Pandemia e smart working, di Grazia Labate

La pandemia ci ha obbligato all’adozione di nuove modalità di lavoro, innescando la marcia verso una transizione inevitabile, complessa da gestire.


Il 2020 è stato segnato dalla pandemia di Covid-19 e dalle conseguenze che essa ha avuto in tutti gli ambiti della vita quotidiana, primo fra tutti il passaggio obbligato allo smart working.
Nel 2021, con l’avvento dei vaccini, uno spiraglio di luce si intravede in fondo al tunnel, ma i dati ci dicono che la curva epidemica non riesce a calare sensibilmente ed il numero dei decessi giornalieri è ancora alto.

Dobbiamo ancora fare i conti con le restrizioni e i comportamenti responsabili fino a quando la copertura vaccinale ci consegni l’immunità di gregge di cui abbiamo bisogno.
La pandemia ci ha obbligato all’adozione di nuove modalità di lavoro, innescando la marcia verso una transizione inevitabile, complessa da gestire.

Il ripensamento di tempi, spazi, modalità di lavoro ha infatti ripercussioni non solo sulla produttività delle imprese, delle persone coinvolte, sui loro stili di vita, ma anche sugli ecosistemi urbani e sull’organizzazione delle nostre comunità.

Sappiamo bene come la modalità di lavoro a distanza, in inglese remote working, in italiano, nell’uso comune smart working, abbia avuto, il sopravvento, per evitare il diffondersi del virus nei luoghi di lavoro. In realtà, in questi mesi non c’è stato un vero e proprio smart working, ma una sua versione forzata dall’emergenza sanitaria. Lo smart working è stato introdotto in Italia già nel 2017, con la legge 81, come una sorta di evoluzione del telelavoro ovvero il lavoro svolto a casa seguendo gli orari d’ufficio in una postazione lavorativa simile a quella “in sede”, spesso fornita di supporti offerti dall’azienda stessa. Lo smart working, inteso come lavoro agile, comporta invece flessibilità, prevede che non ci siano precisi vincoli di orario o di luogo del lavoro.

A contare sono gli obiettivi e i risultati raggiunti. Una ricerca Istat del 2020 ci dice che il 90% delle grandi imprese italiane (con più di 250 addetti) e il 73% delle imprese di dimensione media (50-249 addetti) hanno introdotto o esteso lo smart working durante l’emergenza, contro il 37% delle piccole (10-49 addetti) e il 18% delle microimprese (3-9 addetti).

Anche una ricerca svolta da Microsoft, sempre nell’autunno 2020, in seguito all’emergenza sanitaria la quota di imprese italiane che ha adottato il lavoro flessibile è passata dal 15% del 2019 al 77% del 2020 e il 66% dei dipendenti continuerà a lavorare da remoto almeno un giorno alla settimana anche dopo la pandemia. Secondo la ricerca, svolta su oltre 600 manager, una delle principali sfide del lavoro da remoto sarà ridurre la percezione di essere più isolati e meno relazionati ai propri colleghi, un fattore che potrebbe comportare anche un importante calo nel tasso di innovazione.

Secondo un’indagine di AIDP (Associazione Italiana dei Direttori del Personale), almeno il 68% del campione di aziende indagato, prolungherà le attività di smart working anche nella fase di ritorno ad una “nuova normalità” che si auspica avverrà nel corso del 2021. Tra i maggiori vantaggi riscontrati: risparmio di tempo e costi di spostamento per i lavoratori; miglioramento della vita in termini di worklife balance e aumento della responsabilità individuale.

