Come saremo fra cinquant’anni

L'Istituto nazionale di statistica nel report "Il futuro demografico del Paese", stima che fra meno di cinquant’anni il numero delle morti potrebbe essere il doppio di quello dei neonati. In crescita, invece la stima sul numero dei migranti: saranno oltre14 milioni.


Dunque a guardare le stime dell’andamento demografico abbiamo di fronte la prospettiva di un paese più vecchio, poche nascite, molti decessi con la popolazione italiana che continua a calare e nel 2065 potrebbe raggiungere quota 54,1 milioni, con una flessione di 6,5 milioni rispetto al 2017 (-10%).

Se le stime saranno confermate nei prossimi anni, il numero delle nascite non riuscirà a compensare quello delle morti e la popolazione italiana si contrarrà. I dati riportati dall’Istituto nazionale di statistica evidenziano gli effetti di questo calo nel breve, medio e lungo periodo: prendendo i 60,6 milioni di persone del 2017 come punto base delle previsioni, si potrebbe arrivare a 60,5 milioni nel 2025 per un tasso di variazione medio annuo pari al -0,1 per mille. Un calo che si fa più accentuato nel medio termine: la popolazione italiana potrebbe scendere a 59 milioni tra il 2025 e il 2045, con un tasso di variazione medio annuo del -1,5 per mille.  In una prospettiva di lungo termine, fino al 2065, la popolazione potrebbe diminuire ancora con un tasso di -4,3 per mille ogni anno: la popolazione totale ammonterebbe a 54,1 milioni, con una perdita complessiva di sei milioni e mezzo di residenti rispetto a oggi.

Determinante nella diminuzione progressiva della popolazione italiana è il calo delle nascite: troppo poche per compensare il numero di decessi. Nei primi anni di previsione il saldo naturale raggiunge quota -200 mila, per poi passare la soglia -300 e -400 mila nel medio e nel lungo termine. Fino al 2065 la fecondità è prevista in rialzo da 1,34 a 1,59 figli, ma l'incertezza aumenta man mano che passano gli anni, oscillando al termine del periodo di previsione, tra l'1,25 e l' 1,93 figli per donna. Nel 2065 il numero dei morti in Italia potrebbe essere il doppio di quello dei neonati.

C'è un dato che invece continuerà a crescere nei prossimi cinquant'anni: quello dell'immigrazione. L'Istat ha stimato l'arrivo in Italia di più di 14 milioni di immigrati. Nel report si prevede un numero annuale di immigrati gradualmente discendente, dagli iniziali 337 mila unità nell'anno base fino a 271 mila persone all’anno nel 2065. Per quanto riguarda gli emigrati per l'estero, dopo una prima fase di lieve diminuzione, da 153 a 132 mila tra il 2017 e il 2035, si prevede un'evoluzione stabile nel medio e lungo termine, intorno a un valore medio di 130 mila unità annue dal 2035 in avanti. In totale sarebbero 6,6 milioni gli emigrati dall'Italia. Il saldo migratorio con l'estero basato sullo scenario mediano è dunque positivo.

Un altro aspetto demografico su cui si concentra il report dell'Istat è l’età media delle persone. In futuro la sopravvivenza è prevista in aumento, tanto che entro il 2065 la vita media potrebbe crescere di oltre cinque anni per entrambi i generi: più di 86 anni per gli uomini e oltre 90 per le donne (80,6 e 85 anni nel 2016).

Lo scenario futuro è quello di una popolazione autoctona che diminuisce e invecchia: vedremo impoverire soprattutto la parte più giovane e quella delle età adulte al centro della vita riproduttiva e lavorativa del paese.

 Per non condannarci anche al declino economico e all’insostenibilità dello stato sociale, è uno scenario che chiede come risposta, politiche lungimiranti sui meccanismi di rinnovo demografico, favorendo di più la scelta di avere figli con politiche attive per la famiglia e gestendo meglio l’immigrazione. Ignorare la demografia è stato uno degli errori fatali del nostro percorso di sviluppo negli ultimi decenni.

