La Piramide rovesciata: senza demagogia e con coraggio guardiamo in faccia la realtà

Una piramide rovesciata!  Questa è l’immagine che, più di tutte, sintetizza la progressiva disuguaglianza generazionale nel nostro Paese. Secondo Eurostat, l’età media degli italiani salirà dai 44,8 anni del 2015 ai 52,8 del 2050 fino ai 53,2 del 2080.

A incidere sono il calo progressivo delle nascite e l’aumento dell’aspettativa di vita. Se teniamo conto dei flussi migratori restiamo al di sotto dei 50 anni: 44,7 nel 2017, 47,8 nel 2050 e 48,9 del 2080.


Ma, in entrambi i casi, la base della piramide si sposta verso l’alto, verso un Paese per vecchi! Situazione che l’Italia condivide con altri Paesi europei e non (il Giappone) a economia avanzata, ma che rischia di porre un freno allo sviluppo economico sociale.

 Con quali conseguenze intergenerazionali?

Il divario economico e di benessere tra giovani e adulti cresce e preme sul sistema pensionistico pubblico.

 Siamo in presenza di una ripresa economica troppo lenta.

Ma, soprattutto, il trend occupazionale è troppo negativo per i giovani, cui si contrappone, a causa dell’aumento dell’età lavorativa, l’eccessiva permanenza al lavoro tra gli ultrasessantenni.

Sicché il pagamento delle pensioni non è compensato dai contributi di chi lavora. In altre parole, a fronte di entrate fiscali ridotte, anche a causa della lunga crisi, è sempre più difficile finanziare un welfare di carattere espansivo, che riesca a garantire ai giovani le stesse prestazioni dei padri, i cosiddetti baby-boomers.

Uno squilibrio che si riflette nella sperequazione esistente tra spesa pensionistica e investimenti per l’istruzione: i dati Ocse rilevano che in Italia la spesa per pensioni è al 16% del Pil contro il 4,1% dell’istruzione.

Un altro dato permette di comprendere quanto sia alterato il rapporto di forza tra generazioni è l’età dell’indipendenza economica. «Se un giovane di vent’anni nel 2004, per raggiungere l’indipendenza, doveva scavalcare un “muro” di 1 metro, nel 2030 quel muro sarà alto 3 metri e dunque invalicabile. E, lo stesso giovane, se nel 2004 aveva impiegato 10 anni per costruirsi una vita autonoma, nel 2020 ne impiegherà 18, e nel 2030 addirittura 28: diventerebbe, in sostanza, “grande” a cinquant’anni».

Se dunque il nostro sistema previdenziale ha aumentato il suo grado di sostenibilità, grazie alle riforme attuate a partire dagli anni ‘90, a pagarne le conseguenze sono, da un lato le basse pensioni, ma, soprattutto, dall’altro, i Millennials.

 È come se si fosse attuato un circolo vizioso, all’interno del quale la soluzione al problema diventa problema stesso per le generazioni successive. Si pensi all’introduzione del calcolo contributivo delle pensioni, che crea una connessione obbligatoria tra contributi versati e il trattamento pensionistico, garantisce equità in un sistema lavorativo stabile, ma rischia di diventare un ostacolo per chi ha iniziato a lavorare dopo la metà degli anni Novanta.

 La discontinuità delle carriere lavorative, i buchi occupazionali e l’ingresso ritardato nel mondo del lavoro creano una vera disuguaglianza generazionale.

Le risposte possibili                                                                                                                                

È in questo contesto che siamo chiamati a dare risposte che non tornino ad alterare l’equilibrio del sistema pensionistico, ma, al tempo stesso, non compromettano i principi di solidarietà e uguaglianza sanciti negli articoli 2 e 3 della nostra Costituzione.

 Se vogliamo mantenere un sistema dignitoso di welfare, in un quadro di crescita economica comunque più contenuto del passato, dobbiamo definitivamente accettare l’idea che lo Stato da solo non sarà in condizioni di garantire l’insieme delle tutele e delle prestazioni. La risposta sta in due scelte.