Un altro dato di riflessione emerge dalla terza edizione della survey “Future of Work 2020”, promossa dall’Osservatorio Imprese Lavoro e Business International: solo il 6% delle imprese dichiara di voler tornare alle condizioni preesistenti senza smart working. Per il 60% delle imprese invece lo smart working rappresenta l’iniziativa più urgente su cui investire per quanto riguarda la gestione delle risorse umane. Un dato interessante è che ad aver ricevuto maggior attenzione e forse ad avere fatto risuonare un campanello d’allarme in chi ha implementato o ha intenzione di implementare lo smart working è il tema della leadership, seguito dal rischio di una diminuzione del senso di appartenenza dei collaboratori (Ansa, 2020). Tra gli svantaggi maggiormente rilavanti sono stati individuati anche la perdita delle relazioni sociali, la mancanza di separazione tra ambiente domestico e ambiente lavorativo; il rischio di un sovraccarico di lavoro. (IlSole24Ore, 2020). In altre parole, far lavorare a distanza è più faticoso, occorre ripensare i sistemi di valutazione, evitare il sovraccarico, diffondere responsabilità e fiducia.

Tutto ciò dimostra quanto sia necessario puntare a modelli di smart working più bilanciati che permettano di recuperare la socializzazione, la comunicazione trasversale, l’identità, anche per evitare che possa perdersi l’effetto inizialmente positivo sull’engagement dei lavoratori.

L’osservatorio smart working, promosso dalla sezione di Economia Comportamentale e Neuroeconomia del Dipartimento di Neuroscienze, Imaging e Scienze Cliniche dell‘Università di Chieti-Pescara, in collaborazione con Umana-Analytics intende fornire alle aziende una valutazione accurata dello smart working focalizzandosi sulle relazioni umane e in particolare sulla fiducia interpersonale, per fornire informazioni utili all’adozione di policy che consentano di creare valore per tutte le parti coinvolte.

Anche il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini, accende i riflettori sullo smart working: ”In futuro qualsiasi persona dovrà acquisire le competenze per il lavoro sia in presenza che in smart working – ha spiegato in occasione del convegno per festeggiare i 40 anni della Filt Cgil. E’ importante che una materia così debba essere discussa nei contratti nazionali di lavoro. In realtà la prestazione lavorativa si comporrà sia del lavoro a distanza che in presenza. Imprese e sindacati devono affrontare questa nuova modalità di lavoro come elemento che integra le competenze e le professionalità. Lavorare a distanza comporta un elemento di cooperazione e di partecipazione delle persone molto più forte e molto più alta, rispetto ad un’organizzazione classica”.

Nella seconda edizione di Future Work, di Alison Maitland e Peter Thomson il lavoro flessibile è visto come un vantaggio, un grande impulso all'efficienza, e alla qualità del lavoro affermano gli autori. “La tua azienda offre orari ridotti, orari di inizio e fine flessibili e settimane compresse, eventualmente aggiungendo del tempo libero per un evento scolastico o persino fitness nel luogo di lavoro? In tal caso, il tuo dipartimento delle risorse umane potrebbe essere molto orgoglioso ma, secondo gli autori del libro, la tua azienda sta semplicemente " riorganizzandosi ai margini".

Le aziende veramente pronte per il futuro hanno messo in atto la tecnologia per consentire ai propri dipendenti di lavorare ovunque. Hanno abolito le idee tradizionali dell'orario di lavoro e stabilito indennità per le ferie. Il personale può lavorare dove vuole, come vuole, purché si soddisfino gli obiettivi dell’azienda e le esigenze dei suoi clienti e del mercato. Questo è il core del ragionamento, ricco di analisi e riflessioni sull'argomento, addotto dai due autori. Alison Maitland è una ex giornalista del Financial Times e senior visiting fellow alla Cass Business School. Peter Thomson era un professionista delle risorse umane ed è Professore del master post laurea in Economia gestionale alla Henley Business School di Reading U.K. Le eccellenti riflessioni degli autori mostrano esperienze aziendali da tutto il mondo, facendone un punto di forza del libro.

All’inizio del 2020 pare che solo 570 mila italiani lavorassero in smart working. Ai primi di marzo, con l’isolamento imposto dal Covid-19, sono improvvisamente diventati 8 milioni.

