Quando venni per la prima volta in Italia, nel 2003 avevo appena 23 anni. Sino ad allora ero vissuta in Romania, prima a Vaslui, la città dove sono nata, poi a Barlad e infine a Iasi, il grande centro universitario dove ho compiuto gli studi. A Roma ero venuta in vacanza, per stare due mesi. Dell’Italia conoscevo qualche immagine stereotipata (da cartolina) e quel che vedevo in tv (i canali italiani erano anche allora molto seguiti in Romania). Quel viaggio del 2003 per me fu “fatale”. Vi conobbi un ragazzo, poi lui venne da me in Romania (percorrendo mezza Europa in auto). Insomma, alla fine ci sposammo un anno più tardi. L’Italia da moglie di un italiano mi piacque subito moltissimo: mi piacevano le città, il clima, l’arte, il mare, il colore del cielo. Mi piaceva la gente per strada, e quel modo tutto italiano di vivere un po’ alla giornata, di riderci su, di non prendersi mai troppo sul serio. In famiglia, dove fui accolta come una figlia, che fossi romena non importava a nessuno. Mi volevano bene e basta.
Passarono pochi mesi perché scoprissi l’altra faccia della medaglia. Se chiedevi il permesso di soggiorno (allora ancora la Romania non era nell’Unione europea) ci volevano mesi per averlo; a me l’hanno dato dopo 16 mesi della presentazione della domanda; ci volevano file estenuanti davanti a irraggiungibili sportelli burocratici; e domande e contro domande, bolli, firme, timbri, attese inutili. Come se il fatto d’essere straniera fosse già, da solo, motivo di sospetto. Tant'è che non capii perché mi prendessero le impronte digitali, e al poliziotto che me le prendeva dissi sorridendo, un po' scherzando e un po' no: "Ma mi fate anche la foto segnaletica?".
Leggevo i giornali italiani avidamente (avrei poi cominciato anche a scriverci, a Latina: ma questa è un’altra storia). E scoprivo che i miei connazionali erano citati sempre e solo per le loro malefatte: si ubriacavano, picchiavano le loro donne e le facevano prostituire, erano violenti, campioni nei furti d’appartamento, espertissimi nel clonare le carte di credito. Soprattutto stupratori. C’era in quegli anni una campagna martellante sui romeni delinquenti naturali: e lo stupro sembrava essere il loro sport prediletto. Quando fu uccisa la povera signora Reggiani, in tempi di campagna elettorale, quel delitto divenne l’emblema dell’essere romeni, una specie di marchio d’infamia che ci fu cucito addosso e che sarebbe stato pesante da scrollarci dalle spalle.
Soffrivo molto per tutto questo. Venivo dalla Romania e non me la ricordavo come una specie di Far West. Sentivo anche intorno a me (non in famiglia, per fortuna) l’isolamento che ne derivava. Essere romeni in Italia non era più bello come mi era sembrato quando ero arrivata.
Decisi che dovevo vincere la sfida. Dovevo fare della mia vita la prova che i romeni non erano così come venivano dipinti. Ce la misi tutta. Un amico carissimo, Mauro Cascio, direttore di un giornale on line (ParvapoliS), mi propose di fare del giornalismo, anche attraverso un notiziario locale. Accettai con entusiasmo. Imparai a stare in video, a parlare un buon italiano, a scrivere in stile sciolto concetti a volte complicati. Intanto lavoravo tra i miei amici stretti sui diritti dei romeni in Italia. Con Mauro abbiamo deciso di fare delle iniziative per far conoscere agli italiani la cultura romena. Un primo ciclo di 6 incontri culturali tenuti a Latina si sono rivelati un successo anche perché mi ha dato la possibilità di conoscere tante persone interessati a conoscerci. Poi il tg romeno. Incontravo italiani per strada che dicevano che il notiziario li piaceva anche se non capivano la lingua. Allora ho capito che la strada non era quella. Bisognava rivolgersi in italiano se si voleva far conoscere. Eravamo (siamo) la comunità più numerosa, la più europea, la più simile agli italiani: se avessimo fallito – mi dicevo – sarebbe stata la catastrofe per tutti gli altri immigrati. Avrebbe avuto ragione la Lega Nord, che ci voleva cacciare dall’Italia. Bisognava dimostrare che i romeni erano laboriosi, e onesti, e buoni padri e mariti, e donne serie come le altre. Bisognava rovesciare il cliché.
Ho dedicato a questo scopo tutte le mie energie. Nel 2008 un deputato del Partito democratico, Guido Melis, che avevo conosciuto quasi per caso mi ha chiesto di aiutarlo come sua assistente al Parlamento. Una romena entrava alla Camera dei deputati, sia pure con il cartellino della collaboratrice parlamentare. Da allora molte cose sarebbero cambiate: insieme avremmo scritto un libro sui romeni in Italia (il primo in assoluto) che oggi è tradotto anche in lingua romena da un prestigioso editore universitario di Iasi, la città da cui provengo. Insieme avremmo creato l’associazione dei parlamentari italo-romeni, e incontrato a varie riprese, a Roma e a Bucarest, i parlamentari del mio Paese. Intanto dalla piccola televisione locale di Latina ero passata ai grandi network romeni, diventando la corrispondente in video prima di Realitate-tv, poi di Antena1. Mia madre, a Barlad, mi vede sullo schermo e può dire con orgoglio alle sue vicine di casa: “Alina lavora in tv dall’Italia”.
Insomma, si direbbe che la sfida io l’abbia vinta, almeno sinora. Dal 2011 sono anche cittadina italiana a tutti gli effetti, dopo aver superato l’assurdo slalom burocratico che la legge in Italia riserva a chi chiede d’essere ammesso nella sua comunità nazionale. La cittadinanza l’ho chiesta molto più tardi rispetto a quando ne avevo diritto perché pensavo e penso tuttora che ti devi sentire italiana, che prima di ogni cosa devi amare questo Paese. Leggevo spesso la Costituzione e mi sembrava davvero orrendo quando qualche politico voleva stravolgerla, interpretarla al suo piacimento quando non c’è nulla da interpretare. E’ chiara, civile, democratica, nel vero senso della parola. E da cittadina (romena e italiana insieme, ma io mi sento cittadina di un’Europa unita) mi capita ogni tanto di sollevare gli occhi, mentre l’autobus che prendo ogni mattina per andare al mio ufficio alla Camera passa per Piazza Venezia, e di osservare la mole bianca e imponente dell’Altare della Patria. Ho letto che agli italiani quel monumento piace poco. Che lo ritengono brutto. Che qualcuno in passato lo ha persino chiamato “remington”, per dire che assomiglia a un rasoio elettrico che oggi non si produce più.
Sarà vero. Ma a me quel marmo bianco dice cose importanti, e salirò con gioia la grande scalinata per deporre la corona di mimose delle italiane e nuove italiane, come ci invita a fare Livia Turco: dice che l’Italia di domani è anche mia, è anche di tante ragazze come me. Che con la loro fatica e le loro speranze, con il loro coraggio anche, si sono conquistate un posto in questo Paese. E che vogliono meritarselo ancora.
Alina Harja
06 marzo 2012