La femminilizzazione delle professioni, partiamo dalla Medicina

“Passato e futuro del Ssn a quarant’anni dalla nascita”, il convegno che si terrà, il 22 settembre a Venezia, presso la  Scuola Grande di San Marco, ospiterà anche il tema oggi rilevante della femminilizzazione in medicina. I dati elaborati dal Ced della Fnomceo parlano chiaro: 84.121 donne medico under 50, contro 55.405 colleghi maschi della stessa fascia di età: la professione medica, specie tra i nuovi iscritti, è declinata sempre più al femminile.

E se, nelle generazioni sino ai 49 anni, le donne sono ormai il 60%, in alcune fasce, come quella dai 35 ai 39 anni, raddoppiano quasi  i colleghi maschi, essendo 19.213 vs 10.612, come dimostrano i dati in tabella elaborati dalla Fnomceo:    La femminilizzazione della professione implica la messa in atto di scelte strategiche e politiche che tengano conto delle diverse fasi della vita di una donna, a maggior ragione per una donna medico. Concorda il vicepresidente della Federazione nazionale degli Ordini dei Medici (Fnomceo), Giovanni Leoni quando afferma che:” Occorre pensare a una turnistica rispettosa, a ritmi di lavoro che non rendano troppo penalizzante, la vita personale, familiare e di relazione della professionista, la scelta di fare il medico”.   “Con queste percentuali, è molto probabile e anche auspicabile che, in un reparto o in un’equipe, vi possano essere più gravidanze in contemporanea – continua Leoni, va fatta, dunque, una programmazione lungimirante delle sostituzioni, che devono essere pronte ed immediate, in modo da non penalizzare l’intera equipe che si troverà, altrimenti, a ranghi ridotti, ad affrontare un carico di lavoro rimasto invariato”. Occorrerà, dotare anche gli ospedali di asili nido. Il presidente della Fnomceo, Filippo Anelli a Bari, nel corso della giornata del 13 settembre contro la violenza, dichiara che non si può nè tacere nè ignorare che anche la violenza ha un genere e che le donne medico sono esposte in maniera quantitativamente e qualitativamente più grave alle aggressioni.Dunque la femminilizzazione della professione porta con se scelte specifiche che occorre affrontare non solo in termini di parità ma prendendo che la differenza di genere chiama in causa una strategia di cambiamento culturale e strutturale notevole, ma l’obiettivo finale vale la candela.   L’intera società starà meglio ed anche gli uomini che spesso resistono ai cambiamenti.  Lo ha affermato pochi  giorni fa l’OMS: “anche il miglioramento della salute e del benessere degli uomini è meglio garantito in presenza di un quadro di parità di genere e il coinvolgimento degli uomini e la loro partecipazione in mansioni di accudimento (pagate e non pagate), la prevenzione della violenza contro le donne e la responsabilità condivisa in materia di salute riproduttiva sono interventi chiave per raggiungere traguardi globali sulla parità di genere e per accelerare il conseguimento di importanti obiettivi di salute. Occorre che la società a tutti i livelli lotti per questa parità, per il miglioramento del livello di  salute.“    Anche la prestigiosa rivista The Lancet richiama l’attenzione sulla persistenza di ambienti di lavoro discriminatori e disparità salariali per le donne che lavorano nella scienza e nella medicina.  Denuncia la scarsità di donne nella leadership istituzionale, nonostante la loro sovra-rappresentazione tra i laureati in medicina e scienze e nel mondo della sanità.  Il 2017 è stato un anno importante che ha accesso i riflettori sui diritti delle donne. La Commission on the Status of Women dell’ONU ha evidenziato due concetti chiave, quello della disparità salariale e quello della femminilizzazione della povertà, strettamente correlati tra loro. La rivista Time ha conferito il premio Persona dell’anno alle “Silence Breakers”. “The Silence Breakers. The Voices that launched a Movement” è stato il titolo della copertina del settimanale che ha presentato letteralmente: “Coloro che hanno rotto il silenzio. Le voci che hanno lanciato un movimento”; ovvero le donne che coraggiosamente hanno denunciato le molestie sessuali subite sul lavoro, a cominciare dalle attrici, a seguito del caso Weinstein.   Il settimanale ha dato voce a centinaia di migliaia di voci di donne che hanno detto basta ad abusi di potere, violenze, battute ambigue, sguardi ammiccanti e palpeggiamenti. “Nelle istituzioni universitarie e sanitarie, il lavoro intellettuale delle donne a volte non è retribuito”, continua l’articolo su The Lancet. Molto del lavoro negli ambienti accademici è svolto da donne eppure le evidenze mostrano come circa il 70% degli stage non retribuiti e sottopagati in questo settore riguardi le giovani donne.   L’equità di genere è un imperativo morale necessario, sebbene le donne rappresentino più della metà delle donne laureate in medicina e scienze e il 70% della forza lavoro nella salute globale sono poco rappresentate a livelli apicali. Negli Stati Uniti, ad esempio, le donne costituiscono il 45% degli assistenti nelle scienze cliniche accademiche, ma sono solo il 35% dei professori associati e solo il 22% dei professori ordinari.   “Gli stage non retribuiti ipotecano anche le condizioni di lavoro future, il futuro salario, favoriscono il lavoro precario ed esacerbano le disuguaglianze di reddito”, si legge nel commento.  Questa continua svalutazione del lavoro femminile contribuisce in maniera significativa a determinare e favorire la femminilizzazione della povertà e mina tutti progressi compiuti verso almeno due dei Sustainable Development Goal (SDG), il quinto che riguarda l’uguaglianza di genere e l’ottavo che riguarda il lavoro dignitoso e la crescita economica.   E cosa c’entra la povertà? Per potersi permettere settimane o mesi di lavoro non retribuito bisogna essere benestanti, contare su una rete di supporto, offrire stage non retribuiti significa continuare a riservare preziose esperienze di sviluppo professionale esclusivamente a persone benestanti; è una forma di violenza strutturale, che esclude di fatto le giovani donne economicamente, dai percorsi e dalle posizioni di leadership. È necessario agire con interventi contro lo sfruttamento normalizzato del lavoro femminile e a pensarci bene basterebbe poco: basterebbe pagare le donne per il lavoro professionale che svolgono; una soluzione tanto semplice quanto sovversiva. Pagare le donne per il loro lavoro professionale è un’azione immediata contro la discriminazione di genere, la violenza e la svalutazione sistemica dei contributi delle donne. È una forma di riconoscimento e contribuisce a rafforzarne lo status sociale, la possibilità di scelta e la capacità delle donne di denunciare o superare la violenza di genere che molte di loro potrebbero trovarsi ad affrontare.   Un cambiamento sostenibile che miri all’equità di genere richiede il riconoscimento del contributo delle donne in modo tangibile, richiamare l’attenzione sul lavoro non retribuito e la questione di equità di genere nel settore della salute e negli ambiti accademici.   Occorrerebbe riservare opportunità di sviluppo professionale retribuite a giovani donne strutturalmente emarginate, stipulare stipendi minimi per tutti le giovane professioniste coinvolte in tirocini o percorsi di ricerca. Insomma la questione della femminilizzazione di molte professioni tra cui quelle nella scienza e nella medicina pongono il problema non più eludibile della parità di genere come metro di misura perché la qualità della vita sia misurabile con equità tra uomo e donna.   Grazia Labate Ricercatrice in economia sanitaria già sottosegretaria alla sanità

20 settembre 2018