L’austerità da sola non basta. Anzi, può affossare l’Italia e l’Europa. Lo sa bene Mario Monti che, non a caso, subito dopo il piano tagli, ha puntato sulle liberalizzazioni. Aprire i mercati, infatti, equivale a spalancare le finestre e far spirare la brezza fresca della concorrenza, il cui obiettivo è rimettere in moto l’economia e favorire la crescita.
Ma ritenere le liberalizzazioni l’unica soluzione sarebbe un fatale errore. Negli ultimi quindici anni, d’altronde, abbiamo registrato un tasso medio di crescita economica annua pari ad un mediocre 0,75 per cento; molto di meno dell’interesse sul debito che paghiamo. Non usciremo dai marosi della crisi, dunque, solo con i tagli finalizzati ad abbattere un debito pubblico pari al 118 per cento del Pil.
Preoccupa, anche, la nostra probabile incapacità a ripagare gli interessi sul debito, che il governo salda con un imponente ricorso alle tasse. Gli italiani, d’altronde, sono gravati da pochi debiti privati e hanno sottoscritto pochi mutui. Lo stato è indebitato, gli italiani no. In questo modo, la debolezza della finanza pubblica è controbilanciata da contribuenti ricchi e parsimoniosi. Ecco perché alla nostra altissima pressione fiscale fa seguito un’erogazione di servizi pubblici mediamente scarsa.
Si tratta di un “paradosso logico”: l’ipertrofia della pubblica amministrazione ha avuto il merito storico di alimentare la domanda interna, configurandosi come una particolare forma di keynesismo funzionale agli squilibri territoriali della nazione. Sono stati, infatti, in gran parte i meridionali i beneficiari delle prebende pubbliche, che sono servite a sostenere soprattutto la domanda di beni prodotti nel Settentrione d’Italia, attraverso il deficit spending. Ciò non di meno, in questo momento, anche combinando austerità e liberalizzazioni, potremmo trovarci nel baratro. Le alte tasse, infatti, affossano la domanda interna che è al contempo schiacciata dalla crescente preoccupazione dei cittadini verso i propri redditi, che possono calare o azzerarsi a seconda che le liberalizzazioni mettano a rischio semplicemente delle rendite corporative, come nel caso di taxi o notai, o attentino allo stesso lavoro, come temono i commercianti di prossimità, minacciati dalla grande distribuzione.
L’effetto finale di questo circolo vizioso è che potremmo registrare anche la riduzione del gettito fiscale. In pratica, sono sia il nominatore che il denominatore del rapporto deficit/Pil a rischiare di deflagrare. Questa analisi, d’altronde, è stata avanzata anche da Standard & Poor’s in occasione dell’ultimo, discusso, downgrading che ha coinvolto l’Italia. Paradossalmente, è stata proprio l’agenzia di rating americana, da molti dipinta come la manifestazione di un crudele potere finanziario senza volto, a dirci: «I mercati non hanno fiducia in voi perché dovete fare qualcosa per la crescita». È indubbio, d’altronde, che le liberalizzazioni, in prospettiva, servano. Ma il problema è che esse funzionano nella lunga durata, mentre subito servono azioni anticicliche.
Quel che può sembrare un’eresia al dogma monetarista di Berlino è la via più praticabile per salvare l’euro. Anche a fronte del niet opposto dalla cancelliera Merkel in merito ad ogni ulteriore rafforzamento dell’Esfm, dopo la perdita della tripla A, che sarebbe superabile solo con un nuovo esborso da parte della Germania. L’idea che ci si arricchisca spendendo, d’altronde, è condivisa da Monti che ha più volte posto il problema di come sia essenziale stornare le spese per gli investimenti pubblici dai parametri del patto di stabilità.
Anche molti amministratori locali hanno chiesto lo sblocco del patto, a cominciare dal presidente dell’Anci e dal sindaco di Torino, Fassino. Vale la pena ammettere, tuttavia, che non siano immotivati i timori tedeschi che ogni euro pubblico speso dal nostro paese possa andare a foraggiare clientele inefficienti, allontanandoci dal cammino apparentemente virtuoso dell’austerità.
Gli investimenti, allora, dovrebbero rappresentare un vero volano di sviluppo. E il settore che garantirebbe le migliori performance è rappresentato indubbiamente dalle politiche attive del lavoro finalizzate ad aumentare i tassi di occupazione femminile e giovanile. L’Italia, infatti, è fra le nazioni dell’Ocse che registrano i più bassi tassi di lavoro femminile e giovanile, con il Mezzogiorno fanalino di coda. Abbiamo bisogno, in definitiva, di investimenti che favoriscano l’autoimprenditorialità.
Donne e giovani sono la grande risorsa inespressa dell’Italia. Con la crisi, è giunto il momento di metterli a sistema.
Alessio Postiglione
25 gennaio 2012