I tempi delle città. Una ripresa di riflessione, di Donata Gottardi

Il tempo è una delle dimensioni basilari del lavoro, al centro dei principi costituzionali, fonte di determinazione delle retribuzioni nella contrattazione collettiva, punto di snodo degli strumenti per la conciliazione tra vita professionale, vita familiare e vita personale. In tutte queste prospettive, il tempo tuttavia quasi sempre finisce per corrispondere a orario di lavoro nel rapporto di lavoro subordinato, senza occuparsi della realtà sociale in senso ampio.


Fin dall’esplosione della pandemia si è iniziato a comprendere la necessità di intervenire per ridisegnare le città, tema solo apparentemente lontano dalla riflessione giuridica e, in particolare, da quella giuslavoristica.

Il tempo è una delle dimensioni basilari del lavoro, al centro dei principi costituzionali, fonte di determinazione delle retribuzioni nella contrattazione collettiva, punto di snodo degli strumenti per la conciliazione tra vita professionale, vita familiare e vita personale. In tutte queste prospettive, il tempo tuttavia quasi sempre finisce per corrispondere a orario di lavoro nel rapporto di lavoro subordinato, senza occuparsi della realtà sociale in senso ampio.

Nel nostro Paese, l’apertura oltre i confini si è registrata una sola volta, sebbene con tutto l’onore di rivestire un ruolo centrale in una delle leggi di inizio secolo, ben conosciuta per i cambiamenti apportati soprattutto in materia di congedi e genitorialità.

Era l’anno 2000 quando la legge n. 53 dedicava l’intera parte finale ai ‘Tempi delle città’. Il settimo Capo contiene l’elencazione dei compiti attribuiti alle regioni e ai comuni, la previsione di Piani territoriali degli orari, l’attivazione di Tavoli di concertazione, l’invito a riflettere sugli orari delle pubbliche amministrazioni, la creazione di banche del tempo e la costituzione di un Fondo per l’armonizzazione dei tempi delle città.

Il presente è d’obbligo, visto che la disciplina è tuttora vigente. Eppure, tornare a parlare oggi di ‘tempi delle città’ sembra anacronistico, quasi come riaprire un vecchio diario e chiedersi quando e come lo si era perso. Sembra siano passati ben più dei due decenni dall’emanazione di questa disciplina, che sembra affidata ad un tempo remoto, privo di attualità e di utilità.
Per comprenderne i motivi è necessario brevemente ricordare i contenuti della disciplina e i suoi fondamenti.

La prospettiva trasfusa nella legge dalle sue ideatrici – qui il plurale femminile è d’obbligo – aveva tra gli scopi principali quello di rendere meno rigidi gli orari del lavoro per il mercato per fornire pluralità di scelte e consentire l’adattamento con i tempi flessibili del lavoro di cura.

In realtà, fin da subito è apparso evidente che anche il lavoro di cura è ampiamente legato agli orari rigidi dei servizi (sociali, assistenziali, sanitari), finendo per creare l’incrocio di doppie rigidità. Inoltre, sono emersi i doppi ruoli. Non solo il doppio ruolo delle donne impegnate sia nel lavoro professionale sia nel lavoro nella famiglia, ma, ancor più in generale, il doppio ruolo spesso rivestito da chi è simultaneamente lavoratore/lavoratrice e utente. Ed è curioso che queste riflessioni siano avvenute proprio negli stessi anni in cui si è intervenuti per legge su un altro fronte: quello che ha portato a definire i limiti esterni al diritto di sciopero, mediante contemperamento tra diritti di pari rango costituzionale, nei servizi pubblici essenziali, anche sulla base dell’ampia corrispondenza tra lavoratori e utenti.

Nella nostra prospettiva si trattava di quella che era ritenuta una eccessiva coincidenza tra l’orario di lavoro della maggior parte dei lavoratori e gli orari di apertura dei negozi e dei servizi rivolti al pubblico, che provoca disagi e rende difficile l’organizzazione dei tempi e la soddisfazione delle esigenze.
L’intervento, in altri termini, avrebbe dovuto ‘desincronizzare’ gli orari, frutto di pervasività dei modelli tradizionali e dei vincoli legislativi.

Negli anni successivi, tuttavia, le esperienze sono rimaste limitate nonostante la loro importanza, tanto da far pensare che la qualità abbia prevalso sulla quantità, ma che questa alla fine abbia finito per condizionarne lo sviluppo.
Si può qui dar conto di alcune leggi regionali. Tra queste la regione Marche, con interventi per il coordinamento dei tempi delle città e la promozione dell’uso del tempo per fini di solidarietà sociale (l. n. 61 del 2001); la regione Toscana, con il governo del tempo e dello spazio urbano e pianificazione degli orari della città (già con l. n. 38 del 1998); la Regione Lombardia, con le Politiche regionali per l’amministrazione e il coordinamento dei tempi della città (l. n. 28 del 2004); la Regione Abruzzo, di pari titolo (l. n. 40 del 2005).

