Per la mia generazione Nilde Iotti ha incarnato il senso dello Stato. La capacità della parte, e di una donna di parte -e Nilde era donna di parte- di trasformarsi in rappresentante di tutti. Lì, in quei passaggi, la lotta per l’egemonia è stata vincente per il grande filone storico-politico del comunismo italiano.
La prima volta che ho incontrato Nilde Iotti, e scambiato qualche battuta con Lei, è stato il giorno del mio ingresso nella Direzione del PCI, nel febbraio del 1985. Ero stato appena eletto segretario nazionale della FGCI, in un Congresso molto acceso e radicale, tornando da Padova dove, per un triennio, ero stato al Partito a farmi le ossa. In quel Congresso, dai temi del pacifismo a quelli dei diritti civili, la “nuova FGCI” -così si chiamò- si configurava come un’organizzazione fortemente critica del modo di essere del Partito e di molte delle sue scelte.
Ci sentivamo eredi di Enrico Berlinguer, scomparso sei mesi prima, davanti a me, nella mia città; e, non senza l’appoggio del gruppo berlingueriano più determinato (Aldo Tortorella e Ugo Pecchioli, al fianco di Alessandro Natta), avevamo una sorta di “sacro furore” innovatore. La FGCI aveva cancellato il centralismo democratico, diventando una federazione di associazioni interne e esterne all’orbita del comunismo italiano.
Ricordo come fosse ora che la Iotti , in piedi davanti alla porta della stanza in cui si svolgevano le riunioni, il vero “tempio” della Direzione del Partito, col suo sorriso regale mi diede la mano: “Benvenuto, compagno Folena”. Diventai rosso più della bandiera storica esposta nella vetrina, all’ingresso delle Botteghe Oscure. Balbettai uno stupido ringraziamento. Venivo dalla provincia lontana, non ero figlio di comunisti -ma di socialisti cristiani- e non conoscevo nulla dei salotti della borghesia rossa romana, né degli ambienti in cui viveva lo storico gruppo dirigente del PCI. La Iotti l’avevo vista e applaudita in alcuni comizi e assemblee, nel territorio della mia formazione.
Quella prima riunione della Direzione, tuttavia, fu per me un battesimo del fuoco, giacché Giancarlo Pajetta, prima dell’inizio dell’ordine del giorno, chiese la parola per sferrare un attacco frontale alla FGCI uscita dal Congresso. Gli risposi, contravvenendo alle regole non scritte, che imponevano all’ultimo arrivato un rispettoso silenzio, cosa che poi mi valse il suo rispetto e la sua stima, e forse quelli di altri.
Nilde Iotti guardava a quell’esperienza nostra con una qualche diffidenza. Non già per un atteggiamento conservatore. Pur essendo totalmente interna al cuore del gruppo dirigente togliattiano, la Iotti infatti per attitudine personale -curiosa, aperta, non dogmatica- e per la frequentazione con l’irrequietezza femminista che dagli anni ’70 aveva profondamente attraversato il PCI, dialogava e interloquiva col mondo giovanile.
Tuttavia, nella complessa geografia politica del gruppo dirigente del PCI dopo la morte di Berlinguer, segnata da una profonda spaccatura tra i berlingueriani, appoggiati da molti segretari regionali, dalla FGCI e dalle donne, e i miglioristi, critici dell’ultimo Berlinguer e che avrebbero voluto Luciano Lama segretario (senza dimenticare le posizioni autonome, da opposti punti di vista, di Pietro Ingrao e di Armando Cossutta), la Iotti -come Gerardo Chiaromonte- si collocava in una posizione mediana. La sua diffidenza, o una certa freddezza, nasceva dall’impressione, non del tutto infondata, che la FGCI fosse uno strumento nelle mani dei berlingueriani per svolgere dall’esterno del gruppo dirigente una lotta politica e culturale.
Tutto però si sciolse in un rapporto umano caldo e cordiale già nel 1987, quando la segreteria del Partito mi propose di candidarmi, giovanissimo, alla Camera dei deputati, al secondo posto dopo Nilde Iotti, Presidente della Camera. E, come succedeva nel Partito di allora, questo avvenne in tre circoscrizioni (le due dell’Emilia-Romagna e il Veneto occidentale).
In ogni comizio Nilde Iotti parlava dei giovani e valorizzava quella nostra presenza -che portò all’elezione di quattro deputati della FGCI-. Da allora, e negli anni successivi, quando si schierò a favore della svolta, e negli anni 90 quando fu più libera da impegni istituzionali, la Iotti accentuò la sua ricerca di orizzonti nuovi.
Come non ricordare l’assoluta solennità delle sue sedute di presidenza alla Camera, quando in qualche modo -con la sua sobrietà ed eleganza, il contrario dell’esibizionismo volgare dei tempi più recenti- non solo incarnava l’istituzione parlamentare, ma era la Repubblica, col volto di donna. Come quello che campeggiava sulla scheda del referendum del 2 giugno 1946. Non una parola, non un richiamo, non una battuta erano fuori posto.
Per la mia generazione Nilde Iotti ha incarnato il senso dello Stato. La capacità della parte, e di una donna di parte -e Nilde era donna di parte- di trasformarsi in rappresentante di tutti. Lì, in quei passaggi, la lotta per l’egemonia è stata vincente per il grande filone storico-politico del comunismo italiano.
Chissà, viene da chiedersi, come avrebbe visto e commentato i tempi recenti, e questa inedita stagione di emergenza sanitaria globale, che ha colpito al cuore l’Italia e che ha risvegliato sentimenti civili e passioni umane. Chissà.
Intanto grazie alla Fondazione che porta il suo nome e alle donne che la animano -fra queste Livia Turco, che con me condivise quell’esperienza di innovazione del Partito, a metà degli anni ’80- e al Centenario che stiamo celebrando, torniamo a riflettere sulla sua opera, sui suoi scritti, sulla sua vita, sul senso della sua missione per le altre e per gli altri.
Pietro Folena
05 aprile 2020