Costruire un nuovo umanesimo, di Livia Turco

La diffusione del Covid-19 invisibile ed impalpabile eppure mortale ci ha fatto sentire che non siamo onnipotenti ma fragili. La scoperta della fragilità è l’esperienza che stiamo facendo. Che non dobbiamo vivere solo come debolezza o come condizione passeggera ma come la restituzione della nostra reale condizione di esseri umani, la reale condizione della nostra umanità. Dobbiamo elaborare questa condizione di fragilità per capire cosa significhi e far scaturire da essa nuovi pensieri, nuovi paradigmi con cui guardare il mondo. 


Ciò che di sconvolgente è avvenuto con la diffusione del Covid-19 cambia lo sguardo sul mondo. Non si può dire “torneremo come prima” perché questo significa non capire quanto è successo. Un virus oscuro che tiene in scacco l’umanità, che lacera la nostra economia, che getta le persone nella miseria, che vede a New York scavare le fosse per seppellire le persone povere che non avevano i soldi per curarsi e che sono morti,che ci guarda le file dei camion della Difesa italiana in un lungo corteo che trasportavano le bare in cerca di luoghi tra le varie città in cui seppellirli. Migliaia di persone anziane morte sole, senza il sorriso e la carezza dei propri cari.

Tutto quanto è successo ci fa vedere il mondo malato che abbiamo costruito noi. “Ci credevamo sani in un mondo malato” ha scritto Papa Francesco. La malattia scaturisce da una forza motrice potente che ha avuto i suoi meriti ma che nella sua unilateralità ha prodotto gravi danni: il motore della onnipotenza dell’uomo su ogni parte del mondo, del progresso come continua crescita ed arricchimento. Che si è tradotta in un esercizio della supremazia dell’uomo considerata normale e scontata che ha ferito le parti del mondo che non si lasciano dominare dalla supremazia dell’uomo come l’ambiente in cui viviamo, gli animali con cui conviviamo. Il mito della onnipotenza che si è accompagnato con quello dell’individualismo. Della ipertrofia dell’io.

La diffusione del Covid-19 invisibile ed impalpabile eppure mortale ci ha fatto sentire che non siamo onnipotenti ma fragili. La scoperta della fragilità è l’esperienza che stiamo facendo. Che non dobbiamo vivere solo come debolezza o come condizione passeggera ma come la restituzione della nostra reale condizione di esseri umani, la reale condizione della nostra umanità. Dobbiamo elaborare questa condizione di fragilità per capire cosa significhi e far scaturire da essa nuovi pensieri, nuovi paradigmi con cui guardare il mondo.

Elaborare e costruire un nuovo umanesimo che ci consenta di curare il mondo malato, di pensare e realizzare un mondo nuovo. La fragilità ci fa sentire più forte il legame che ci unisce l’uno all’altro, l’essere tutti sulla stessa barca. Ma questa consapevolezza e percezione non si traduce automaticamente in un sentimento di solidarietà, in una visione solidale ed inclusiva della società. Bisogna elaborare un pensiero sulle interdipendenze, sulle interconnessioni che ci uniscono e far cogliere il vantaggio ed il senso dell’essere comunità. Trasformare l’interconnessione in solidarietà. Elaborare un’idea di società, le pratiche sociali e politiche che possono realizzarla. Questa è la sfida che abbiamo difronte.

La salute ci ha calato nel mondo globale ed abbiamo capito che la salute è un bene primario e globale. La salute è il bene primario perché coincide con la vita umana, deve avvalersi di politiche globali, di istituzioni globali tra loro interconnesse. La salute diritto fondamentale e bene comune che si costruisce nella comunità deve essere il nuovo paradigma ed il punto di partenza per far sentire concreto e prossimo il legame comunitario e fare crescere il sentimento del mondo globale. Per comprendere e sentire il valore delle istituzioni sovranazionali bisogna che esse siano radicate nei nostri bisogni quotidiani e beni comuni. Quanto è stata fondamentale, ad esempio, l’Organizzazione Mondiale della Sanità nella gestione di questa pandemia, tanto che già nella Conferenza di Alma Ata del 1978 aveva indicato l’obiettivo della salute globale, costruita nella comunità come benessere della persona. Ci stiamo rendendo conto difronte ai drammi della disoccupazione, della povertà, che, o abbiamo una Unione Europea, o nessun paese potrà vincere da solo questa dura battaglia. A partire dalla salute e dunque dalla vita umana possiamo imparare a sentirci cittadini europei a capire il valore prossimo, legato alla nostra vita di una Europa unita.

