Livia Turco: “Io, comunista italiana, orgogliosa come allora”, intervista di Tommaso Labate

Il tempo di Livia Turco, oggi, è assorbito dal lavoro alla Fondazione Nilde Iotti, che ha fondato anni fa assieme a Marisa Malagoli Togliatti e a una decina di altre amiche e compagne. Prima ancora è stata ministra della Salute e della Solidarietà sociale nei governi Prodi, D’Alema e Amato oltre che parlamentare per diverse legislature, col Pci, poi col Pds-Ds, infine col Pd. Nel 1977 era una giovane comunista arrivata da qualche anno a Torino da Morozzo, duemila anime in provincia di Cuneo. Un anno dopo sarebbe diventata la prima donna a guidare la Federazione dei giovani comunisti di Torino. (Nella foto uno sberleffo di Livia Turco durante una riunione del PDS, nel 1998, da Sette del Corriere della Sera)


Dicono che il tempo lenisca i dolori, addolcisca i ricordi brutti, metta un filtro alle immagini che si vorrebbero dimenticare. Vera in parte la prima, false le altre due. «Quel giorno del 1977 lo ricordo come se fosse adesso. Era il primo ottobre, quarantatré anni fa. Il corpo di quel ragazzo, completamente ustionato, era davanti a me. Noi della Federazione giovanile comunista di Torino eravamo presenti al corteo di Lotta Continua, anche se non avevamo aderito alla manifestazione. Qualcuno dalla folla lanciò delle molotov all’interno di un bar, l’Angelo Azzurro, che si diceva fosse gestito da fascisti, anche se non era vero. Roberto Crescenzio, uno studente lavoratore, era là dentro. Il corpo che avevo davanti ai miei occhi era pietrificato. Non saprei come definirlo se non così, pietrificato...».

Il tempo di Livia Turco, oggi, è assorbito dal lavoro alla Fondazione Nilde Iotti, che ha fondato anni fa assieme a Marisa Malagoli Togliatti, figlia di Iotti e Palmiro Togliatti, e a una decina di altre amiche e compagne. Prima ancora è stata ministra della Salute e della Solidarietà sociale nei governi Prodi, D’Alema e Amato oltre che parlamentare per diverse legislature, col Pci, poi col Pds-Ds, infine col Pd. Nel 1977 era una giovane comunista arrivata da qualche anno a Torino da Morozzo, duemila anime in provincia di Cuneo. Un anno dopo sarebbe diventata la prima donna a guidare la Federazione dei giovani comunisti di Torino.

I suoi genitori la appoggiavano?

«A Morozzo non c’erano i comunisti. La parola stessa assumeva un significato sinistro, lassù. Avevo imparato la dignità della condizione operaia da mio papà ma la mia era una famiglia di cattolici, elettori della Dc. Dovetti andarmene a Torino per fare politica in santa pace».

Lei è cattolica, giusto?

«Messa tutte le domeniche, da bambina persino la lettura della poesia al parroco che se ne andava. Diventai comunista, anzi catto-comunista, quando Enrico Berlinguer teorizzò il compromesso storico. La scoperta più sconvolgente, per tutti quelli della mia generazione, era che ci fossero comunisti che predicavano la violenza e la lotta armata. Credetemi, scoprire l’esistenza del terrorismo rosso, e quanto potesse essere pervasivo presso operai e studenti, fu sconvolgente, lancinante».

Ha mai avuto paura?

«Nel movimento giovanile del Pci ci si sentiva protetti da una storia più grande di noi. Quindi, direi di no. Un po’ cominciai ad averne quando gambizzarono Nino Ferrero, bravissimo giornalista dell’ Unità, che aveva la redazione dove noi avevamo la nostra sede; lanciammo una campagna “contro ogni forma di violenza”, un messaggio che oggi potrebbe sembrare scontato ma che per quell’epoca, mi creda, non lo era».

Nel 1978 diventa la segretaria della Federazione dei giovani comunisti di Torino, prima donna a guidare l’organizzazione nella città della Fiat.

«Il battesimo di fuoco fu con una riunione alla quale era presente Giancarlo Pajetta».

Partigiano, l’uomo dell’occupazione della Prefettura di Milano nel ‘47, grande dirigente nazionale del Pci.

«Mi chiesero di fare un intervento alla sua presenza, una specie di battesimo di fuoco della mia segreteria. Dissi che noi giovani eravamo sconvolti dal terrorismo rosso, che avremmo difeso in ogni modo le istituzioni ma che quelle stesse istituzioni dovevamo cambiarle. I giovani del Pci stavano senza se e senza ma con lo Stato; ma la domanda di cambiamento dello Stato avremmo dovuto raccoglierla, senza esitazioni. Pajetta riprese la parola, disse una cosa tipo “faccio gli auguri alla segretaria dei giovani ma devo dire che inizia molto molto male; fa un intervento per dire che lo Stato va cambiato ma dimentica le cose che lo Stato fa per le nuove generazioni, come il voto ai diciottenni”. Non mi sentii intimidita. Ma sconcertata sì, lo ero, per quella risposta».

L’organizzazione giovanile nazionale era guidata da Massimo D’Alema. A Torino, nel Pci, c’erano Piero Fassino e Giuliano Ferrara. Un pezzo di classe dirigente nazionale degli anni a venire.

«D’Alema dimostrava di essere un leader lungimirante già da quell’esperienza di guida del movimento giovanile del Pci. Anche di Fassino ho incredibili ricordi, guidava la Federazione di Torino quando ero arrivata in città. Ricordo la manifestazione del 1974 per il referendum sul divorzio, venne Nilde Iotti, la dirigente che più di tutti si era battuta perché il Partito sostenesse con convinzione il No all’abrogazione della legge, cosa che all’inizio era tutt’altro che scontata».

 

La solidarietà nazionale delle maggioranze Dc-Pci com’era, agli occhi di una giovane comunista?

«Fu un grande insegnamento che non avrei mai dimenticato, neanche dopo. Il dialogo parlamentare da un lato e la protesta sociale dall’altro portarono all’approvazione di leggi che senza quell’esperienza non sarebbero mai arrivate. La legge Basaglia che chiuse i manicomi, la legge 194 sull’aborto, la 833 che istituiva il Servizio Sanitario Nazionale, la 285 sul lavoro».

Anni dopo lei sarebbe diventata la madre della legge sull’immigrazione pre epoca Bossi-Fini, la legge Turco Napolitano.

«Ne vado ancora orgogliosa. Anche di quello che successe dopo, con l’arrivo della Bossi-Fini, quando i medici italiani protestarono contro il rischio concreto che venisse tolta l’assistenza sanitaria agli immigrati che avevamo introdotto con la nostra legge».

Come fu la fine del Pci?

«Dolorosa. Io ero a favore della svolta di Occhetto ma andavo in giro per i congressi a sostenerne le ragioni con le lacrime agli occhi. Vede, per quelli della mia generazione l’essere altro rispetto all’Unione Sovietica era un tema già risolto. I conti li aveva fatti Enrico Berlinguer, con chiarezza. Ma capivamo con dolore che quella parola, comunismo, in certe parti del mondo aveva un significato che per noi non aveva; e per questo, con dolore, dovevamo rinunciarci».

Come si definirebbe oggi?

«Esattamente come mi definivo allora. Una comunista italiana. E, come allora, di questa storia continuo a essere orgogliosa».

Tommaso Labate

30 ottobre 2020