Italiane. Biografia del Novecento. È questo il titolo del volume che la storica scozzese
Perry Wilson ha pubblicato nei mesi scorsi (Laterza, pp.358, 24 euro), frutto di oltre due decenni di studio della storia italiana. Può apparire strano che sia una studiosa straniera a realizzare un lavoro di questa portata sulle vicende delle donne italiane, ma l’anomalia è solo apparente, come spiega la stessa autrice: la distanza, infatti, consente di avere più facilmente uno sguardo d’insieme e dunque di operare con minore difficoltà i tagli e le scelte indispensabili a per condensare in un solo volume, sia pure corposo, un intero secolo.
Di un’opera di sintesi come questa se ne avvertiva il bisogno e l’utilità, come ha sottolineato
Livia Turco aprendo l’incontro di presentazione del libro, svoltosi nella sala del Refettorio di Palazzo San Macuto lo scorso 12 gennaio. “Un libro che arriva al momento giusto – ha sottolineato Turco – proprio mentre si sente circolare nel Paese una gran voglia di riappropriarsi dell’essere italiane e italiani, come hanno mostrato anche le celebrazioni, intensamente partecipate e non rituali, per i 150 dell’Unità d’Italia”. Anche perché, ha aggiunto la presidente della Fondazione Nilde Iotti, “più si studia la storia, tanto più ci si domanda come siamo arrivate fin qui e si sente il bisogno di progettare il futuro”.
Leggendo il libro di Wilson si scopre, ad esempio, che il tasso di occupazione delle donne italiane non è molto cambiato dal punto di vista quantitativo tra l’inizio e la fine del secolo scorso. A cambiare è stata piuttosto la “qualità” e il ruolo del lavoro per le donne: lavoro contadino e operaio, vissuto come una condanna per le donne del primo Novecento; strumento di autonomia e di emancipazione, condiviso dalle donne di tutti gli strati sociali, nella seconda metà del secolo.
Ma il Novecento è stato anche il secolo in cui si sono sviluppati i movimenti politici delle donne, dall’emancipazionismo, o primo femminismo come preferiscono definirlo le storiche anglosassoni, al femminismo.
Proprio su questo aspetto si è incentrata l’analisi del libro di
Marina D’Amelia, docente di Storia Moderna all’Università La Sapienza di Roma e attiva componente della Società Italiana delle Storiche, che ha stretto un gemellaggio ideale con la Fondazione Nilde Iotti. Ripercorrendo la formazione di Perry Wilson, che ha cominciato i suoi studi occupandosi di un tema tabu per le studiose italiane, ovvero il ruolo attivo delle donne nel movimento fascista, D’Amelia ha mostrato di aver apprezzato in particolare la ricostruzione fatta dalla storica scozzese sui movimenti delle donne nella prima parte del secolo, per il diritto al voto e all’istruzione, per l’assistenza alla maternità e per l’uguaglianza sul lavoro. Movimenti ancora poco studiati, i cui risultati furono poi cancellati in gran parte dal fascismo, ma che costituiscono una radice importante per la storia delle donne.
Riguardo ai movimenti che si sviluppano nel secondo dopoguerra, Wilson sembra avere attenzione anche per il loro aspetto quantitativo, definendo l’Udi (Unione donne italiane, vicina ai partiti comunista e socialista) “quanto di più simile ad un’organizzazione femminista di massa”, ma rilevando anche come la partecipazione ai gruppi femministi degli anni ‘70 fosse in definitiva esigua e limitata ad alcune aree del Paese e della società.
Per D’Amelia, invece, occorre prestare maggiore attenzione agli aspetti qualitativi di questi movimenti, tenendo adeguatamente conto di quanto il femminismo abbia inciso sull’intera realtà italiana. In particolare, D’Amelia ha messo in discussione le conclusioni cui sembra giungere Wilson, secondo la quale le donne italiane sono un “intreccio tra modernità e tradizione”. La tradizione, secondo la storica italiana, va piuttosto letta come un “valore” delle donne, come un proprio terreno dal quale far partire una estetica del quotidiano che mette in discussione radicalmente il sistema di valori sociali maschili.
Una conclusione non molto distante da quella alla quale arriva anche
Claudia Mancina, docente di Etica allUniversità La Sapienzadi Roma, pur affrontando la lettura del volume di Wilson in una dimensione più politica, come discende dalla sua esperienza di militante del Pci e di parlamentare. Il crescente distacco delle donne dalla politica, a partire dagli anni Novanta, secondo Mancina è un tratto comune, sia pure con le debite differenze, a tutti i paesi democratici, che segna un’inversione di tendenza rispetto a quanto avvenuto nel secondo dopoguerra. Anziché misurarsi sul terreno politico, le donne sembrano “non voler cedere il potere materno e domestico”, sobbarcandosi la fatica del doppio lavoro, rispetto al quale c’è dunque una responsabilità delle donne, con la complicità degli uomini.
“C’è uno scarto tra la realtà delle donne nella società e la realtà delle donne nella politica, che dipende dalla crisi della politica degli ultimi venti anni”, ha detto Mancina, sottolineando anche la responsabilità delle donne attive in politica, in ritardo sulla crisi dei partiti di massa e la cui forza è stata spesa più sul problema delle “quote” che sulla progettazione politica.
Considerazioni che il direttore della RCS libri,
Paolo Mieli, ha riassunto in un giudizio secco: “Siamo di fronte a una sconfitta”. Secondo Mieli occorre indagare perché la forza delle donne in Italia si sia dispersa dopo la fine del Pci, ma che ciò sia avvenuto e che si sia trattato di una vera sconfitta politica è incontrovertibile. Come prova Mieli ha ricordato come in Italia non ci sia mai stata nemmeno la candidatura di una donna per l’incarico di presidente del Consiglio, fatto che invece è accaduto in tutti gli altri Paesi europei.
Se nel passato sono state le “disgrazie” come l’emigrazione o le guerre a costituire involontarie fonti di emancipazione, c’è da chiedersi se la crisi economica di questo periodo non possa costituire una nuova sfida per la forza e la fantasia delle donne.
Eva Antoniotti
13 gennaio 2012