruolamento”. Ma per sostenere i costi di queste ricerche occorre che si rafforzi il rapporto tra istituzioni politiche, università, Ssn e aziende farmaceutiche, ha sottolineato Panina, ricordando che dal 1997 ad oggi si sono ridotte del 44% le molecole protette da brevetto, mentre i costi per R&S sono cresciuti del 330%.
Il Convegno si è concluso con una tavola rotonda, condotta da
Enrico Mentana, che ha messo ha confronto esponenti della politica e della ricerca.
Livia Turco (Pd, Commissione Affari Sociali della Camera) ha ricordato vivacemente l’impegno durante il suo mandato di ministra della Salute per sviluppare una medicina di genere: “Pensavano che fosse una cosa ideologica, da femminista, invece siamo riuscite a far partire progetti concreti, come i Master universitari sulla medicina di genere e i progetti per la Salute della donna”. Ma anche in questi anni all’opposizione qualcosa è stato fatto: “Voglio ricordare il provvedimento delL'ex ministro Fazio che ora è al Senato e al quale abbiamo collaborato positivamente – ha detto Turco – riuscendo ad introdurre un emendamento che prevede la parità di genere nel reclutamento dei pazienti per i trials clinici”. Un risultato condiviso anche da
Dorina Bianchi, che da un opposto schieramento politico e dall’altro ramo del Parlamento, ha sostenuto questo emendamento. “Lo sviluppo di una medicina di genere – ha sottolineato Bianchi – porta ad una migliore appropriatezza delle cure, che è un vantaggio per tutti e anche per i conti della sanità”.
Guardare alle patologie in questa prospettiva consente anche di cogliere alcuni cambiamenti in atto, ha fatto notare
Giuseppe Rosano, del San Raffaele di Roma: “Quando mi sono laureato, nel 1985, le malattie cardiovascolari colpivano in grande prevalenza gli uomini. Oggi, per ragioni culturali, ambientali e sociali, le cose sono cambiate e queste malattie sono la prima causa di morte sia per gli uomini che per le donne. Occorre fare informazione su questo, rivolgendosi sia agli operatori che ai cittadini”.
E, come ha ricordato
Raffaella Michieli della Simg, molto potrebbero fare in questo senso i medici di medicina generale, sia rivolgendosi alle persone, sia raccogliendo dati epidemiologici importanti: “Possiamo ottenere importanti informazioni sulla realtà delle patologie e delle cure, ma occorre sviluppare l’informatizzazione e la registrazione di questi dati”.
La raccolta dei dati e la loro elaborazione resta però un problema aperto, ha riferito
Anna Maria Moretti, coordinatrice della Commissione regionale per la medicina di genere dell’Ares Puglia: “La Regione Puglia ha manifestato una considerevole attenzione alle problematiche di genere nella definizione del piano sanitario regionale e siamo anche riusciti a sviluppare un software efficace per la raccolta di dati epidemiologici, che prevede l’inserimento di dati di genere. Ma in altre Regioni questo non è possibile”.
Eva Antoniotti
22 novembre 2011