Cittadinanza e convivenza di Livia Turco

C’è  un aspetto  poco  sottolineato nel dibattito  pubblico sulla legge di riforma della cittadinanza per i minori figli di immigrati. Il fatto che tale riforma non solo favorisce l’integrazione dei giovani “ Italiani di fatto “ ma propone una concezione della cittadinanza maggiormente in sintonia con il nostro tempo. Perché  mitiga l’impianto  rigorosamente ed esclusivamente ius sanguinis  del nostro ordinamento.


La legge 91/92che disciplina attualmente la materia della cittadinanza  si basa infatti in modo esclusivo sul legame di sangue . Affonda le sue radici nella famiglia. La cittadinanza si acquisisce  per discendenza, come eredità, o per matrimonio come una dote.   Lo ius sanguinis e lo ius connubii  son gli assi portanti della nostra legislazione in vigore. La legge 91/92 fu elaborata avendo in mente l’Italia dell’emigrazione, fu concepita come uno strumento , in continuità con la legislazione precedente, per mantenere  un  legame forte tra il nostro paese  ed i nostri cittadini emigrati all’estero, legame che attraversa le generazioni. L’articolo 17 della legge 91 aveva  aperto una speciale  finestra  per consentire di  riacquistare la cittadinanza  agli stranieri di origine italiana residenti all’estero che l ‘avevano  persa  per qualunque motivo.   La finestra rimase  aperta  fino al 1997 e consentì  a 164.00 persone di diventare italiane. Recentemente con la legge 124/2006 tale  finestra è stata riaperta senza limiti di tempo. Per la prima volta il legislatore ha introdotto i requisiti della conoscenza linguistica e dei persistenti legami culturali con l’Italia  ma  è sufficiente   avere    almeno un nonno di nazionalità italiana per diventare italiano. Un antenato basta a diventare cittadino con tutti i diritti collegati a questo status che anche per quanto riguarda gli italiani che sono all’estero non sono pochi come il diritto di voto.   Come è noto la legge in vigore stabilisce a dieci anni di permanenza legale continuativa nel nostro paese, con determinati requisiti che attestino la piena integrazione ,  la condizione  per gli immigrati di rivolgere domanda di cittadinanza, il più elevato a livello europeo, mentre per i minori, unico paese in Europa, la legge stabilisce che essi possano rivolgere domanda per acquistare  la cittadinanza se sono vissuti “ininterrottamente” per 18 anni sul territorio italiano.   Dunque un minore che deve rientrare nel suo paese per alcuni anni per ragioni indipendenti dalla sua volontà perde il diritto. Per gli stranieri di origine italiana sono richiesti solo tre anni che diventano due se il soggiorno in Italia è avvenuto prima della maggiore età. L’altra via che ben si inserisce in questa concezione familista della cittadinanza è l’acquisizione per matrimonio. Il requisito richiesto sono 6 mesi di convivenza matrimoniale se la coppia risiede in Italia e tre anni se risiede all’estero.   Tutti gli altri paesi europei richiedono tempi più lunghi di durata del legame per i coniugi residenti nel paese. Con la legge che  consente anche alle donne di trasmettere la cittadinanza italiana( legge 123\ 1983) è concesso anche agli uomini stranieri di fare domanda di naturalizzazione, iure connubii, in  qualità di mariti delle italiane.   La prima discussione sulla riforma della legge sulla cittadinanza si svolse in un seminario promosso nel febbraio del 1999 dal  Ministero della Solidarietà Sociale del Governo Amato. Fu una discussione che coinvolse personalità di culture e appartenenze  politiche diverse e che partiva già allora da quello che gli operatori sociali e gli educatori definivano “ il limbo dell’identità” che vivevano i ragazzi  figli di immigrati cresciuti ed integrati nel nostro paese.   Fu sollecitata anche dalla scelta operata dal Governo e dal Parlamento  della Germania  che riformavano  la loro  legge sulla cittadinanza temperando il principio  dello ius soli.  Ne scaturì  una proposta di riforma complessiva della legge 91\92  che non fu portata in Consiglio dei Ministri e fu depositata dalla sottoscritta in Parlamento insieme con Luciano Violante nell’agosto del 2001 e costituisce la prima proposta di riforma della cittadinanza. Legge che non ebbe neanche la dignità di una discussione.   Bisogna attendere  la legislatura iniziata nel 2008 perché il tema sia  posto nell’agenda politica del Parlamento, anche grazie ad una forte mobilitazione sociale, con una discussione molto forte ed aspra che vide il centrodestra sulle barricate per  impedirne l’approvazione. Non propongo certamente di mettere in discussione il nostro speciale legame con gli italiani che vivono in tante parti del mondo e che da emigrati hanno contribuito a far crescere il nostro paese.   Quello che mi sembra necessario  è porre  il nostro paese in sintonia con i cambiamenti sociali e culturali   che sono intervenuti e dunque  mitigare il legame di sangue e familiare quali esclusivi pilastri della cittadinanza  con una concezione della medesima  che valorizza la permanenza nel territorio della nazione ospitante,   la condivisione  dei  valori e delle regole del nostro paese , il legame di amicizia ed  il perseguimento concreto e condiviso  del bene comune.   La cittadinanza come “amicizia civica e comunità di destini”. In cui conta molto il “ per che cosa viviamo insieme”  “come realizziamo insieme il bene comune”. E’ esattamente questo  il valore aggiunto che apporta la  legge in discussione  sulla riforma della cittadinanza  quando  prevede  che i minori nati in  famiglie  lungoresidenti  e integrate,  gli adolescenti che  abbiano frequentato un ciclo di studi,  siano  considerati  italiani, su richiesta dei genitori e con successiva convalida della scelta al diciottesimo anno da parte del  singolo giovane.   Anziché accanirsi contro queste norme di buonsenso  conviene avere ben presente che lo sforzo grande che deve fare il nostro paese è quello di prevenire il conflitto delle seconde generazioni esploso in altri paesi europei. Come reazione alle condizioni di esclusione in cui sono vissuti  nonostante la promessa di uguaglianza che lo Stato e le istituzioni avevano loro fatto.   Bisogna, insieme alla legge, fare grandi e mirati interventi nella formazione, per creare opportunità  di reale apprendimento della Lingua italiana, della cultura; per  consentire e favorire l’accesso a  percorsi formativi capaci di inserire nel mercato del lavoro.   Ci devono  preoccupare gli abbandoni scolastici, la rinuncia a perseguire gli studi da parte di tanti giovani figli di immigrati. Inoltre, bisogna promuovere tra i giovani, nuovi italiani, un adeguato senso civico attraverso  la cittadinanza attiva come la partecipazione al servizio civile e ad altre forme di impegno sociale e culturale che veda i giovani e le ragazze, italiani e nuovi italiani, tra loro mescolati.   La mescolanza, l’interazione nei gesti della vita quotidiana, la condivisione di obiettivi comuni, il conoscersi e riconoscersi sono le strade che realizzano la convivenza e che garantiscono la sicurezza per tutti/e.   Livia Turco   Articolo pubblicato su Il Dubbio

22 ottobre 2017