Vanno inoltre ricordati alcuni dei più significativi e conosciuti Piani territoriali degli orari. Alcuni di questi hanno anticipato il provvedimento legislativo del 2000. Il primo piano del ‘Tempo e orari della Città’ risale addirittura al 1989 ed è stato adottato a Modena e rivolto in particolare all’aumento, all’estensione e alla flessibilizzazione degli orari dei servizi per l’infanzia. Il secondo è quello di Milano, presentato in tre volumi nel 1994, che prevede l’istituzione di un apposito Ufficio Tempi e Orari della Città e sperimentazioni nei quartieri utili per l’implementazione più generale. Altri esempi sono quelli di Bolzano, di Cremona, di Torino, di Pavia, di Firenze, di Desenzano, comuni di diverse dimensioni, accomunati dalla condivisione dell’esigenza di fornire risposte efficaci in materia di gestione e coordinamento dei tempi.

I risultati forniti dalla consultazione delle banche dati on line sono tuttavia illuminanti. Quasi tutti i progetti sono concentrati nella prima metà degli anni ‘2000 e rimangono cristallizzati a quel periodo. Confrontando la pagina attuale dell’ente territoriale che si era dotato del piano territoriale con quella che lo illustra, è agevole rilevare come il piano non esista più o non siano più state aggiunte informazioni sul suo sviluppo, in grado di alimentarlo e dar conto della realtà applicativa. In numerosi casi sono addirittura segnalati finanziamenti su bando a progetti pilota, senza che siano stati adottati piani e siano stati raggiunti risultati.

Ma perché la vivacità di iniziative di quel periodo si è spenta o sterilizzata? L’analisi sociologico-antropologica può aiutare a comprendere come mai se ne abbia avuta una limitata attuazione, rimasta ampiamente sulla carta, nonostante alcune importanti lodevoli eccezioni. Sotto il profilo giuridico, possono essere avanzate alcune ipotesi.

La prima. L’idea dei ‘tempi delle città’ nasce in anni risalenti. Nel nostro Paese, siamo a metà anni ’80 quando inizia una riflessione che porterà nei primi anni ‘90 alla presentazione di una iniziativa di legge popolare dal titolo “Le donne cambiano i tempi” proposta dal partito comunista. Come risulta evidente, non eravamo già più nella città fordista, i cui tempi coincidevano con i tempi del lavoro nella produzione e dove gli spazi segnavano anche i diritti delle persone, ma senza avere ancora chiara la percezione della direzione dei cambiamenti. Si parlava in quegli anni di società ‘post-industriale’, senza riuscire ancora a identificarne le caratteristiche. Siamo, in altri termini, in una fase di transizione percepita, ma ampiamente incognita.

La seconda. La normativa prevede la distribuzione di risorse erogate da un apposito Fondo. Il Fondo ha avuto vita breve: gli stanziamenti hanno tardato a lungo ad arrivare e si sono interrotti quasi subito. Il destino del Fondo in realtà ha anticipato quanto è avvenuto a livello più generale all’intera normativa promozionale della parità di opportunità per donne e uomini. E’ un intero decennio di politiche di sostegno e finanziamento di azioni positive rivolte a colmare le discriminazioni di genere a fallire. Le innovazioni legislative che iniziano con la legge n. 125 del 1991 e si completano con la legge n. 53 del 2000, pur tuttora incorporate nel codice parità (d. lgs. n. 198 del 2006), sono quasi completamente scomparse o sfumate. Come ormai ben sappiamo, le agevolazioni spesso costituiscono il lato oscuro e ‘drogato’ di esperienze attivate per un mercato altrimenti inesistente, che alimenta professionalità di superficie.

La terza. L’impianto normativo si fonda su tavoli di concertazione in grado di coinvolgere la pubblica amministrazione, le associazioni sindacali e le parti sociali in senso ampio. Le pratiche di concertazione hanno visto il tramonto a livello nazionale proprio nel momento in cui è stata emanata la legge, provocando un impatto anche a livello territoriale, dove l’attenzione è stata progressivamente attratta su altri fronti, come quello occupazionale.
La quarta. I cambiamenti in atto negli ultimi anni hanno inciso radicalmente sulla prospettiva temporale vissuta come polverizzata e, quindi, non governabile.