Tempi di vita come grande questione sociale

In questi giorni abbiamo vissuto la strage dei nostri vecchi. Le persone cui dobbiamo la nostra democrazia, lo sviluppo, il benessere, i nostri affetti più cari. Guai se questa strage fosse accompagnata da un sentimento di ineluttabilità. In un tacito relativismo etico, in una nascosta cultura dello scarto, “comunque erano vecchi”. La tragedia che abbiamo vissuto e viviamo deve farci amare ancora di più i nostri vecchi e sollecitarci ad aprire un dibattito pubblico sul valore della vita in ogni sua stagione. Sul significato della vecchiaia, sul come viverla con dignità, tenerezza, sostegno e solidarietà. Affrontare il paradosso per cui siamo un paese che invecchia e non ha mai promosso un dibattito pubblico sulla vecchiaia e contemporaneamente lascia i giovani in una condizione di precarietà.

Ed allora bisogna parlare del ciclo della vita scandito nelle sue diverse stagioni. Esse corrispondono a funzioni ed obblighi sociali, certo ineludibili, ma sono, ciascuna, stagioni della vita con eguale valore che dobbiamo imparare a vivere ciascuna con la propria peculiarità e con la mescolanza dei diversi tempi di vita: studio, lavoro, formazione, tempo della cura, tempo per sé. Questa mescolanza dei tempi in ogni fase della vita è il modo concreto per dare valore alla vita umana e realizzare la parola d’ordine ”per una vita che duri tutta la vita”.

Bisogna costruire politiche del lavoro, uno sviluppo economico, un sistema di welfare, politiche urbanistiche che abbiano questa ambizione. Il tempo, i tempi della vita, la loro scansione sociale, la loro fruibilità e mescolanza è questione cruciale per costruire una società umana. Tempi di vita e di lavoro che già sono cambiati in questa drammatica crisi. Abbiamo assistito ad un mutamento profondo del lavoro. Lavoro in casa, telelavoro, lavoro agile. Che con una rapidità strepitosa, ha ridefinito le connessioni spazio -tempo; tempo per il mercato e tempo per la cura perché quel lavoro si svolge nel luogo per eccellenza che è la casa.

Un cambiamento per cui le donne si battono da decenni e che si è materializzato in nuove forme dentro questa drammatica crisi nel giro di poche settimane. Abbiamo visto squadernarsi difronte a noi le tante forme di lavoro e le differenti forme di tutele. Il vecchio tema, lavori tutelati e lavori non tutelati non solo non si è risolta, si è anzi aggravata. Ed il tempo di lavoro per molti, in particolare giovani, si pone come “tiranno” degli altri tempi della vita, cosi scarso, così necessario che lo si accetta a qualunque condizione. L’uso del tempo è rivelatore delle diseguaglianze sociali e può fomentare diseguaglianze. La preparazione della ripartenza economica ha come riferimento il principio imposto dalla salute del “distanziamento” tra le persone a partire dai luoghi di lavoro ed in quelli pubblici.

Vediamo che questa esigenza incide sui tempi, sugli spazi, impone un tempo sociale più lento, un tempo di lavoro che si snoda lungo tutto l’arco della giornata, la dove non è possibile realizzare il lavoro agile a casa, richiede la possibilità di utilizzare i servizi quotidiani e sociali in un arco di tempo più ampio, si dice giustamente che bisogna evitare le ore di punta, con la conseguente congestione del traffico. Si discute di come fanno i genitori che tornano al lavoro a lasciare i propri figli a casa. Questo ripropone l’importanza di tempi e spazi per l’infanzia e l’adolescenza che siano di sostegno alle famiglie ed alla attività formativa delle scuole. Siamo in emergenza, urgono soluzioni urgenti ma questi non sono questioni emergenziali ma l’espressione di bisogni e problemi da cui partire per riprogettare la nostra società a partire dalle definizione dell’agenda politica.

Ci vuole un Piano Regolatore dei tempi nelle città per ampliare e connettere le opportunità di studio, di servizi sociali e sanitari, culturali con il tempo di lavoro. Una società permanentemente attiva ha bisogno di una società che offra un ampia gamma di opportunità, che sia aperta e solidale. Ha bisogno di riscoprire e di rivitalizzare i suoi luoghi e spazi. Solo così si possono realizzare le connessioni tra i tempi di lavoro ed i tempi di vita e dare la possibilità a ciascuna persona di vivere la mescolanza dei diversi tempi di vita. Bisogna costruire un welfare che riconosca dignità, diritti e tempi di vita a tutti i lavori. Bisogna riconoscere il lavoro di cura, la sua centralità economica, sociale, di costruzione della comunità. Tempo pubblico per eccellenza che deve essere riconosciuto, tutelato e valorizzato nelle diverse forme in cui il prendersi cura si manifesta: lavoro famigliare, cittadinanza attiva. Tempo e cura per l’infanzia, tempo e cura per gli anziani.

