Art. 3 “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso], di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”
Il passaggio da “cittadini” a “ lavoratori” fa fare un balzo sulla sedia, in generale e specificamente per quanto riguarda le donne. Chi non è lavoratore (per il mercato) non ha problemi di effettiva partecipazione? E se li ha, non costituisce un problema per le politiche pubbliche?
E’ vero che il successivo art. 4 fornisce una definizione estensiva di “lavoratore”. Dopo aver affermato che la repubblica riconosce il diritto al lavoro e ne promuove le condizioni, parla di “un’attività o una funzioni che concorrano al progresso materiale e spirituale della società”, allargando il concetto di “lavoro”.
L’ ambiguità, tuttavia, a mio parere non è completamente sciolta, e attraversa tutta la Costituzione. Riguarda non solo il legame, l’interdipendenza (nell’art. 3, ma anche nell’art. 1) tra cittadinanza e partecipazione al lavoro remunerato, ma anche il disconoscimento del lavoro famigliare come lavoro, nella misura in cui all’art. 37 questo viene evocato (in modo un po’ naturalistico) come adempimento della “essenziale funzione familiare” delle donne. Questa identificazione di cittadino e lavoratore, per altro, comporta rischi di esclusione non solo per le donne, ma anche per i bambini e coloro che sono variamente incapacitati a svolgere una attività che concorre “al progresso materiale e spirituale della società”. Per sciogliere questa ambiguità è stato necessario, e continua ad esserlo, il triplo livello dell’azione dei movimenti delle donne negli anni: promuovere la parità nel mercato del lavoro, far riconoscere il lavoro famigliare come attività non solo necessaria e di valore, ma come base autonoma di un diritto di cittadinanza, promuovere una redistribuzione di questo lavoro.
Tornando agli art. 3 e 4 della Costituzione, pur con l’ambiguità sopra richiamata, se ne può dedurre che sia gli ostacoli alla partecipazione delle donne ad un lavoro di loro scelta, sia quelli che incontrano come lavoratrici (in senso ampio) a partecipare all’organizzazione politica, economica e sociale costituiscono un vincolo alla loro piena uguaglianza come cittadine. Operare per rimuoverli è costituzionalmente fondato ed anzi obbligatorio. Non solo la repubblica ha il dovere di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano la libertà e l’uguaglianza dei cittadini e ne impediscono il pieno sviluppo. Ha anche il dovere di rimuovere sia gli ostacoli alla partecipazione al lavoro remunerato secondo le proprie possibilità e scelte sia quelli alla partecipazione politica e sociale che derivano dall’effettuare una attività lavorativa di qualsiasi tipo.
In altri termini, la partecipazione politica non può essere disgiunta dalla libertà, e riconoscimento, nella partecipazione al lavoro e nelle opportunità disponibili nel mercato del lavoro: nell’accesso, ma anche nel corso della carriera lavorativa. Quest’ultima specificazione importante, dato che le pari opportunità nel lavoro vengono troppo spesso declinate, nel discorso pubblico e negli obiettivi (anche a livello Europeo) come se riguardassero solo l’accesso, i tassi di partecipazione e occupazione, non anche i tipi di occupazione, i profili di carriera, la remunerazione.
Va osservato che – in Italia più che in altri paesi – sia l’accesso al mercato del lavoro, sia la possibilità di rimanervi anche quando si forma una famiglia per le donne molto più che per gli uomini è condizionata dal livello di istruzione, oltre che dalla disponibilità di strumenti di conciliazione e da una divisione del lavoro famigliare non troppo asimmetrica. Quanto l’interdipendenza di queste condizioni abilitanti sia cruciale è testimoniata, in negativo, dalla crescente disuguaglianza tra donne nella partecipazione al mercato del lavoro e nei tassi di occupazione legata alla combinazione tra istruzione, welfare locale nella zona di residenza, carichi famigliari.
Avere una occupazione, ed essere riconosciuta per le proprie capacità professionali, è importante non solo per l’autonomia economica. E’ importante anche per la costruzione del capitale sociale necessario per poter partecipare attivamente alla politica.
