Oggi in Italia su circa ottomila comuni ce ne sono 5.800 sotto i 5mila abitanti e di questi oltre 2.000 sono in stato di abbandono. Lo spopolamento si vede ormai ad occhio nudo come il ritiro dei ghiacciai sulle nostre montagne. Nel mio stesso paesino in Umbria, che certo non si può definire abbandonato, stringe il cuore vedere quante case non siano più abitate, quanti cartelli “vendesi” di quelle che erano seconde case ci sono in giro, quanti giovani sono andati via per ragioni di lavoro o anche per semplice comodità.
Mi ha molto colpita la recente intervista dell’arch. Stefano Boeri su Repubblica dal titolo “Via dalle città. Nei vecchi borghi c’è il nostro futuro”, uscita tra l’altro quasi in concomitanza con la celebrazione della Giornata della Terra.
Mi ha colpito non tanto per la novità della tematica, in realtà si discute da anni di aree interne, montagna, ecc., quanto per il fatto che si colloca in quell’area dei pensieri nuovi, e si spera delle politiche nuove, che la grande crisi della pandemia ormai impone con forza.
Nel 2007 abbiamo battuto un record a livello mondiale: per la prima volta nella storia dell’umanità la popolazione che vive nelle città ha superato quella insediata nelle campagne. Ed è un processo inarrestabile secondo diverse fonti si prevede che al 2050 due persone su tre vivranno nelle città e/o nelle megalopoli. Con tutte le gravi problematiche che ciò comporta in termini di densità di popolazione, degrado sociale, consumo di suolo, inquinamento, mobilità, sistemi alimentari e sistemi sanitari, ecc.
Ecco allora che la provocazione di Boeri, lanciata con la logica del “cosa fare dopo”, chiama in causa certamente le scelte politiche ma anche scelte di vita personale, cambiamento di stili di vita, diversi modelli di relazione sociale.
Come dicevo il dibattito su questi temi non è nuovo, si sviluppa da diversi anni tra gli addetti ai lavori ma non è riuscito mai a coinvolgere ampi settori dell’opinione pubblica se non per aspetti folkloristici e per così dire “di moda”:
Che sia la volta buona?
Oggi in Italia su circa ottomila comuni ce ne sono 5.800 sotto i 5mila abitanti e di questi oltre 2.000 sono in stato di abbandono. Lo spopolamento si vede ormai ad occhio nudo come il ritiro dei ghiacciai sulle nostre montagne. Nel mio stesso paesino in Umbria, che certo non si può definire abbandonato, stringe il cuore vedere quante case non siano più abitate, quanti cartelli “vendesi” di quelle che erano seconde case ci sono in giro, quanti giovani sono andati via per ragioni di lavoro o anche per semplice comodità.
Sono molti e molto concreti i problemi dei borghi delle aree interne e delle terre alte ma non sono sconosciuti e soprattutto non sono irrisolvibili. Ne ricordo solo alcuni.
I servizi. Con la diminuzione della popolazione sono andati perdute o si sono fortemente ridimensionate le tradizionali strutture di servizio, scuole, presidi sanitari, trasporti.. In più sono fortemente carenti quando non del tutto inesistenti i nuovi servizi digitali come la banda larga, base per poter pensare a nuove forme di residenza e di economia.
La frammentazione del mercato immobiliare e fondiario. La proprietà degli immobili e dei terreni grazie alle numerose successioni tra generazioni è suddivisa e frammentata e spesso non si riesce a risalire ai proprietari Il tutto rende ovviamente più difficile nuove acquisizioni.Ci sono stati anche diversi tentativi per dare soluzione a questi problemi, dalla legge sulla Banca della Terra, a varie iniziative di Sindaci ed associazioni. Ma la questione merita ulteriori approfondimenti.
L’economia. Agricoltura, allevamento e turismo sono prevalentemente le basi dell’economia di queste aree e va detto che in alcune realtà meglio organizzate possono essere già di grande qualità. Guardando al futuro e ad una nuova possibile residenzialità si possono immaginare diversi sviluppi ulteriori dell’economia tradizionale ma anche nuove forme di economia legate ai servizi alle persone e alla comunità, alla cura del territorio, all’innovazione digitale che coniuga vita rurale e smartworking, ecc. Si possono aprire spazi nuovi anche per tanti migranti che possono più facilmente inserirsi in realtà più piccole e dal tessuto comunitario piu’ solido.
Anche qui non siamo all’anno zero. Abbiamo l’esperienza dei programmi europei di sviluppo rurale, del Piano per le aree interne, di diverse iniziative locali ed abbiamo le elaborazioni e le proposte che ci vengono fornite da centri studio di riferimento ed esperti di settore.
Mi piace anche sottolineare che in tutte le esperienze e i progetti che si muovono sul territorio. anche a livello europeo, le donne sono protagoniste ed elemento fondamentale. Le muove l’idea del “prendersi cura” delle persone, della comunità, del territorio e quella del “rispetto dei tempi”, quelli della natura e quelli della crescita di consapevolezza delle persone.
Ciò che ancora manca è la comprensione re la spinta a livello di grande opinione pubblica sull’importanza di questi temi e sul fatto che politiche più forti e più mirate possono veramente dare una svolta e farci incamminare in direzione di nuove esperienze di vita e nuovi modelli di società.
Per quello che mi riguarda non esiterei a fare politiche in tal senso anche concedendo vantaggi fiscali e contributi a chi volesse trasferirsi in certe aree. Fosse per me il “reddito di cittadinanza” lo darei a giovani che vanno a vivere nelle terre alte, la nostra bella e troppo abbandonata montagna.
Dobbiamo rimettere la società in armonia con la natura. Come dice Papa Francesco “E’ fondamentale cercare soluzioni integrali, che considerino le interazioni dei sistemi naturali tra loro e con i sistemi sociali.” ( Laudato si’)
Proviamo tutti a misurarci con idee nuove, con scelte politiche diverse e coraggiose, con percorsi e stili di vita attenti alla persona e non al possesso delle cose o al mito di fragili “successi”. Questa tragica pandemia può essere una occasione da non sprecare.
Alessandra Tazza
27 aprile 2020