Un documento recente elaborato da studiose e donne impegnate nelle associazioni categoriali parla di una Democrazia della cura. Io penso sarebbe utile lavorare ad una Legge quadro sul lavoro di cura a partire da alcuni provvedimenti urgenti come il sostegno economico a chi oggi è colf e badanti, dalla emersione del lavoro in nero attraverso la regolarizzazione e la possibilità per le lavoratrici ed i lavoratori della cura quando si ammalano di vedere il tempo della malattia a carico dello Stato e non del datore di lavoro peraltro per soli 15 giorni a prescindere dalla gravità della malattia.

Costruire la comunità competente

Per trasformare le interconnessioni in solidarietà è fondamentale costruire la comunità competente.

 Questa scelta deve orientare lo sviluppo economico e sociale, le politiche di welfare, il senso e le forme della democrazia.

La globalizzazione che abbiamo conosciuto ha impoverito i nostri territori del lavoro, delle identità culturali, della partecipazione democratica facendoli sentire luoghi estranei e creando spaesamento e solitudine. Si può ridare senso alle istituzioni europee, si possono fare sentire utili e vicine le istituzioni internazionali, si può far crescere un sentimento europeo se queste contribuiscono a rianimare i territori in riportando in quei luoghi il lavoro, le opportunità di vita, i fondamentali beni comuni , con istituzioni democratiche che valorizzano le identità culturali e favoriscono nella vita quotidiana l’incontro ed il legame tra le persone sollecitandoli nelle loro competenze ad essere protagonisti del dibattito pubblico e delle decisioni pubbliche.

Costruire il senso e la concretezza della comunità a partire dai mondi vitali è il modo per fare si che quel sentimento e consapevolezza “siamo tutti sulla stessa barca” faccia crescere il sentimento e la consapevolezza della positività e della bellezza di diventare cittadini del mondo.

La salute come diritto fondamentale e bene comune che costruisce la comunità.

Bisogna tornare ai fondamenti, alle indicazioni della Organizzazione Mondiale della Sanità che nella Carta di Ottawa del 1986 afferma che: “La salute è creata e vissuta dalle persone all’interno degli ambienti organizzativi della vita quotidiana: dove si lavora, si studia, si gioca, si ama. La salute è creata prendendosi cura di se stessi e degli altri, essendo capace di prendere decisioni, e di avere il controllo sulle diverse circostanze della vita, garantendo che la società in cui uno vive sia in grado di creare le condizioni che permettono a tutti i suoi membri, di raggiungere la salute. Fattori economici, politici, sociali, culturali, ambientali, comportamentali e biologici possono favorire la salute ma possono anche danneggiarla”.

Dunque bisogna promuovere “la salute in tutte le politiche” attraverso i programmi intersettoriali della salute. Tutti parlano di rilanciare la Medicina del territorio, ma cosa intendiamo con questa definizione? Anche qui torniamo ai fondamenti, alla Conferenza di Alma Ata del 1978 della OMS che definisce le cure primarie “il primo contatto degli individui, delle famiglie, la comunità con il sistema sanitario del paese, portando l’assistenza sanitaria quanto più vicino è possibile a dove la popolazione vive e lavora, costituendo il primo elemento di un processo continuo di assistenza”.

Bisogna investire su le Case della salute che vantano un lungo percorso sperimentale e legislativo (Patto per la Salute 2006) ma sono state realizzate sul territorio nazionale in modo difforme, a volte come semplice accorpamento di servizi territoriali. Esistono delle buone pratiche ispirate dalla idea guida della comunità competente, che hanno realizzato una integrazione tra servizi sanitari, sociali, educativi, con team multi-professionali ,la promozione della medicina d’iniziativa e l’attivazione della partecipazione competente dei cittadini. Sarebbe utile conoscerle e discuterle in un dibattito pubblico. C’è bisogno che il Ministero della Salute promuova una vasta e partecipata Conferenza nazionale sulla medicina territoriale per definirne il significato e gli indirizzi concreti e le riforme necessarie. La medicina del territorio si basa sulla integrazione socio sanitaria, prevista dalla legge 833/78 e riproposta dal Decreto legislativo 229/99. Ma per fare questo, come deciso da una legge di riforma 20 anni fa, la 328/2000 bisogna costruire il pilastro delle Politiche Sociali con il Fondo Sociale, il Piano sociale Nazionale ed i Livelli essenziali di Servizi e prestazioni.