A cambiare sembra essere lo stesso senso del tempo, con la percezione diffusa del superamento delle rigidità e il conseguente impoverimento dell’idea base fondativa: quella di affidare all’amministrazione territoriale l’ambizioso progetto del governo mediante coordinamento dei tempi, in modo da far incontrare quelli rigidi dei servizi al pubblico (pubblici o privati) con quelli flessibili necessari per soddisfare le esigenze individuali, per lo più provenienti dalle donne, di conciliazione tra lavoro professionale e lavoro di cura.

Come si vede sempre di lavoro si tratta, benché diversamente riconosciuto e riconoscibile. In realtà, una parte della riflessione proveniente dal pensiero femminile/femminista puntava al tempo per sé, preso in considerazione solo in alcuni documenti provenienti dalle istituzioni dell’Unione europea, che non si limitano a collegare tempo professionale e tempo familiare, ma introducono, a differenza della normativa nazionale, anche quello personale.

Questo rende ancora più evidente lo scollamento tra un impianto normativo fondato sul lavoro stabile e diffuso, che mette sotto silenzio il lavoro femminile non riconosciuto, e una realtà in cui il primo caratterizza un’area sempre più ristretta, sopravanzato da fenomeni di disarticolazione e frammentazione del lavoro, a cui sono state estese le tutele del lavoro subordinato, ma senza riuscire ad applicarle.

Se negli anni ‘2000 alcune delle difficoltà erano determinate dai vincoli, talora incrociati in fonti diverse (si pensi alle difficoltà di modificare i contenuti della contrattazione collettiva su uno dei temi più classici come l’orario di lavoro), negli anni successivi, all’opposto, sembrano derivare soprattutto dalle flessibilità polverizzate, plurali e fluide.

Gli orari di lavoro sono diventati più flessibili, con l’introduzione ad esempio anche nel lavoro subordinato più tradizionale dell’orario multiperiodale e, più recentemente, del lavoro agile. Numerosi interventi si sono registrati anche nel lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni. La flessibilizzazione ha avuto ricadute importanti sugli orari di apertura dei servizi, con la rimozione di storici vincoli, ad esempio con riferimento al lavoro domenicale.

Ha senso allora pensare di riattivare il meccanismo legislativo inceppato? Ha senso tornare a interrogarsi sull’utilità e l’importanza di affrontare il tema dei tempi delle città e dei loro quartieri?

A mio avviso si sarebbe dovuto fare già prima della pandemia. Infatti, fermo restando che era innegabile che il quadro di riferimento fosse profondamente modificato e in via di progressivo ulteriore cambiamento, una analisi approfondita portava a ritenere che non tutto era diventato flessibile nella gestione dei tempi e che analizzare i tempi avrebbe consentito di comprendere quanto nella realtà si fosse modificato il substrato sociale, compreso il mondo del lavoro.

La polverizzazione e frantumazione del tempo non è mai stata pervasiva. Una parte significativa delle attività continuava a pulsare secondo ritmi costanti, pur nel quadro di modifiche nelle relazioni spazio-temporali tra abitazione, luogo di lavoro e servizi, con reti prodotte su scale diverse, dimostrando l’impatto delle tecnologie informatiche sul tempo risparmiato (accesso on line ai servizi) e sul mondo del lavoro (proliferazione di spazi offerti con piattaforme).
Erano sicuramente indicatori di continuità i picchi orari – giornalieri, ma anche annuali – del traffico. E forse può bastare qui ricordare quanto gli orari scolastici fossero rimasti gli stessi, se non ancora più irrigiditi e limitati.

Come sempre, i cambiamenti intensi appaiono più visibili della sotterranea continuità.
La prospettiva per il futuro è ancora tutta da esplorare, ma la presa di coscienza di quanto la convivenza con i fenomeni epidemici o pandemici ci stia catapultando in cambiamenti radicali rendono inevitabile un ripensamento dei tempi e dei ritmi delle città.

Niente di più vicino al progetto che ha visto la luce esattamente vent’anni fa. Se l’impianto della legge n. 53 del 2000 può considerarsi superato, la sua portata culturale è invariata e richiede una integrazione di analisi al fine di adottare una visione complessiva: comprendere i ritmi temporali consente, infatti, di risalire alle determinanti dei cambiamenti e di fornire strumenti di governo dei territori.

Non lasciamo questo tema ai tecnici, ma riprendiamolo nelle nostre mani, come donne impegnate nel sociale e attente al benessere delle persone. Mai come oggi siamo nelle condizioni di farlo, anzi di doverlo fare.

Donata Gottardi

01 giugno 2020