Servono le politiche, ma servono anche le leggi
L’Italia è il paese che ha migliorato di più la posizione nell’indice EIGE sull’uguaglianza di genere per due anni consecutivi (http://eige.europa.eu) L’indice misura il livello di uguaglianza fra i 28 stati membri dell’UE, dove il massimo dei punti è 100. L’Ue nel complesso ha aumentato l’uguaglianza di 4 punti nel 2016 rispetto al 2015, raggiungendo 66,2 punti. Il miglior risultato, ancora oggi come negli ultimi 10 anni, lo ha registrato la Svezia con 88,6 punti, il peggiore è la Grecia con 50 punti. Gli ambiti analizzati sono il lavoro, il potere, il denaro, la conoscenza, il tempo, la salute.
Il maggior successo raggiunto – nel complesso dei paesi e in Italia in particolare - riguarda l’ambito del potere decisionale, dove l’Italia ha guadagnato 29 punti. Il potere decisionale viene diviso fra ambito politico, economico e sociale. I miglioramenti italiani sono dovuti soprattutto ai due interventi legislativi che hanno modificato a) la composizione delle liste elettorali; b) la composizione delle società quotate in borsa. Per quanto riguarda la prima dimensione, già nella passata legislatura, in conseguenza della norma sull’alternanza uomo-donna nelle liste e la possibilità di esprimere una seconda preferenza purché riferita a un candidato di sesso diverso dalla prima, era molto aumentata la percentuale di donne in Parlamento.
A ciò si era aggiunto il fatto che il governo Renzi, almeno all’inizio, aveva metà ministri donne e metà uomini, anche se tra i sottosegretari le proporzioni erano più sfavorevoli alle donne e anche se già nel proseguo del governo Berlusconi e poi in quello Gentiloni il mantenimento della parità tra i ministri non è più stato salvaguardato, senza per altro che questo diventasse elemento di pressione, negoziazione, eventualmente anche conflitto, per le parlamentari della maggioranza e tanto meno per le ministre e sotto-segretarie, apparentemente soddisfatte della posizione che ciascuna di loro aveva individualmente raggiunto. Quanto alle società quotate in borsa, è stata raggiunta e superata la quota minima del 30% nei consigli di amministrazione.
Entrambi questi importanti miglioramenti segnano, appunto, l’importanza di avere norme che definirei di pari opportunità perché antimonopolistiche, contro la “quota blu”.
Pur con questi importanti miglioramenti, l’Italia rimane a metà classifica (14esima, ma era 20esima nel 2013 quando per la prima volta è stato pubblicato l’indice) soprattutto a motivo di bassa partecipazione al mdl e alle difficoltà che le donne occupate sperimentano rispetto a carriera, conciliazione, ecc. Nell’area lavoro Italia ha 62,4 punti su 100, rispetto alla media UE 71,5, laddove la distanza nell’area “Potere” – che complessivamente in Europa ha un indice di uguaglianza inferiore al 50% – lo scarto rispetto alla media europea è molto minore: 45,3 rispetto a 48,5. Anche nella dimensione uso del tempo/divisione del lavoro famigliare l’Italia è abbastanza lontana dalla, pur bassa, media europea: 59,3, rispetto a 65,7.
Nella nuova legislatura il numero delle parlamentari è ulteriormente aumentato, in particolare al senato, con caratteristiche per altro diverse che nella legislatura precedente. Mentre nelle passate legislature era il PD a portare il maggior numero di donne in assoluto e in percentuale, questa volta l’avanzata femminile è avvenuta tutta nella destra e nel campo né-destra-né-sinistra del M5S, mentre nel centro-sinistra le donne arretrano nella rappresentanza parlamentare e spariscono dalle posizioni apicali.
Non si tratta solo della inevitabile conseguenza della sconfitta del PD, che ha comportato una forte riduzione del numero di parlamentari, ma di una precisa strategia (per altro condivisa anche da LEU e in minor misura da FI) che ha utilizzato il perverso e contorto meccanismo della legge elettorale (possibilità di presentarsi sia nel collegio uninominale sia nelle liste proporzionali, pluri-candidature) per usare la regola dell’alternanza uomo-donna nelle liste a protezione degli uomini.
Purtroppo questa strategia ha potuto contare sulla disponibilità di donne anche con ruoli importanti, a partire dalla sottosegretaria alla presidenza del consiglio con delega alle pari opportunità e dalla Presidente uscente della Camera, a prestarsi a questo gioco.
