Bella festa, non c’è che dire, ricordare gli imminenti quarant’anni della legge che consente l’aborto e ritrovarsi – recentissimi dati ufficiali del ministero della Salute – con il 70,9% di medici obiettori, ma nel Mezzogiorno si va oltre l’88%, con il primato regionale del Molise: solo un medico, uno solo, che dà sostegno alle donne (con nove interventi alla settimana) perché gli altri che fanno? Obiettano.
Allora ricordiamo i precedenti, così, per chi ha la memoria corta. La 194 (“Legge 22 maggio 1978 n. 194, Norme per la tutela sociale della maternità e sulla interruzione volontaria della maternità”) non solo era stata approvata a larga maggioranza, ma aveva superato alla grande l’ostacolo del referendum abrogativo del 17 maggio 1981: 88,40% in difesa della legge, più ancora della percentuale con cui era stata sconfitta la pretesa di annullare la legge sul divorzio. A pretendere l’abrogazione della 194 solo la destra fascista e la destra cattolica. E allora come si spiega allora che tanti medici (e, con loro, tanti infermieri) hanno approfittato di una pur scrupolosa norma a tutela della singola coscienza per farsi obiettori e lasciare campo libero alle mammane e alla speculazione delle cliniche private? Le spiegazioni sono molteplici, ma nessuna soddisfacente. Tranne che il contrasto all’obiezione di massa non avviene, che i controlli sono inesistenti, che manca del tutto un impegno del ministero della Salute a fronteggiare il fenomeno.
Con il risultato che l’obiezione aumenta, seppur di poco, di anno in anno: sul piano nazionale nel 2016 è aumentata dello 0,4% rispetto all’anno precedente. Né vale la giustificazione ministeriale che nel 1993 c’erano 1.607 ginecologi per 234mila aborti mentre nel 2016 i medici non obiettori sono stati 1.481 per 85mila interruzioni. Perché il fatto sostanziale è che, intanto, le dimensioni dell’obiezione sono cresciute a dismisura, soprattutto nel Sud dove, tranne un caso, si vola oltre l’88%. Scomponiamo questo dato? Ecco i risultati: Abruzzo: non obiettori 15 contro 83 obiettori; Campania appena 53 contro un esercito (235) di obiettori; Puglia idem: 46 contro 281; per non parlare della Sicilia: 69 non obiettori contro 377 medici che si rifiutano, “pèer motivi di coscienza”, di applicare la legge. Parziale eccezione della Calabria dove i non obiettori sono 17 contro 40.
A questo punto è necessario andare con la memoria (del computer) all’esito, quattr’anni addietro, di due ricorsi al Consiglio d’Europa in cui si denunciava la violata libertà d’aborto in Italia. Un ricorso della Laiga (Associazione per l’applicazione della 194) che denunciava la sostanziale sparizione dei medici abortisti, ed un ricorso parallelo della segretaria generale della Cgil, Susanna Camusso che sottolineava l’esigenza di far valere non solo i diritti delle donne ma anche quuelli dei medici non obiettori “sui quali grava tutto il carico di lavoro relativo alla interruzioni di gravidanza”. Ebbene, i ricorsi non solo furono accolti, ma severissima fu la contestazione nei confronti dell’Italia del Comitato europeo dei diritti sociali, diretta emanazione del Consiglio.
Su due elementi distinti ma coerenti si fondò la dura censura del Comitato. Il primo: “Le autorità competenti non assicurano il diritto delle donne di accedere alla interruzione volontaria di gravidanza alle condizioni previste dalla legge, e ciò si traduce nella violazione del loro diritto alla salute garantito dalla Carta sociale europea: Il secondo elemento era – ed è – costituito da una “discriminazione irragionevole”. Questa: “Le donne sono costrette a spostarsi da una struttura all’altra [da una regione all’altra, aggiungerei, ndr] con ciò compromettendo il loro diritto alla salute, anche tenendo conto che in materia di interruzione volontaria di gravidanza il fattore tempo assume un rilievo cruciale”. Nel render noto il documento del Comitato (approvato con 13 voti a favore e uno solo contrario), Camusso lo aveva definito “un atto forte che sancisce un diritto fondamentale e incontrovertibile delle donne: quello della libertà di scegliere della propria vita e del proprio corpo con un’assistenza adeguata come prevede la legge”.
Bene, anzi male. Sono passati quattro anni, la percentuale degli obiettori continua ad aumentare. A proposito: l’escalation è stata particolarmente accentuata tra il 2005 e il 2009: dal 58,7 a oltre il 70 per cento e da allora si è stabilizzata. Sarebbe interessante una indagine socio-sanitaria che aiuti a capire che cosa ha dettato e detta questo rifiuto di massa ad assistere le donne che desiderano ricorrere all’aborto e che, per fortuna o grazie alle pillole “del giorno dopo” o “dei cinque giorni dopo”, sono comunque in diminuzione.
C’è dunque da chiedersi daccapo: che fa il ministero della Salute, e che cosa fanno le singole regioni, per fronteggiare questa carenza di medici abortisti? Esisteva un tavolo di monitoraggio ministero-regioni per verificare le singole criticità e per vigilare dove e come non vi siano le condizioni per una piena applicazione della legge su tutto il territorio nazionale. Che fine ha fatto? E perché il recente rapporto annuale del ministero della Salute (da cui si son tratte qui le percentuali di obiezione sia nazionale che meridionale) non accenna minimamente al monitoraggio e men che mai alle misure per fronteggiare le spaventose carenze di medici abortisti?
Giorgio Frasca Polara
02 febbraio 2018