Domenico De Masi in “Smart working: la rivoluzione del lavoro intelligente” si domanda che cosa è successo nel frattempo, che cosa avverrà nel futuro? Quali le motivazioni che finora hanno impedito il diffondersi di una modalità di lavoro più produttiva, ecologica, meno costosa e stressante? E come cambierà, sul lungo periodo, la nostra routine quotidiana finora scandita dall’alternanza tra ufficio e tempo libero?

Il Prof. Domenico De Masi, che è il maggiore studioso e teorico italiano dello smart working, ha messo a frutto quarant’anni di esperienze e ricerche nel settore e, durante i mesi del lockdown, ha coordinato un’indagine a tutto campo, giungendo alla conclusione che quello in atto sia solo l’inizio di un processo che vedrà rivoluzionato non solo il tempo e il luogo del lavoro, ma il suo significato, il suo contenuto e il suo ruolo. Con il contributo di imprenditori, manager, accademici e ricercatori, ripercorrendo il cammino che ha portato dalla bottega rinascimentale alla rivoluzione digitale, De Masi restituisce un’immagine aggiornata della realtà quotidiana di milioni di lavoratori, e offre gli strumenti per capire quanto dovrà fare l’Italia per adeguarsi ai tempi che evolvono. La domanda che sottende tutto il suo lavoro è qual è la cosa più importante al mondo? Sono le persone.

Le persone sono la risorsa più preziosa che qualsiasi nazione, qualsiasi azienda possiede. Questa ondata di automazione, che è sempre più nota come la “quarta rivoluzione industriale”, scatenerà cambiamenti inimmaginabili nella nostra società e nella nostra vita lavorativa: il luogo in cui lavoriamo, ciò su cui lavoriamo e il modo in cui lavoriamo sono destinati a trasformarsi. Siamo profondamente consapevoli della necessità di innovare e cambiare per competere e prosperare? Siamo consapevoli, in particolare, di quale sarà il ruolo dell'automazione e il suo impatto sul futuro del lavoro? Ciò richiede che i tre grandi attori - governo, imprese e comunità - collaborino come mai prima d'ora. La collaborazione è fondamentale poiché ogni attore svolge un ruolo diverso e possiede abilità e vantaggi unici, per offrire una società migliore e più forte. Tuttavia, le informazioni esistenti, molti sistemi e agenzie governative e molti modelli di business, non sono attualmente predisposti per questo futuro.

Il paese richiede una strategia deliberata con iniziative coraggiose tra governo, imprese, rappresentanze del mondo del lavoro e sistema delle autonomie locali, per sfruttare l'opportunità e garantire che gran parte della nostra società non sia lasciata indietro nell'ondata di trasformazione globale.

È anche chiaro che qualsiasi strategia nazionale non può che essere a lungo termine se vogliamo prendere sul serio l'automazione, perchè è necessario che si verifichi una riforma a livello di sistema, radicale e impegnativa per il nostro attuale approccio all’organizzazione dei tempi di lavoro e di vita. Sapendo che, non possiamo avere le imprese o il lavoro e lo sviluppo economico che ci attendiamo senza agire qui ed ora. Così, la Prof. ssa Franca Maino, Direttrice di Percorsi di secondo welfare, dell’ Università degli Studi di Milano, sostiene che lo sviluppo del welfare aziendale e lo smart working rappresentano una leva per trattenere i lavoratori, i collaboratori, il personale sia dirigente che dipendente, valorizzandone competenze e il know how, rinsaldando il rapporto tra impresa e lavoratore per affrontare la sfida dell’automazione. Inoltre il binomio “lavoro agile e coronavirus” è senza dubbio rappresentativo di enormi progressi in termini di digitalizzazione, ma anche di importanti sfide per imprese, pubblica amministrazione, dipendenti, ecc.

