Shahram Khosravi, Io sono confine, elèuthera, Milano 2019 di Vaifra Palanca

E’ un libro intenso quello di Shahram Khosravi, Io sono confine, che fa pensare, che costringe a riflettere sul senso della parola confine, nel senso di limite, separazione, e su che cosa il confine, nel senso di frontiera, rappresenta nell’organizzazione geopolitica e sociale di questo mondo, oltre che sull’impatto che l’esistenza dei confini ha sulla vita delle persone a seconda che esse siano nate da un lato o dal lato opposto.


E’ un libro efficace perché mette insieme esperienza personale e approfondimenti culturali e politici dando sangue e anima a tante teorie che studiosi del fenomeno migratorio hanno elaborato nel corso degli anni.

E’ un libro che non parla dell’Italia eppure, oppure forse proprio per questo, dimostra come le migrazioni, presenti in ogni continente, hanno ovunque le stesse caratteristiche e simili sono le storie dei migrati e richiedenti asilo, in particolare di coloro che cercano di varcare i confini senza i necessari permessi e documenti.

 Khosravi invita a guardare il confine proprio dalla parte di chi è escluso. A queste persone, “invisibili”, da visibilità e voce, evidenziando come esse siano vittime da un lato di cambiamenti climatici, conflitti etnici, povertà estrema, assenza di futuro, dall’altro di un processo di esclusione frutto di una costruzione sociale fondata sull’identificazione tra territorio, stato, popolo e cittadinanza.  Concetti non banali sui quali nei secoli si sono formate le democrazie occidentali, nelle quali il diritto alla libertà, alla giustizia, alla welfare è limitato a coloro che appartengono alla comunità, che sono cittadini. La persona umana ha valore in quanto appartenente ad uno stato, in quanto cittadino. E’ vero, accordi sovranazionali invitano gli stati alla tutela dei diritti umani fondamentali di tutti in quanto persone (diritto alla vita al rispetto della dignità della persona, no alla tortura), ma sono solo dei cittadini, in quanto appartenenti ad uno stato, i diritti che scandiscono la vita quotidiana (lavoro, salute, istruzione, residenza).

Le migrazioni sono fenomeni che sconvolgono quest’ordine. L’autore mette in evidenza che in molte parti del mondo, deprivate sotto l’aspetto economico o con gravi rischi di morte, esiste una vera e propria cultura del “partire” poiché l’emigrazione è la sola prospettiva di sopravvivenza. Ma se partire è quasi ovunque consentito, l’accesso in altri paesi non è libero, bensì regolamentato da norme a tutela dell’unità, incolumità e “purezza” della comunità. I movimenti di persone da un paese all’altro avvengono sulla base di accordi tra paesi e l’esibizione di documenti (documenti di identità, passaporti, visti)) o attraverso il riconoscimento di uno stato di necessità che normalmente è successivo all’ingresso.

L’autore sceglie di narrare la storia delle migrazioni mettendosi dalla parte di chi deve o vuole lasciare il proprio Paese, adottando la metodologia dell’indagine etnografica attraverso la quale rilegge la propria esperienza e quella delle persone incontrate sul suo cammino o intervistate nella sua attività di ricerca. Oggi infatti Shahram Khosravi vive in Svezia dove insegna Antropologia culturale all’Università di Stoccolma. Il suo racconto inizia da quando, giovane diplomato, rifiuta di entrare nell’esercito iraniano per combattere contro l’Afghanistan, ed entra in clandestinità nella sua stessa terra. Lascia successivamente il suo Paese e la sua famiglia e, intraprende un viaggio, da clandestino, attraversando la frontiera tra l’Iran e l’Afghanistan, quindi l’India, la Turchia, infine Londra e la Svezia, prima un campo profughi oltre il circolo polare artico, poi finalmente il riconoscimento dello status di rifugiato, lo studio, l’insegnamento.

Per ogni tappa del viaggio, dalla partenza all’attraversamento di confini naturali, geografici e politici, all’arrivo nei paesi del nord Europa, riporta riflessioni non scontate, che danno il punto di vista di chi quelle esperienze ha realmente vissuto.  Il saluto alla famiglia di chi parte perché costretto è il saluto di chi sa che probabilmente non la rivedrà mai più; il trafficante non è necessariamente un criminale ma può essere vissuto come una persona che aiuta a mettere in salvo la propria vita; il passaggio delle frontiere da clandestini non è una bravata ma un ripiego  vissuto con un sentimento di vergogna perché consapevole di non essere accettati, ed inoltre  la meraviglia e quindi l’assuefazione alla  corruzione delle polizie di frontiera, il carcere, la solidarietà tra vittime.

Khosravi approfondisce il tema del confine, affermando che quello geografico, naturale è forse il più facile da superare, nonostante le numerose difficoltà. Altri confini di tipo culturale segnano successivamente la distanza tra il migrante o richiedente asilo e il mondo occidentale nel quale approda, che si materializzano quando addetti di organismi nazionali e internazionali (UNHCR) devono valutare la veridicità delle storie personali addotte per sostenere la legittimità delle richieste di protezione.   In questi casi gli immigrati si devono adeguare ad una rappresentazione di sé che è quella che i giudici si aspettano per poter avere qualche possibilità di ottenere gli agognati “documenti”.  L’inizio di un processo psicologico di spersonalizzazione che crea profonde fratture nel proprio io, che mette in pericolo la salute e la sopravvivenza stessa.

Nel percorso di inserimento nella nuova società, sebbene coronato da successo, continua questo senso di ricerca del proprio io, anch’esso segnato da una doppia appartenenza, o come sperimentato da Shahram KhosraviI, da una doppia assenza: vi è da un lato un progressivo allontanamento dalle proprie origini, dalla propria cultura e dai propri affetti senza che vi sia un totale inserimento, una competa partecipazione alla cultura del Paese di accoglienza, anche perché permane addosso lo sguardo di chi ti vede sempre come il diverso. Ecco il senso del titolo “Io sono il confine”.

Vaifra Palanca

 

 

 

 

08 luglio 2019