Può essere istruttivo, allora, leggere la recente crisi economica come l’anticipazione di quello che potrebbe essere il nostro futuro se non interveniamo per tempo. Dal punto di vista demografico nel corso del 2015, per la prima volta dopo la seconda guerra mondiale, la popolazione complessiva è diminuita. La riduzione è stata lieve (-139 mila unità secondo la stima dell’Istat. Ma il dato è ancora più eclatante se lo si confronta con le previsioni prodotte dall’Istat solo cinque anni prima (base 2011): la differenza risulta di oltre un milione di residenti (60,7 milioni contro 61,8 milioni). Conseguenza di un raffreddamento delle entrate dall’estero, un aumento delle uscite, un affossamento delle nascite (che nel 2015 hanno toccato il punto più basso dall’Unità a oggi) con ampliamento del divario negativo rispetto ai decessi (in progressivo aumento per l’invecchiamento della popolazione). Un indebolimento, quindi, delle componenti della crescita sensibilmente peggiore rispetto alle previsioni.

La crisi, insomma, ha colpito duramente, ma rispetto al futuro che ci aspetta dobbiamo imparare a prendere la demografia seriamente, sennò la durezza di una crisi sarebbe ben maggiore.

Se le cause del cosiddetto autunno demografico cronico sono ben note – l’istruzione femminile ad alti livelli, il ritardo della prima maternità, la crisi economica perdurante, la struttura per età che vede la popolazione in età riproduttiva ridursi senza sosta – il dibattito si fa più acceso se rivolto a quali provvedimenti si debba ricorrere per farvi fronte.

Posto che le trasformazioni epocali sulla società occidentale che abbiamo avuto nel corso del xx secolo sono ovviamente irreversibili e che non si possono certo considerare negative le conquiste sociali che hanno portato all’emancipazione ed ad una maggiore libertà delle donne, va rilevato che in Francia, nonostante la popolazione sostanzialmente pari a quella italiana, le nascite raggiungono quota 750mila contro le 500mila nostrane, segno inequivocabile che laddove la demografia viene presa sul serio e affrontata con adeguate politiche socioeconomiche di supporto, i risultati non tardano ad arrivare.
Eppure nel nostro paese non si è ancora presa coscienza dell’importanza fondamentale che la demografia riveste in chiave sociale, economica e di vitalità di uno stato.

Certo i risultati possono arrivare in presenza di interventi strutturali e comunque nel lungo termine, non con misure estemporanee come i bonus bebé che hanno una rilevanza puramente temporanea,  il meglio che niente.

 Nel migliore dei casi, una eventuale politica strutturale rivolta ad alleviare il problema demografico impiegherebbe comunque decenni per sortire i propri effetti.

Dunque occorre cominciare subito ed in sinergia: politiche di adeguati servizi alla persona,infanzia ed anziani, defiscalizzazione di tutte le forme di social care per la famiglia, passare dai benefit economici ai benefit in servizi, nel mondo del lavoro per agevolare e non penalizzare il lavoro delle donne, rivedere il sistema fiscale per renderlo davvero progressivo ed equo in rapporto alla famiglia e al numero e alla tipologia dei suoi componenti.

Sviluppare le reti di comunità per rispondere ad adeguate politiche di servizi alla persona. Lanciare un cospicuo piano di investimenti pubblici per favorire crescita e sviluppo guardando agli attuali ed ai futuri italiani.

Il declino demografico non è quindi solo una questione di calo della popolazione, ma ancor più di squilibri tra generazioni con le implicazioni sociali ed economiche che ne derivano. Il dato negativo del 2015 ci dice che il “degiovanimento” (riduzione dei giovani) è addirittura più forte dell’invecchiamento (aumento degli anziani): ovvero perdiamo più giovani di quanti anziani guadagniamo.
Cosa fare per non subire, o comunque limitare, le conseguenze negative sul nostro futuro? Favorire la ripresa delle nascite è condizione necessaria (e urgente) ma non sufficiente.

Occorre a mio modo di vedere, oltrechè con politiche attive per la famiglia che citavo prima, agire in altre tre direzioni contemporaneamente: migliorare la formazione di base e l’acquisizione di competenze avanzate nelle nuove generazioni; investire in politiche in grado di migliorare la possibilità di essere attivi e solidamente inseriti nel mercato del lavoro; gestire flussi di immigrazione funzionali al nostro modello economico e bilanciati rispetto alla possibilità di integrazione dinamica nel nostro modello sociale.
Su tutti e tre questi punti dobbiamo dimostrare di saper fare meglio e di più se non vogliamo condannarci a un irreversibile declino, non solo demografico,ma sociale, economico e culturale.

Grazia Labate

Ricercatore in economia sanitaria già sottosegretaria alla Sanità

06 maggio 2018

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