Nonostante la presenza di donne in Parlamento in questa legislatura non sia mai stata così alta, la distribuzione dei posti di potere è molto squilibrata. Solo la destra e in particolare FI hanno fatto l’en plein, con la presidente del Senato e le capogruppo alla Camera e al Senato. Il PD e Leu, invece, hanno scelto capogruppo uomini. Quanto al governo, il tasso di maschilità (e maschilismo) è altissimo: solo 5 donne su 18 ministri, e solo ancora 5 su 45 tra viceministri e sottosegretari. Il tutto nel silenzio tombale delle donne sia della maggioranza sia dell’opposizione, mentre la scena politica e mediatica è tutta occupata da uomini.
Per altro, c’è una sola donna segretaria di partito, anche questa di destra (Meloni). Forse le donne del PD e in particolare le ministre e sottosegretarie, e quelle di LEU potrebbero chiedersi se non hanno anche loro una qualche responsabilità nella quasi totale sparizione delle donne dalla scena politica: nell’essersi accodate ai loro uomini di riferimento, soddisfatte della posizione raggiunta da loro individualmente senza interrogarsi se le politiche del governo intercettavano o meno anche i bisogni e le priorità della loro – reale e potenziale – constituency femminile.
Poche nei luoghi decisionali e spesso con funzione più simbolica che decisionale.
Va per altro osservato che anche quando diventano ministre le donne rimangono concentrate in pochi settori: sanità, scuola, assistenza, famiglia, mentre rimangono per lo più escluse di ruoli economici (basta guardare le foto dei ministri europei dell’economia). Una ricerca effettuata su dati del 2016 nei paesi UE segnala che i dicasteri che si occupano di lavoro e affari sociali sono gli unici distribuiti in modo paritario. Per il resto, le ministre arrivano al 43% per le deleghe relative a famiglia, giovani, anziani e sport. Cultura e educazione al terzo posto (40% di donne), seguiti dalla salute (37%).
Ma è nei ministeri di maggior peso, quelli che definiscono la linea politica di un esecutivo, che la presenza femminile si riduce drasticamente. Tra i ministri della difesa europei, solo il 14% è una donna . Dei 28 ministri degli esteri dell’Unione, solo 2 sono donne (7%) . Tra i ministri che si occupano di sviluppo economico e tecnologie le donne sono il 25%. Pochissime occupano la carica di ministro delle finanze (3 su 28, l’11% circa).Nessuna donna è stata ministra dell’economia fino alla recentissima nomina nel govero spagnolo.
Anche nelle istituzioni UE le donne sono il 33% dei Commissari, l’8% dei ministri nell’Ecofin. Quindi sono drasticamente minoritarie là dove si prendono decisioni cruciali anche per tutte le altre dimensioni.
Lo stesso vale per le istituzioni economiche: entrano nei consigli di amministrazione, ma raramente diventano amministratrici delegate.
Il tetto di cristallo continua ad esistere, nonostante la chiusura nel gender gap nell’istruzione risalga ormai a trentanni fa e nonostante vi siano stati miglioramenti sostanziali in alcuni settori. Nella pubblica amministrazione
Nel settore privato,
Anche nei media, nonostante la quota delle giornaliste sia alta, c’è una sola direttrice di quotidiano. Sono poche le commentatrici politiche, o meglio coloro cui è riconosciuto nei giornali e nei media in generale una posizione di visibilità ed anche le conduttrici di talk show “politici” in televisione sono meno delle dita di una mano. Per altro, anche queste conduttrici in genere si adeguano alla prevalenza maschile in politica, sia tra gli esponenti politici titolati a parlare, sia tra i giornalisti e opinionisti politici. In altre parole, non offrono nessuno spazio e opportunità per rompere il manopolio maschile del diritto alla visibilità e alla parola, per costruire una opinione pubblica in cui le donne possano essere soggetti “parlanti” alla pari con gli uomini.
Per concludere, ci sono stati sicuramente progressi nell’attuazione degli art. 2 e 3 della costituzione per quanto riguarda la parità di genere nella piena partecipazione sociale e politica. Ma essi sono stati lenti e diseguali, oltre che in alcuni casi reversibili. Si sono anche ampliate le disuguaglianze tra donne nell’accesso al mercato del lavoro e nella possibilità di rimanervi anche quando si abbia una famiglia. Quest’ultimo aspetto è stato, a mio parere, colpevolmente trascurato anche nel discorso pubblico femminile femminista sulle pari opportunità: non per colpevolizzare chi ce la fa ed ha successo, ma per sviluppare una visione, e politiche, inclusive, che mettano a fuoco i vincoli di chi è più svantaggiato.
Chiara Saraceno
14 giugno 2018