E’ un po’ come quelle situazioni nelle quali ci si trova così, per caso, quando meno te l’aspetti. Quando mi è stato chiesto se avessi voluto partecipare a questo evento, mi sono sentita un po’ come in quelle situazioni che ti travolgono in un vortice di sentimenti contrastanti, ma immensi. Avete in mente quando la vostra migliore amica vi chiede se volete farle da testimone di nozze? Oppure ti chiedono di fare da madrina al battesimo del proprio figlio? Insomma una di quelle situazioni nelle quali ci si trova a fare i conti con sentimenti di stupore, felicità, grande onore e paura di non essere all’altezza. Ecco io mi sono sentita così, quando sono stata invitata a questa importante cerimonia.
Oggi ho il piacere immenso di ringraziare formalmente per la prima volta, questo paese, che ha permesso a me, ai miei genitori di migliorarsi, di mettersi alla prova con le proprie forze, non sempre facilmente, e scoprendo e riconoscendo i propri limiti. E’ sempre difficile dire alle persone che ci stanno accanto ti amo, o ti voglio bene, eppure è così semplice e basta poco, ma si dà per scontato. Non l’ho mai gridato a questo mio Bel Paese, forse questa occasione sarà quella più consona, seppur molto formale per i miei gusti, preferisco un intimo sussurro.
Quando mi chiedono se mi piace l’Italia, rispondo beh…è il mio paese, l’Egitto è nel mio cuore scorre nelle mie vene nei miei colori e nei miei tratti somatici lo rappresentano al 100%, è la mia terra, anche se a dire il vero lo conosco molto poco. In Italia mi ci hanno portata all’età di 2 anni“a mia insaputa”. Sono nata a Il Cairo, i miei genitori sono egiziani hanno scelto loro questo meraviglioso paese, del quale adoro e ammiro la storia, la cultura, la musica, tutto. Sono nata e cresciuta in una famiglia mussulmana praticante, ho avuto la fortuna di avere genitori, che tra alti e bassi, non mi hanno negato la possibilità di esprimermi, e vivere al meglio la mia condizione di figlia femmina, araba e mussulmana, offrendomi i mezzi che mi hanno permesso oggi di essere quella che sono, una ragazza emancipata e molto curiosa. Ho giocato a calcio con i maschi, ho viaggiato con i miei compagni di scuola, mi sono laureata, ho approfondito i miei studi con un master, insomma, una vita come quella delle mie amiche italiane, nessuna differenza, forse solo una lingua diversa, il profumo del mashy che aleggiava a casa mia, le canzoni di Oum Kalthum che mia madre cantava a squarcia gola e l’antenna satellitare sul balcone, i vicini credevano che mio padre facesse una spia. Ancora oggi dopo più di un quarto di secolo non riesco a definirmi. Una volta risposi nè carne nè pesce, mi sento più un tofu. Ecco mi definisco una degna rappresentante di questa “Tofu Generation”. Cresciuta in una Milano che adoro, tra studi, preghiera e perché no anche happy hour (rigorosamente non alcolico). Sono stata fortunata a crescere in una Italia ancora molto curiosa, dove “lo straniero”, era visto ancora come un qualcuno da scoprire, da avvicinare, da includere e non escludere, come ahimè accade oggi a causa dei numeri del fenomeno migratorio in crescita esponenziale e la presenza di rappresentanze politiche che vedono la forza nella divisione e non l’unione, che riescono ahimè a dare alla violenza uno specifico colore e una connotazione geografica, politica e anche religiosa. Sono stata per tutto il mio percorso scolastico l’unica alunna straniera delle classi che ho frequentato, questo la dice lunga. Basta ricordarsi che qualche anno fa a Milano in alcune scuole di quartieri ad elevata presenza di cittadini extra-italiani (preferisco definirli così) si è parlato della possibilità di istituire un tetto massimo di alunni di origine straniera. Come se l’italianità fosse un fatto semplicemente anagrafico o burocratico.Ma basta chiamarsi Brambilla o Rossi per essere veri italiani? Conosco Moustafa e Mohammed che non vedono l’ora di compiere 18 anni non per avere la patente, anche, ma soprattutto perché forse riusciranno a colmare quella mancanza con la quale hanno dovuto convivere da quando sono nati in questo paese. Ho vissuto sulla mia pelle cosa vuole dire essere una italiana in stand-by, a metà, credevo di avere un handicap, con tutto il rispetto dovuto a chi realmente soffre fisicamente. Ebbene sì un handicap burocratico, ma che non volevo io, mi ci mettevano gli altri in condizioni di inferiorità dandomi meno opportunità. Il guaio e il rammarico più grande è che era il mio paese e le sue leggi ancora oggi discrimantorie che non mi accettava, non mi voleva. E’ brutto, frustrante non sentirsi amati, corrisposti, io amavo il mio paese…lui no. Ho ottenuto la cittadinanza pochi anni fa. Non perché mi sono sempre comportata bene e con rispetto nei confronti del paese che ha dato alla mia famiglia la possibilità di migliorare le proprie condizioni socio-economiche, ma, come si legge negli atti d’ufficio: per matrimonio…ebbene sì, ho sposato un italiano.Che umiliazione, mi sentivo come quelle badanti dell’est che sposano il proprio anziano assistito per ottenere la cittadinanza. Negli ultimi anni mi sto impegnando, contribuendo a dare voce e visibilità al processo di identità delle seconde generazioni. Purtroppo noto con rammarico, che si continua ad affrontare il concetto di immigrazione, di seconde generazioni, come fossero una emergenza, mentre è un processo a lungo termine, i suoi effetti non sono immediati, ma sono da elaborare e proiettare nel tempo, nel futuro. Ed è anche per questo motivo che ho accettato di far parte e collaborare per il progetto dell’Assessore alle Politiche Sociali Pier Francesco Majorino, il Tavolo delle seconde generazioni, voluto dalla giunta del Sindaco di Milano Giuliano Pisapia. Un grande onore quello di partecipare e contribuire attivamente al processo di cambiamento attuato nella mia amata Milano e spero in futuro in tutta Italia.
Grazie
Rania Ibrahim
06 marzo 2012