Il pilastro delle politiche sociali

Credo che oggi ci sia un bisogno acuto di promuovere una lettura condivisa dei bisogni sociali del nostro paese a partire da una discussione che nei territori attivi la comunità competente. Abbiamo bisogno di comprendere e condividere i bisogni nuovi dei nostri bambini, dei nostri adolescenti per favorire la loro crescita, socializzazione, formazione e fornire gli interventi adeguati; abbiamo bisogno di aggiornare una lettura condivisa di cosa significhi oggi invecchiamento, di come promuovere l’invecchiamento attivo, di come prevenire, rallentare e prendere in carico la non autosufficienza; aggiornare i bisogni delle famiglie nell’esercizio della normale e quotidiana funzione di cura ed educativa.

Aggiornare la lettura delle fragilità. Per arrivare a definire, attraverso un percorso partecipato e condiviso un Piano Sociale nazionale ed i Livelli essenziali delle prestazioni e dei diritti sociali che garantisca una vera presa in carico delle persone a partire dalla infanzia, dalla vecchiaia, dalle fragilità e sia di sostegno alla normalità della vita delle famiglie. Superando la quantità disordinata di bonus e di fondi specifici che sono inefficaci e lasciano soli i Comuni ed obbligano il Terzo Settore ad affrontare i problemi sociali secondo la logica di progetti al minor costo, precari nel tempo che non garantiscono una vera presa in carico delle persone. La rete integrata dei servizi sociali è l’interfaccia necessario per costruire la salute della comunità. Può e deve svolgere una funzione di connessione tra i diversi beni comuni. Si potrebbe passare dall’attuale Piano Sociale di Zona al Progetto di Comunità coordinato dai Comuni con il compito di promuovere una co-progettazione degli interventi relativi ai diversi beni comuni, coinvolgendo le differenti professionalità, i soggetti del volontariato e del Terzo settore, le fondazioni bancarie, le imprese.

Il Piano Sociale ed i Livelli essenziali sociali devono essere promossi e coordinati dai Ministeri del Lavoro e Politiche Sociali, Ministero della Salute, della Famiglia e della Pubblica Istruzione.

La democrazia della cura

La comunità competente e l’interconnessione che produce solidarietà deve riconoscere il valore strategico del prendersi cura della persona come ingrediente della cittadinanza.

Bisogna riconoscere il ruolo economico, sociale, democratico del Terzo settore.

Ma bisogna che il prendersi cura diventi una responsabilità esercitata da ciascun cittadino e che questa dimensione del tempo sia riconosciuta come un tempo pubblico, un dovere cui ciascuno si senta chiamato per dare il suo contributo alla comunità.

Sono convinta che il Servizio Civile per i giovani sia una straordinaria scuola ed un modo concreto per riconoscere sul piano simbolico il ruolo pubblico del prendersi cura, sarebbe importante diventasse davvero universale ed anche obbligatorio. Si potrebbe pensare anche ad un servizio civile per gli anziani , per valorizzare le loro competenze, promuovere la loro attività e costruire la solidarietà tra le generazioni.

La Democrazia deliberativa

La democrazia deliberativa è quella che promuove in modo permanente un’Agorà per coinvolgere i cittadini nelle più importanti scelte della comunità. Promossa dall’Ente Locale, dal Comune potrebbe essere una pratica politica di partecipazione attiva dei cittadini alle scelte fondamentali del proprio territorio. Essere coinvolti come cittadini- italiani e nuovi italiani- nelle scelte che le istituzioni locali deliberano in merito alla comunità ed alla vita delle persone, essere coinvolti nella deliberazione delle scelte con percorsi di discussione, condivisione, consapevoli che il proprio punto di vista espresso in modo pubblico conta, incide, nella formazione delle decisioni, costituisce un collante prezioso, fa scattare nell’animo delle persone un sentimento di appartenenza, condivisione e di responsabilità, sollecita ciascuno ad esprimere la propria competenza, promuove concretamente la comunità competente. 

Livia Turco

da: Immagina.it

01 maggio 2020