A novembre 2020 l’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano ha evidenziato che «durante la fase più acuta dell’emergenza, lo smart working ha coinvolto il 97% delle grandi imprese, il 94% delle pubbliche amministrazioni italiane e il 58% delle PMI, per un totale di 6,58 milioni di lavoratori agili, circa un terzo dei lavoratori dipendenti italiani, oltre dieci volte più dei 570mila censiti nei primi mesi del 2019». La fine del lockdown ha invece portato a nuovi cambiamenti, con le aziende e la pubblica amministrazione che hanno ricominciato ad aprire gli uffici, promuovendo un’integrazione tra lavoro in ufficio e lavoro da remoto: così, secondo i dati dell’Osservatorio, a settembre «il numero complessivo di smart worker è sceso a quota 5,06 milioni».

Nonostante nel report vengano spesso utilizzate le espressioni “smart working” e “lavoratori agili”, l’Osservatorio ci tiene a precisare che «le modalità di lavoro sperimentate durante l’emergenza sono state per certi versi più vicine al telelavoro [modalità che prevede che il lavoro venga svolto in una sede precisa concordata con il datore di lavoro, ndr] che a un vero smart working». Stando a diversi pareri di esperti o ricerche, infatti, per buona parte dei casi in Italia il nuovo approccio al lavoro, spinto dalla pandemia, non può essere collegato al concetto di lavoro agile, specialmente se si tiene conto di tutti i dipendenti che, una volta terminata la crisi sanitaria, non avranno più la possibilità di scegliere se svolgere le proprie mansioni da casa o in altri luoghi, dovendo svolgerli soltanto presso la sede di lavoro.

Secondo l’Osservatorio vi sarebbero altri fattori positivi: nel 71% delle grandi imprese italiane sarebbero migliorate le competenze digitali dei dipendenti; nel 65% di esse sarebbero stati sfatati dei pregiudizi sullo smart working; si sarebbe verificato, inoltre, un ripensamento dei processi aziendali nel 59% delle grandi imprese e nel 42% delle PA. Una ricerca condotta dal Centro di Ateneo – Studi e Ricerche sulla Famiglia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, basata sulla risposta di 446 persone a due questionari somministrati a marzo e a luglio 2020, si è focalizzata invece sulla risposta dei lavoratori. Stando a questi dati sembra che molti di essi percepiscano questa modalità di lavoro come positiva: più di un lavoratore su due sarebbe molto contento o del tutto contento di lavorare da casa. Tra i lavoratori soddisfatti di lavorare da casa il 79,2% presenta come principale vantaggio il risparmio di tempo e di costi per i viaggi di spostamento casa lavoro; il 64,5% mette in risalto il senso di sicurezza rispetto alla possibilità di contagio; quasi il 60% afferma invece di riuscire a gestire meglio gli impegni della vita privata.

La pandemia ha d’altra parte accelerato in maniera improvvisa e forzata un processo di digitalizzazione che per molte aziende sarebbe probabilmente avvenuto successivamente. La necessità urgente di richiedere ai dipendenti di svolgere le proprie mansioni da casa ha generato delle problematiche di diverso tipo.

Innanzitutto, alcuni problemi riguardano la mancanza di strumenti adatti a svolgere il proprio lavoro da casa: come riportano i dati dell’Osservatorio, il 69% delle grandi aziende ha dovuto aumentare la dotazione di computer portatili e di altri strumenti hardware; il 65% ha dovuto aumentare la dotazione di strumenti per poter accedere da remoto agli applicativi aziendali in tutta sicurezza; il 45% ha dovuto invece aumentare quella di strumenti per la collaborazione e la comunicazione.