La prima: favorire un’integrazione esplicita e organica tra pubblico e privato. L’universalità del welfare non coincide con la sola gestione pubblica. Si pensi, ad esempio, ai fondi pensione integrativi e all’urgenza di diffonderli, con un forte sistema incentivante, soprattutto per i giovani, che, per ragioni culturali e di disponibilità economiche, sono i meno propensi ad aderirvi.

La seconda: avviare una coraggiosa riforma del sistema fiscale a cominciare dalle tax expenditures. 200 voci e circa 250 miliardi di detrazioni e deduzioni a disposizione dei cittadini, che sono figlie, per molte voci, di un mercato del lavoro e di una domanda sociale ben diversa dalle nuove, attuali, esigenze.

 Ci sono poi leve sulle quali agire da subito di natura economica, sociale e fiscale che possono portare a un intervento organico capace di inserire la disuguaglianza pensionistica all’interno della più ampia “questione giovanile” con un percorso di misure proporzionate e formalizzate. Le direttrici sono diverse e mi limito ad elencarne alcune: la fiscalizzazione dei percorsi di studio, la decontribuzione per i nuovi assunti, i percorsi di solidarietà intergenerazionale, le esperienze collettive di tutele allargate.

L’ingresso posticipato dei giovani nel mondo del lavoro depauperizza il montante contributivo sul quale, al raggiungimento dell’età pensionabile, sarà calcolato l’assegno mensile. È per questo che i percorsi di studio universitari e post-universitari non devono essere un ostacolo al conseguimento della parità contributiva con le generazioni precedenti.

Lo Stato deve incentivare l’istruzione superiore, l’Italia è ancora ultima in Europa per laureati, 25% contro un 38% Ue prevedendo una contribuzione gratuita fissa per gli studenti in corso che completano il proprio percorso di studi, senza il riscatto degli anni di laurea. Si tratterebbe di una misura che, oltre a favorire l’accumulo contributivo, colmerebbe il divario generazionale.

È poi necessario studiare misure che favoriscano l’ingresso e la permanenza dei Millennials nel mondo del lavoro, mettendo a sistema le iniziative avviate con il Jobs Act e correggendo gli strumenti rivelatisi inefficaci. Si risponderebbe così a una duplice criticità: l’ingresso ritardato e l’intermittenza delle carriere lavorative. Nei giorni scorsi lo stesso presidente Inps, Tito Boeri, ha ricordato che gli sgravi contributivi introdotti nel 2014 hanno favorito la stabilizzazione di oltre 3 milioni di contratti, garantendo alla nuova platea di lavoratori una sfera multí dimensionale di diritti (malattia, ferie, maternità ecc). Si tratterebbe di favorire un meccanismo di rimodulazione della contribuzione che tenga conto della maturità fiscale dei lavoratori, riequilibrando la disparità figli/ genitori.

Perché questo sistema integrato funzioni, è necessario favorire una  cultura della redistribuzione solidaristica tra le generazioni, facendo comprendere che le misure di riequilibrio pensionistico non possono sempre essere volte a tutelare i diritti acquisiti. In tal senso, lo strumento controverso del contributo di solidarietà richiesto alle cosiddette pensioni d’oro non va demonizzato, è necessario stabilire con coerenza e coraggio quali sono i criteri che determino questo limite (francamente 5mila euro lordi, importo di cui si è parlato, non è una pensione da ricchi!). Può diventare uno strumento di giustizia sociale a favore dei giovani, rispettando così anche la sentenza della Corte Costituzionale che lo ha considerato coerente solo se destinato a obiettivi predeterminati e limitati nel tempo.

Infine, vanno favoriti percorsi comunitari che ottimizzino le prestazioni. I fondi pensione, ma anche quelli sanitari. Va in questa direzione la scelta fatta nella ultima legge di bilancio di sostenere i sistemi di welfare aziendale. È da qui, da un terreno che inevitabilmente guarda al futuro e ad una nuova idea di programmazione sociale, che può ripartire un patto generazionale fondato sulla solidarietà e l’uguaglianza.

Grazia Labate

Ricercatore in economia sanitaria già sottosegretaria alla sanità

 

 

 

16 luglio 2018