A ciò si aggiungono alcuni dati che riguardano PA e PMI: tre PA su quattro hanno incoraggiato i dipendenti a usare i dispositivi personali, mentre il 50% delle PMI non ha potuto operare da remoto. Sebbene questo sia il dato italiano, occorre sottolineare che situazioni simili si sono verificate anche in altri paesi: secondo una nuova ricerca Ricoh che, proprio in relazione al Remote Working, ha raccolto l’opinione dei dipendenti di oltre 630 aziende europee con un organico che va da 250 a 999 persone, che hanno dichiarato di non avere ancora tutti gli strumenti necessari per collaborare adeguatamente da remoto e il 30% dei lavoratori intervistati non riuscirebbe a comunicare con il reparto IT per ottenere supporto tecnologico in caso di problemi, a causa dell’elevato numero di richieste. Un altro aspetto importante riguarda la worklife balance e repentino bisogno di imparare a conciliare lavoro e faccende domestiche (principalmente per i genitori con figli minorenni, la cui situazione è stata resa ancor più difficile dalla chiusura di scuole e asili nido).

Infine la ricerca condotta dal Centro Studi e Ricerche sulla Famiglia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore ha fatto luce anche su questo tema e sull’impatto di questi cambiamenti sul benessere dei dipendenti. Tra i principali svantaggi riportati dagli intervistati è possibile menzionare la mancanza di momenti di pausa nella giornata lavorativa (nel 53,4% dei casi) e lo stress correlato all’uso della tecnologia (per il 51% degli intervistati). Infine, lo studio ha rivelato che un lavoratore su due che lavora da casa percepisce di lavorare più del solito. A questo proposito, la Commissione Europea ha lanciato a luglio 2020 le nuove linee guida relative a ciò che è necessario per essere «competenti a livello digitale», presentando dei case study di aziende che già stanno utilizzando questo framework (noto come “DigComp at Work“) per ottimizzare le performances della propria forza lavoro, fornendo consigli su come farlo in maniera ottimale e strategica.

Nonostante le tante sfide e gli ostacoli, una cosa è certa che ci troviamo ormai in presenza di una modalità ibrida di lavoro che probabilmente diventerà la nuova normalità, non ci sarà più un ritorno di tutti in ufficio o in fabbrica e pochi in modalità agile, ma è probabile che si verifichi l’esatto contrario. È fondamentale che le aziende, la PA, la comunità, il settore pubblico e le scelte politiche aumentino la nostra alfabetizzazione collettiva, si impegnino e affrontino le questioni relative alla trasformazione dell'automazione. Questo è l'unico modo in cui accadrà che il futuro ci appartenga piuttosto che ci sovrasti.

Ci attende un'opportunità significativa. Se prenderemo le decisioni giuste, coglieremo i vantaggi di tale opportunità con sicurezza, assicurandoci al contempo di prenderci cura a vicenda nel processo di transizione. Appare evidente che solo attraverso la collaborazione di tutti, possiamo tutti prosperare verso il futuro. Ci sono già troppe disuglianze da colmare, troppe criticità di sistema che la pandemia ha messo in evidenza ed in certi casi ha fatto e potrebbe far ancor di più esplodere, proprio come per Covid 19 o si vince tutti insieme o non ci potrà essere che uno si salvi da solo.

Grazia Labate

Rcercatrice in economia sanitaria già sottosegretaria alla sanità

 


Fonti:
- Alison Maitland, and Peter Thomson "Future Work", pubblicato da Palgrave Macmillan, nel 2014
- Domenico De Masi: Smart working, la rivoluzione del lavoro intelligente. Marsilio editori 2020
- Microsoft (2020). “Nuovo studio Work.Reworked di Microsoft: il lavoro da remoto rende più produttivi, ma potrebbe provocare senso di isolamento e una riduzione del tasso di innovazione”.
- Post (2020). “Come sta andando lo smart working in Italia”.
- ISTAT (2020). “Situazione e prospettive delle imprese nell’emergenza sa-nitaria covid-19”.
- Ansa (2020). “Smart working, solo il 6% delle imprese ne farà a meno in futuro”.
- Il Sole24Ore (2020). “Lavoro, 2 aziende su 3 in smart working anche dopo l’emergenza”.
- Fondazione Marco Vigorelli: Il lavoro agile durante la pandemia: la sfida delle famiglie italiane.
- Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano.
- Centro Studi e Ricerche sulla Famiglia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore.

18 gennaio 2021